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venerdì 7 dicembre 2012

Letture - 120

letterautore

Citazione - La citazione è per i più una eco, la frase famosa o curiosa. La “mite intermediaria” di Thomas Mann, gesta auctoris per auctores, “una quanto mai moderna arte”. Colpa veniale se si perdona a personaggi di ben maggiore qualità, come lo stesso Mann – che “dopo di me”, dice nelle prefazioni che ama a se stesso, “citare è stato sentito come un’arte, simile a quella d’inserire il dialogo nella narrazione, si sono cercati analoghi effetti di ritmo”. Similmente per le identità false, gli pseudonimi o eteronimi.

In musica la citazione è tutto, in letteratura è diverso, che ha funzione conoscitiva prima che estetica. L’originale è soggetto a tagli redazionali e refusi, agli errori di copisti, editori, proti, e ciò malgrado si persevera: Platone è sempre materia per l’ipse dixit, o Marx e Lenin, cosa hanno veramente detto. La filologia è un imbuto sul nulla.

Confessione - Borges vuole scrivere “una storia che abbia la qualità del sogno”. Ne ha scritte molte, tutte sognanti, ma non ne è contento. Gli manca la più onirica di tutte, che è la vita. Ma è difficile che un memorialista si faccia apprezzare, parlandosi d’abitudine addosso, il suo diventa un esercizio di autocompassione. È vero che l’epoca vuole viscere in vista, ma le confessioni vengono bene quanto meno uno ha da dire. Fanno bene gli scrittori americani a confezionarsi strane biografie, dopodiché non hanno più nulla da spartire con quanto narrano, non che si veda, non che se ne debbano giustificare. La confessione porta a galla il peggio di sé, lo dilata, lo moltiplica, lo metastasizza. O la solitudine, che è la stessa cosa.

Scrivere è certo operazione mentale, che altro? Ma la censura, diceva Melchiorre Grimm, ha fatto dei francesi scrittori superiori, più considerati, saggi. La scrittura è misura. La confessione scritta invece dilaga perché ciò risponde alla sua natura. La confessione come genere letterario è interminabile, insopportabile logorrea - se è letteratura è già scremata, e ben costruita, dai tempi di Esiodo, di Virgilio, quello che si intende per confessione sono i mal di pancia e le insonnie, il sogno vigile. È genere infetto, da sbirri e confidenti, e divani da analista.

Filologia – Può essere un imbuto sul nulla. Errori o burle di copisti. Falsi anche.

Giornalismo – “Citizen Kane”, o “Quarto Potere” Borges trovava nel 1941, all’uscita, “un film opprimente”.  Che “perdurerà, come «perdurano» certi film di Griffith o di Pudovkin”, ma nessuno andrà a rivedere. Per soffrire “di gigantismo, di pedanteria, di tedio”.
Orson Welles “non è intelligente, è geniale: nel senso più notturno e più tedesco di questa mala parola”. Un filma “banale” nella prima parte, del milionario che accumula. “Oppressivo” nella seconda, che unisce “al ricordo di Kohelet quello di un altro nichilista: Franz Kafka”. Attorno a pletore di giornalisti che, come gli scrittori, “sono essenzialmente orribili”.

Ironia – Si può pensare tutta la “Ricerca” una colossale forma d’ironia, altrimenti tutto rasenta il ridicolo: la gelosia in mille pagine (mille!, di uno, il narratore, che non è  mai stato innamorato, si sa, si sente), i froci, le lesbiche, le puttanelle, i borghesi pieni di sé, il padre-Cottard, la madre-Verdurin (o madame Straus e le altre madri alternative), gli stessi duchi, a loro volta snob. Ma non senza compassione, che ne è la chiave: l’autoconsolazione.

In letteratura è trivella, su multistrati di significati, parodia, scherzo, critica indiretta (occhio critico) - se sottolineata è peraltro censoria, ridicola. Oppure è cinica: in entrambi i casi settatrice, disseccatrice.
L’ironia è la narrazione il cui oggetto è la narrazione – tutto Proust.
L’ironia non regge una narrativa, solo l’aneddotica. Bisogna lievitarla – alleviarla – al modo dell’Ariosto, per una lettura multiforme, più immaginativa che critica, esagerata, e diventa patrimonio popolare.

