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domenica 2 dicembre 2012

L’apologia del tradimento di sé

A un anno ieri dalla morte di Christa Wolf, a 82 anni, si ritrova con sorpresa questo delizioso desueto pastiche dei sentimenti letterari. Romantici. Iperromantici. Con la zavorra del romanzo storico, purtroppo, seppure leggera. Christa Wolf fa incontrare due simboli incarnati del romanticismo, Karoline von Günderrode e Heinrich von Kleist. Li attornia di corrispondenti, amici, amanti, parenti, ammiratori, conoscenti. Un parterre delle glorie della letteratura tedesca, con echi di Goethe, di molti patrono e corrispondente, da alcuni odiato. E li segue con trepidazione. E questo è forse la vera zavorra della pièce, più che i falsi dialoghi d’epoca: ne fa una  sacra rappresentazione.
È una carrellata cinematografica incalzante, unitaria, di primi piani che si sovrappongono in un interno. Il giurista Savigny, “l’uomo che si fa da sé il suo destino. Ricco, indipendente, sovrano”, il dottor Georg Wedekind, giacobino dichiarato e framassone, di nobile schiatta, i fratelli Brentano, “tutti affascinanti, compreso l’uomo, ognuno a proprio modo. Gli occhi scuri, la fronte pallida, i crespi capelli bruni. Impronta italiana”, Clemens, Bettina e Gunda (Kunigunda), Lisette von Esenbenck, la giovane donna forse più colta di Francoforte, specialista di letteratura francese e inglese, buona conoscitrice di lingue slave, studiosa d’italiano e spagnolo. E von Kleist, che ancora non ha scritto “l’opera”. E Karoline von Günderrode, innamorata non corrisposta di Savigny - “dove io sono di casa l’amore esiste solo a prezzo della morte”. Il finto ricevimento potrebbe pure essere quello del matrimonio di Gunda Brentano con Savigny, nella bella proprietà dei Savigny a Trages, cui Karoline presenziò. Non che i Brentano fossero da meno: erano i figli di Pietro Antonio, il commerciante lombardo all’ingrosso le cui due mogli furono entrambe corrispondenti di Goethe, e la cui casa a Francoforte, “Alla Testa d’oro”, nella Sandgasse, fu il punto d’incontro della buona società francofortese.  
Il “romanzo” si vuole di Karoline e Kleist. Che non si sono mai incontrati ma si parlano, nella comune ambizione alla poesia. E nel comune disagio nel genere – “maschile e femminile, così come sono concepiti, sono di ostacolo all’umanità”. Questa e altre interlocuzioni (suggestioni di dialogo) Christa Wolf riprende dalle lettere e le opere dei due poeti: “Non siamo fatti per quello cui aspiriamo”, “Invidio i fiumi, che si riuniscono”,.”Anch’io sarò un giorno un cadavere nella memoria degli uomini. È questo che chiamano immortalità?” Tutto il pastiche è composto con grande virtuosisimo da frasi dette o scritte dei vari personaggi. Così di Lisette von Mettingh, personaggio di contorno compreso in mezza pagina, fresca posa del futuro grande botanico Nees von Esenbenck, s’impongono ingombranti l’amore più che sororale da lei provato per Karoline, con sua propria sorpresa, di cui racconta in una lettera, e la gelosia per il rapporto a suo avviso troppo stretto fra Karoline e Bettina. Lei è sempre “la” Günderrode: l’uso lombardo (tedesco) ne marca la differenza – come nel romanzo epistolare che ne aveva tratto la sua amica Bettina Brentano (poi sposa) von Arnim.
I due si parlano in colloquio muto. In realtà in monologo, ora di lui ora di lei. Fratto, come la scrittura: breve, allusiva. Algida, e ostica ai più. Il lettore deve sapere molte cose per apprezzare. Sapere più della scrittrice: è, sulla traccia esile dell’amore infelice di Karoline per Savigny, un intreccio di idee. Quelle dell’epoca e quelle a venire. È il 1804, Karoline e Heinrich si suicideranno, lei nel 1806, lui nel 1811. Di illusioni, delusioni, e approssimazioni. In un parterre di eletti che non si ritrovano, in “nessun luogo, da nessuna parte”. In realtà voraci conquistatori della letteratura nei loro anni, la cui disperazione è l’ambizione. “Chi sono io”, si chiede Kleist: “Sottufficiale senza spada. Studente senza scienza. Funzionario senza incarico. Autore senza opera. Malato nell’animo”.
Junker prussiano, a 15 anni alfiere del re di Prussia, Kleist è un altro che “impazzisce” tornando dalla Francia, come poi Hölderlin, e Nietzsche. Malati di libertà li vogliono gli editori italiani, rivoluzionari che Napoleone tradiva. No. Von Kleist torna deluso da Parigi, e con l’esaurimento nervoso, perché la mancata invasione dell’Inghilterra lo ha privato della possibilità di eroicizzarsi in una guerra. Era balbuziente. Era ambiziosissimo. Odiava Goethe.
Karoline von Günderrode si pugnalerà al bordo del Reno, con un sacco pieno di pietre attorno al collo per poter eventualmente anche annegare, quando l’amante filologo Creuzer tornò dalla moglie. Creuzer, di cui si traducono ora, dopo quasi due secoli, i saggi su simbologia e mitologia, non era che un “poligrafo d’antico stile” secondo Erwin Rohde, il filologo amico di Nietzsche, che fu l’editore nel 1896 delle lettere e le poesie sue e di Karoline. A Savigny, suo precedente amore, Karoline aveva indirizzato la composizione “Il bacio in sogno” (“Da un romanzo inedito”: “Con un bacio m’ha insufflato la vita…”) due giorni prima del suo matrimonio, al quale poi lungamente presenziò, prima e dopo la cerimonia. Karoline è – ma qui non è detto – autrice di poesie di duratura profondità e fantasia (che incredibilmente non si traducono - ne ha una “A Eusebio”…) e “la” bellezza inarrivabile, inattingibile, della poesia, per avvenenza, sapienza, grazia, giovanissima.
