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lunedì 25 giugno 2012

Irrompe la malacreanza nello stagno del Millennio

Comincia come un gioco di parole sulla “creanza”, che al Sud è il resto del pasto – da finire secondo l’autore, da lasciare secondo altre tradizioni, per la servitù (crianza in castigliano) e per non mostrarsi affamati. Sovrimposto alla disattenzione verso i bambini, con l’intercalare ricorrente “che stai facendo?”, una sorta di logo. Comincia come un gioco di bambini, che però ne saranno le vittime - l’horror fa più senso quando tocca i bambini, ma qui non se ne abusa. La storia è di deiezioni: sangue, sperma, merda, le violenze del turismo sessuale, gomme rimasticate, vomito, diarrea, fogne, ratti. Di incapacitazioni: lingue tagliate, arti asportati o fracassati, cornee ablase. E di abbandoni. Continui, costanti: i figli delle madri, le madri dei figli, gli amici degli amici.
Un libro importante, premio Calvino per l’inedito, candidato allo Strega e al Viareggio. Con l’irruenza dell’opera prima (che Calvino redattore sconsigliava ai suoi autori: “Lasciati qualcosa per il secondo libro”), rischiando cioè il catalogo freddo delle turpitudini. Una voce sicuramente singolare nella letteratura stagnante del Millennio. Cinque o sei racconti, di bambini del “profondo Sud”, di bambini vittime di pistoleros, forse in Messico forse in Brasile, o prostituiti al turismo sessuale, o di strada, e di olvidados all’Est, si dipanano intersecandosi in 45 episodi. Che i giurati del Calvino, Barilli, Carlotto, Geda, Mazzucco e Vasta, così sintetizzano nella motivazione del premio: “La temeraria impresa di narrare l’infanzia delle periferie del mondo globale, da Napoli al Brasile ai Paesi dell’Est”. L’andamento è favolistico. I personaggi si metamorfizzano, in una sorta di ragnatela di bave. L’impianto è da fratelli Grimm aggiornato, con qualche durezza in più: la serialità degli episodi, ossessiva, senza mai una catarsi, una pausa. Un romanzo sociale forse, ma da decomposizione quasi esistenziale, da condizione umana, non Unicef. 
Greco ha finito per costruire un incubo prolungato, e una forma di letteratura del male. Notturna, chiusa, senza orizzonte. Mefitica, asfissiante. Di una violenza ribadita, anche troppo, e asintotica, da teatro della crudeltà artaudiano. Con una singolare esumazione dei linguaggi surrealisti. In un quadro espressivo invece espressionista, o post-mitteleuropeo, di dopo la caduta degli dei – Bernhard, Jelinek, Herta Müller, questi nomi vengono spontaneamente a galla, trasposti in ambiente esotico, come già con I.Bachmann, o Ransmayr. Una letteratura, si direbbe, dei rifiuti, di fronte alla quale è difficile reprimere il rifiuto. Ma al fondo frenata, pur nell’oltraggio: permane l’innocenza sia pure perversa dell’infante, nel fantasticare sregolato, prima del mondo quale è o della maniera, che la “creanza” e il “che stai facendo?” ripropongono, innocui benché (perché) ripetitivi. 
La deiezione non vuole stomaci forti, seppure addestrati e opportunamente caricati: non vuole stomaci – non vuole pietà: o si fa di testa, o sennò si vomita prima. Per esempio bisogna aver perso una guerra prima, nella razza, nella famiglia e nell’onore. Aver perso la faccia. E soprattutto essere sterili, volerlo essere: niente figli veri a portata di mano. 
Giovanni Greco, Malacrianza, Nutrimenti, pp. 267 € 18

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