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L’Europa all’ora – di nuovo – del tribalismo slavo
È guerra, “delle
nazioni contro l’Europa e delle nazioni contro se stesse”, tra America e Cina,
“all’interno della stessa America”, di tutti contro tutti, “contro i poveri,
contro le istituzioni democratiche, contro la sacralità della Terra, contro la
natura che non ne può più di noi, guerra persino contro Dio”. Siamo già morti,
e non lo sappiamo?
È guerra contro
gli immigrati, benché inermi e affamati. Dei ricchi contro i poveri, e di
poveri contro poveri. Non imperiale, di conquista e sottomissione, piuttosto di
obliterazione, di sterminio. Feroce, come sono tutte le guerre.
Un racconto lungo
una notte, dell’aprile 2024, da mezzanotte alla sei. Sulle guerre che ogni
giorno si assommano. Con la premessa: “Con le nazioni ho il dente avvelenato”.
Facile. Tanto più per un triestino: facile da “vedere”, fiutare. Dell’“Europa
delle steppe”, come lo stesso Rumiz dice, uno che sa tutto del tribalismo slavo,
“contro l’Europa dei mari”. Un dormiveglia lucido.
È la fine del
mondo? No, c’è chi ci guadagna. Ma la “nuttata” certo sarà lunga - anche se
Rumiz preferisce l’apocalittica lunga notte di Céline si tratta piuttosto di un
travaglio eduardiano.
Sugli immigrati parassiti, che hanno spostato l’opinione in Olanda e Germania,
poche righe.
Sulla Russia un capitolo sparso ma fitto, sul filo:
“Se l’Europa può permettersi di esistere senza la Russia”. Il Donbass regalato (con la Crimea) all’Ucraina
dai russi. Le interdizioni russe. E sei pagine magistrali sul Grande Gioco del
Momento: la spartizione-occupazione dell’Artico, che il vecchio Biden, toltosi
“i Ray-Ban scuri”, spiega alla “sua grande alleata” Meloni - l’Artico libero dai ghiacci libererebbe la
Russia, e bisogna impedirlo. E l’Europa triste, “un concerto stonato di
nazioni. Un baraccone. Un branco di lupi
pronti ad azzannarsi tra di loro. La paralisi”. Non fosse per l’autodissoluzione?
Per incapacità. “Quando l’alleanza cristiana affrontò gli Ottomani a Lepanto,
il contatto col nemico non fu mai interrotto…. Noi invece abbiamo accettato di
azzerare ogni rapporto col Cremlino. Diplomaticamente non contiamo più.
Politicamente siamo finiti. Un baraccone”. Due pagine terrificanti, su e contro
l’Europa.
Molto è contro Meloni, “la papessa”, “una leader
nata”, “la lupa romana”, una che “ammalia con un linguaggio leggero” – e non si
chiede il perché. Con, al centro, due pagine di critica politica da brividi. Sul
“postfascismo del Nord e quello mediterraneo” - “una complementarietà anche
estetica”, tra il mascalzone latino, belloccio e strafottente, e…. (ma i bellocci
e strafottenti non sono i nordici Rutte, Orpo, Kristersson?). Che insieme vanno
a Bruxelles coi forconi, o coi trattori, e impongono l’abbandono della
transizione verde, il libero uso dei pesticidi, e delle sostanze chimiche tossiche,
lo sfruttamento delle terre e dei mari, e niente controlli sulle “emissioni di
bestiame” – della Coldiretti, non degli allevatori e agricoltori francesi (e fiamminghi, tedeschi).
No, “i Signori delle lamentele!”. E naturalmente il “fascismo eterno”. Qui con
una novità, la bionde: Meloni, von der Leyen, Marion Maréchal e Marine Le Pen.
Che sono anche un “gineceo maschilista” – suscitando la curiosità: come saranno
le vere donne al potere, non maschiliste, per esempio Merkel, che “assassinò il
padre” Kohl, Imelda, Bhutto, Indira Gandhi, Sheikh Hasina? Per non dire dell’Italia.