No, l’ironia (Swift, Voltaire, anche Sterne) è un impianto - una posizione nella vita, una rigidità: per questo dissecca. Il ruolo è semplice, è il cazzaro, il Ketzer tedesco, che è un po’ eretico. Ed è molto frequentato: Tersite, Bertoldo, Marcolfo, Giufà, Candido – anche se è spessa la tradizione di chi aborrisce Candido, fino a Mauriac: l’ironia dissecca chi la pratica.

Italiano Gli italiani parlano in versi senza saperlo. Sciascia porta gli esempi (“poesia romanesca”, 77) che fondano l’osservazione di Silvio D’Amico: “Mezza granita di caffè con panna”, “Si prega di chiudere la porta”. Solo gli italiani fanno versi quotidiani? O è l’abitudine a guardarsi l’ombelico, degli italiani, dei siciliani, dei palermitani?

Sia l’italianità lo sguardo, la seduzione, il desiderio, la furberia. È italiana Trieste (Svevo, Saba), è italiana Genova (Montale, De André), e perfino Torino (Cavour, De Amicis, Gozzano, Pavese). Non lo sono Manzoni, Cattaneo, gli scapigliati, che costruiscono la gelosia dai libri. La “passione” di Stendhal manca proprio a Milano e dintorni: l’occhiata, l’illusione, l’appuntamento rinviato. Milano non si differenzierebbe da Francoforte, se non perché non ha il fiume, e ha meno il gusto delle idee.

Leggere - L’identità è privilegio di chi legge, sia pure il manovale friulano che legge “La Gazzetta dello Sport” la domenica pomeriggio alla stazione di Colonia. Un manovale friulano a Colonia resta un manovale friulano a Colonia, ma leggere lo situa tra l’antico Egitto e la costellazione Andromeda, in ruoli ambìti, eroe, amante, artista, poeta, o anche traditore, in ozio. La lettura crea questo portento. Ci si può arrivare di testa, ma con limiti, che la lettura invece abbatte, fino alla perdita di sé, che è prova di esistenza, leggendo secondo la ricetta dei maestri antichi, leggeri - tutto altrimenti si fa esatto, saputo, ridicolo.

Rousseau dice che leggere fa male. Voleva per questo limitare l’apprendimento delle lingue: “Lo spagnolo e l’italiano non servono ad altro che a dare la possibilità di leggere libri nocivi”. Leggere libri in italiano è dunque nocivo. In ottima salute dev’essere il popolo basco, che ha una lingua senza scrittura.
Anche McLuhan dice pericolosa la lettura. Ne “Gli strumenti del comunicare”, 1956, diceva che l’elettronica priva l’uomo della sua identità e della morale: “Le persone vanno al lavoro principalmente per leggere”. Tutti ogni tanto dicono sciocchezze.
Ma è pure vero che a un certo punto non bisogna più leggere, la lettura salva sempre, da se stessi e dagli altri. Mentre più spesso c’è poco da leggere, o da giustificare l’ozio. Perché la lettura è occupazione oziosa. Bisogna essere per l’educazione permanente, mescolarsi, lasciar scadere la ragione, e la morale. Dall’ozio comunque escludere la lettura: chi pensava e scriveva molto nell’antichità, Omero per esempio, Platone, Aristotele, Aristofane è uno che lo diceva anche, a un certo pun-to chiudeva i libri, il poeta e il filosofo sono gente d’azione.

Pseudonimo – Fu la mania degli anni Venti-Trenta, di Pessoa, Traven, Lucio D’Ambra, innocente gusto rétro. Non si nascondevano. Se non per quello che esibivano, semmai, l’intellettualismo. L’intellettuale, si sa, è dannato alla sterilità per l’ipocrisia che lo rode malgrado se stesso, anzi proprio per questo, per le sue buone intenzioni. Si crea mondi irreali per la voglia di filosofare, ma la buona disposizione è fatale che degradi a protervia. Il rovesciamento non è isolato, tutta la realtà partecipa dell’irrealtà. Quello dell’intellettuale è però voluto, nell’assurdo programma di conoscere tutto, sistematizzarlo, e perfino, con la forza del pensiero, cambiarlo.

letterautore@antiit.eu

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