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giovedì 28 giugno 2012

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (133)

Giuseppe Leuzzi

Nuccio Ordine presenta la Calabria alla Milanesiana dicendola “una società ingiusta dove chi non ha non è”. La Calabria? Forse all’università.

Un anno fa, tra un mese, moriva Isabella (Lilli) Chidichimo. Donna “calabrese” vera. Che sopravvisse alla fine precoce del figlio Carlo (Rivolta), gli fece funerali solenni, ne ricompose ogni minuto scritto, e ne tutelò la memoria con i giornalisti e gli editori. Mentre svolgeva il suo lavoro alla previdenza dei giornalisti. Alla terza età, negli ultimi venticinque anni, aveva costruito col fratello Rinaldo nell’ex latifondo di famiglia nell’Alto Jonio cosentino un’azienda agricola fiorente, e attorno alla Torre di Albidona un capolavoro di ecompatibilità: una struttura ricettiva (oggi agriturismo) in legno e pietra, annegata tra le piante e i fiori.

Isabella e Rinaldo Chidichimo se n’erano andati giovani a Roma per “sfruttare” la laurea. Lei all’Istituto di previdenza dei giornalisti, di cui era divenuta dirigente, lui in Confagricoltura, di cui fu direttore generale. Solo alla pensione, con la relativa tranquillità di reddito data dalla pensione, sono diventati imprenditori. Per un successo non facile, ma con grande abilità. Una parabola – un ritorno – più unico che raro: chi parte non torna, da qui il senso di perdita.

Sudismi\sadismi.Dopo un paio di settimane, fallito l’attacco a Napolitano, Giovanni Bianconi e il “Corriere della sera” trovano alcune righe martedì per ricordare che dall’atto d’accusa Stato-mafia si sono dissociati due giudici, Messineo (capo della Procura) e Paolo Guido. Due su cinque. Ma legando ai politici che nel 1992-93 tramarono per consegnare lo Stato alla mafia anche Dell’Utri. Una forma di prescienza? Certo, non si è siciliani per nulla: uno che paghi ci vuole, ed ecco allora Dell’Utri.

Se i ladini si vogliono tedeschi
Fanno simpatia – fanno per questo molta pubblicità - i due giovani gardenesi Caroline Kostner e Alex Schwazer. Perché sono giovani, belli e vincenti, e perché si trovano a loro agio nell’italianità. Sono in questo una novità, recente. La prima a ritrovare queste radici fu Isolde Kostner, la biscugina, che non sapeva essere che italiana, non molto tempo fa dunque. La Val Gardena, come tutte le Alpi ladine era prima italiana per convenienza, raccoglievano il turismo delle spendaccione famiglie romane e lombarde. Ma nell’animo tedesca. Dottori e ingegneri andavano a laurearsi a Vienna e Innsbruck. In Val Badia si tenevano in tedesco le celebrazioni. A Castelrotto un dottore miracoloso con le botte sugli sci al ginocchio, che usava il trilinguismo nella targa e gli avvisi, teneva in vista in sala d’attesa due riviste ladine di storia locale cui collaborava: erano scritte in tedesco, da autori quasi tutti teutonici.
Lo stesso i romanci svizzeri.
Si penserebbe il ladino più legato agli studi neo latini. È questione solo di forza e passione della filologia? Al tempo del fascismo era il fascismo a promuovere gli studi ladini. Le lingue (le culture, le “razze”) minori sono saprofite, della forza?