Qui le destre al potere “spingono sui centri commerciali
a scapito dei piccoli negozi e della rete di controllo sociale”. Quando i negozi
di vicinato, con controllo sociale, con contemporanea moltiplicazione dei centri
commerciali, uno adesso ogni pochi kmq, sono stati opera del ministro Bersani,
con le sue “lenzuolate” di liberalizzazioni, licenze facili, e qualche volta
pure gratis, senza “sfioramenti”, ai signori della grande distribuzione, e la
cancellazione del modesto avviamento che faceva la rendita (pensione) degli
onesti commercianti. Il tutto, la falsa liberalizzazione, e gli orari seve\eleven
quando non 0\24, mentre gli angloamericani, i grandi ispiratori di Bersani e altri
residuati Pci, cambiavano già strategia – il mercato soprattutto si vuole innovativo,
va movimentato, ogni pochi anni una nuova strategia e tattica, nuovi bisogni e
nuove offerte – ora per i negozi di vicinato. Bisognerà salvare le destre,
conservatrici?
Non un reportage. Se non delle proprie ansie –
fisime, reazioni a pelle, stizzite, da lettore del giornale, da colonnello in
pensione che scrive al giornale. Ma ha l’idea di un’altra
Europa. Non quella caroligia, renana, franco-tedesca
per intendersi, rugginosa in effetti, da operetta triste, ma quella del suo nome,
della principessa rapita da Zeus in aspetto di toro, mite – quella di Federico
II. Dell’imperatore che riconquistò Gerusalemme senza versare una goccia di
sangue, il monarca illuminato dalla corte itinerante, che aveva al seguito
anche consiglieri arabi, greci ed ebrei. Federico, il migliore dei re d’Italia.
Il tedesco che mise in riga i feudatari, unì il Nord e il S ud del Continente e
separò lo Stato dalla Chiesa. “Più leggo di lui e più mi accorgo che
rappresenta il vertice dei valori oggi più dimenticati”, si fa dire da “Lucia,
colta ed appassionata guida turistica pugliese”.
“Lo spettro della
barbarie in Europa” nelle parole di Rumiz, ispirato, emerge fisico, massiccio.
Ma, poi, sono solo parole. C’è un prima, e in qualche modo ci sarà un dopo. Ci
sono delle cause. Ci sono politiche, e “piani di azione”, di preferenza surrettizi.
Rumiz è un poeta della parola, e non se ne cura. E allora non c’è da
preoccuparsi? C’è. Ma in altro modo. Facendo le domande e cercando le risposte
giuste, al caso.
A p. 16, la
quarta del testo, i primi minuti della prima ora, Rumiz fa l’elenco delle
guerre in corso. Molto preciso. Ma ne manca una, quella degli Stati Uniti
contro la “Fortezza Europa”. Da trentadue anni, dalle guerre jugoslave. Lo
stesso Rumiz, nel 2008, con Monika Bulaj, ne aveva visto i segni (e ne aveva
scritto ampiamente, la serie estiva di corrispondenze “L’altra Europa” per “la
Repubblica”). E su Israele a Gaza, “uno degli eserciti più professionali al
mondo” contro “una specie di ghetto”, propone solo una lista di interrogativi –
quando le risposte sono chiare anche nel fronte sionista. Con la verità, poi,
non nascosta ma fatta dire a un colonnello dello Stato Maggiore austriaco,
Markus Reisner. Storico ma militare, di un Paese che nessuno minaccia anche se
non fa parte della Nato. E da Marine Le Pen, pensare, “con cui non condivido
quasi niente”, quindi per ragioni forti: che vogliamo, fare la guerra alla
Russia? Contestualizzare non allenta la tensione, e forse indebolisce la poesia
– che ne direbbe “quella pericolosa volpe di Henry Kissinger” - ma è
necessario.
Un dormiveglia
sulle guerre. nel mezzo dell’Europa, propriamente, fisicamente, sulla linea di
confine, con “l’Europa delle steppe”, degli slavi. Cioè con la chiave a portata
di mano – non oggi, da quarant’anni. Uomo di frontiera – lui dice di confine,
ma col sottinteso che il confine è fatto per essere superato – Rumiz non
sopporta il filo spinato. E forse non vede – da Trieste sarà meno percettibile,
ma da remoto è invadente – il tribalismo slavo, che non finisce d’imperversare.
Che ha aperto e chiuso il Novecento ma all’evidenza non si è esaurito, non ha
messo di inquietare.
Ma lui se lo dice
anche, seppure di passata, uscendo di casa nel borgo alla frontiera, alla fine
della prima ora d’insonnia: “Qui, a ridosso dei Balcani, ho scoperto che i
nazionalismi sono bestie malate di antagonismo”.
Paolo Rumiz,
Verranno di notte, “la Repubblica”, pp. € 8,90
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