Il pastiche è insomma pasticciato. Un’esibizione di perizia, del formalismo cui il Diamat ridusse la Germania comunista nel dopoguerra, come già la Russia. Un testo di ripicca, lo dice Anita Raja, dopo l’espulsione dalla Germania Orientale di Wolf Biermann, poeta e musicista, e la sua successiva privazione della cittadinanza nel 1976. Chi protestò in favore di Biermann, come Christa Wolf, fu escluso dal sindacato scrittori e dai suoi piccoli privilegi. Ma è della libertà nelle Germania Est come di quella sotto Napoleone, un desiderio degli editori.
Sacra rappresentazione
Sono due false rappresentazioni, sia di von Kleist sia di von Günderrode. I personaggi sono noti, vivono al di fuori di questo travisamento, e non sono gli stessi – non quelli dell’ottica della rappresentazione. I romantici hanno scritto molto attorno a se stessi, soprattutto in Germania, soprattutto le donne. Anche Karoline von Günderrode, malgrado i pochi anni vissuti, e le difficoltà pratiche (viveva dai 19 anni in un convento, una specie di suora laica), e von Kleist. Lettere lunghissime, che però nascondono più di quanto dicono, di quelli che “spaccano il capello” dei sentimenti, una sorta di scissione a catena, le cose e i fatti dovendo seppellire sono l’aura della morte. La morte in epoca romantica, e fino al simbolismo un secolo dopo, non saprebbe uscire fuori dalla serra dell’autoinganno di Praz, del compiacimento. Ineliminabile in chi scrive molto, curato, senza mai trascurare il già detto, una virgola, una sfumatura, pretenzioso. E poeta molto, con esercizio attento, acuto, delle varianti, sorvegliato e non d’impeto. Solitario perché eroicizzante, ma molto socievole. Il suo mal di vivere porta a concepire indotto, di serra appunto, artificioso.
È la debolezza del romanzo storico, quando non sia arbitrariamente manipolato: se deve rispettare i suoi personaggi, non può farli interagire convenientemente, non per la narrazione. Christa Wolf li fa poi parlare come nel Seicento le preziose – le “preziose ridicole” di Molière. A lei fa dire, dopo varie vaghezze sovrasensibili, che siamo noi, in qualche modo, il nostro destino,  “che segretamente provochiamo noi quel che ci accade”. E a lui, che vanta di aver visitato molti mondi, Magonza, Francoforte, Heidelberg, Parigi, per cercarvi modelli di vita che non ci ha trovato, che “a volte avverte fin dentro il midollo il fastidioso moto rotatorio del globo terrestre”. Senza grandezza in realtà, nulla più della pariniana ipocondria.
Ma c’è di più. La costruzione di Christa Wolf, che pure fu editrice e studiosa di Karoline von Günderrode (il suo lungo saggio bio-critico, “L’ombra di un  sogno” è ora in C.Wolf, “The Author’s Dimension”, selezione di saggi, letterari e autobiografici), depista il lettore. Che esce dalla storia non amandola, frastornato e più arrabbiato. Tanto più per essere opera d’autore: Christa Wolf è una forte scrittrice ancorata al Diamat, il materialismo dialettico o comunismo compiuto, come lo pensavano a Berlino Est, fino a dopo la Caduta del Muro. A quale precetto del Diamat – il lettore non può non chiederselo – rispondono gli umbratili repartees della rappresentazione? Al genio nazionale. Al nazionalismo. Con mano trepida, molto partecipe, al punto di falsificare il tutto.
Una pulsione di morte ne è l’essenza. Si dovrebbe dire del romanticismo eterno. Ma nell’accezione tedesca, del culto wertheriano della morte. Che retroillumina la tebaide di Berlino-Pankow, che di queste efflorescenze si compiaceva, e la stessa roccia Christa Wolf. Di lei si volle dopo la Caduta farla passare per spia della Stasi, la polizia segreta. Mentre ne fu IM (inoffizieller Mitarbeter), collaboratrice confidenziale per tre anni quando ne aveva trenta, probabilmente non volontaria, giacché fu dismessa per “reticenza”, e fu poi spiata a sua volta. Ma proprio per questo è una che non può dire “non c’ero”. E più per le tante fughe per le quali è famosa nei suoi scritti, nella falsa Troia di “Cassandra” o in questo falso romanticismo. Rimproverata ultimamente per la sua fedeltà, si giustificò dicendo: “I miei lettori mi volevano là”, nel mezzo del regime. Per lavarsene la coscienza nel mentre lo celebravano? Il romanzo storico prende così un’inverosimgilianza al quadrato, quando l’autore abusa dei suoi personaggi, o è ipocrita.
 “Dentro di me io porto un cuore, come una terra del Nord il germe di un frutto del Sud. Si sforza, si sforza, ma non riesce a maturare”. Lo scriveva Heinrich von Kleist a un’amica, Adolphine von Werreck, da Parigi, il 28 luglio 1801. La citazione, in epigrafe al “romanzo”, non è avulsa.
Christa Wolf, Nessun luogo, da nessuna parte, E/O, pp. 118 € 7,50 (ebook € 5,99)

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