Il ritardo è intellettuale (e linguistico)
Fa paura l’odio di Angela Bubba (“MaliNati”) per tutto ciò che ha a che fare con la Calabra, di cui è originaria. Non è un’eccezione, l’odio suo è anzi comune, e soprattutto alle donne: il rifiuto totale, mascherato a volte da empatia (“ma non c’è nulla da fare”). Un rifiuto totale, perfino violento. In cui l’odio-di-sé si manifesta nella sua natura: il disadattamento.
L’emigrazione, più o meno forzata o volontaria che sia, produce inevitabile un risentimento. Ma nelle professioni intellettuali più che in quelle manuali – dove invece prevale o il distacco totale o l’orgoglio etnico. Fra i piccolo borghesi più che fra i lavoratori. Nella società civile più che nel popolo. Il tradimento è dei “chierici”, oggi diremmo degli intellettuali.
Il “tradimento” delle classi medie il nuovo meridionalismo tratteggia come la causa principale del ritardo, invece degli argomenti classici: i dualismi (città-campagna, industria-agricoltura, imprenditoria-feudalità), l’unificazione disuguale, l’intervento straordinario (le cattedrali nel deserto di infrastrutture), la corruzione, la criminalità. L’emigrazione in massa del suo ceto medio più produttivo, mancano intere generazioni al Sud, la debolezza fatale di chi resta.
Ma il ceto medio che manca è intellettuale. È perfino ovvio. Stretto fra il risentimento di chi ha scelto (pensa di avere scelto) un mondo migliore, e l’albagia di chi resta, che quasi sempre maschera incapacità (conformismo, ancillarità ai pregiudizi, e l’inerzia mascherata da indignazione) – l’esito è quello.

Si è diversi per marchio di fabbrica o d’origine, non per colpa, perché senza lingua. Nell’indifferenza del buon italiano. Anche se si è a proprio agio con Molière, che troppi purtroppo non apprezzano abbastanza, o con Steinbeck – non, purtroppo, con Shakespeare, non s’impara. Un sardo, per esempio, può essere suddito con dignità, senza essere un diverso: ha la sua lingua.
Si può essere condannati per non essere troppo diversi, non abbastanza. Per avere scelto, per mansuetudine, per convenienza, per logica, la lingua di tutti, latini o greci che fossero. Senza identità quindi, quando questi venga negata dall’incumbent di turno, piemontese o lombardo che sia.

Mafia
Un’indagine veridica sarebbe quella che la analizza come figura o estensione del reale. Nella sua “inafferrabilità”, che tale non può essere e non è. Nella fenomenologia interna invece che nella maniera insoddisfacente, e irrisolvente, dei fantasmi piccolo borghesi – quelli che il reale vogliono razionale nel senso dell’utilità. E ne fanno l’estensione del padrone, del politico, del vescovo, di tutto quanto ossessona la loro buona coscienza di cittadini civili. Che tale non può essere e non è. Guardarla e analizzarla negli adolescenti a scuola che passano il tempo a procurarsi un’arma. Dei ragazzi che uccidono per pochi soldi, o un capriccio. E si uccidono tra di loro. Anche senza la droga. Che “proteggono” la loro innamorata col furto, la droga, l’assassinio, la violenza costante, di giorno e di notte. Non all’insaputa della stessa. Di madri che proteggono i figli come lupe, salvo aizzarli a uccidere, e a farsi uccidere. Di un modo in cui non c’è vergogna (senso del limite, della legge) e non c’è progetto. Della distruzione-autodistruzione come una deriva incorreggibile. Come portata da un carsismo invincibile di ferinità “pura” – non causata, non legittimabile. Che solo lo scontro con la forza altrettanto scellerata dei carabinieri, della carcerazione a oltranza, del pentitismo, delimita se non doma. In cui non c’è mai piacere né accumulo, se non nelle forme dell’odio e della violenza – della stupidità
La mafia come una forma incontrollata delle bestialità è la migliore verità. O altrimenti è esercizio alla Borges, degli infiniti possibili.

leuzzi@antiit.eu

1 commento:

Anonimo ha detto...

leggo solo ora l'accenno alla esperienza di mia sorella (Isabella Chidichimo) e mia, come esempio significativo della "Calabria vera", quella fatta di persona che amano le proprie origini al punto da ritornare, investendo qui il frutto del lavoro fatto altrove. grazie! continuo ora a cercare di difendere il territorio dalle aggressioni di deturpazione, per caldeggiare lo sviluppo sostenibile basato sull'unica risorsa da valorizzare: quella naturale.
Rinaldo Chidichimo