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martedì 11 dicembre 2012

Si balla a Mosca la fine dell’Europa - e dei Malaparte

Intanto, bisogna sapere il francese. Come “Guerra e pace”, questo “Ballo” è scritto indifferentemente in italiano e in francese. Ma anche così non morde, non decolla. Il graffio c’è. Il “tipico narcisismo slavo, da cui è dominato ogni personaggio della letteratura russa, specie di Dostoevskij, ogni eroe russo, il più umile, il più diseredato, il più ignobile, corrotto” (p.31). O: “Il cielo russo ha il colore, il disegno, la porosità della pelle umana” (33). Sul cielo di Mosca Malaparte ha molti pezzi da antologia. In una delle redazioni espunte ha anche (pp.197-198) l’odore di Mosca, “che non è l’odore di miele cotto di Atene, di Smirne, di Venezia, né quell’odore di cuoio vecchio che è l’odore di Parigi”, etc., etc., “l’odore di Mosca non è umano. È l’odore della natura…”. Su Dio anche, oggetto di una campagna di massa del protostalinismo, l’unica campagna politica in quegli anni di reazione, molto viene detto, non banale, e forse non di maniera, al fondo rilevando  “quella forza di negare Dio che è un modo di affermarlo, di invocarlo, di amarlo”. Non del tradizionale, etnico, animismo religioso del popolo russo ma delle nuove generazioni, sovietiche. Con scorci di straordinaria umanità – straordinaria per Malaparte, non affettata cioè e aperta sulla rivoluzione, sui destini delle rivoluzioni, sull’umanità post-rivoluzionaria e neo-rivoluzionaria. Sul “sogno dell’operaio” (p.47). Sulla “folla di Mosca, quella povera folla scarna, pallida, sporca, dal viso madido di sudore, quel viso di polpo, umido e molle” (p.60). Ma non ingrana. La vena è forte del surrealismo - come poi in “La pelle” e già in “Kaputt” e altri racconti. Che Malaparte aveva anticipato al debutto, nella “Rivolta dei santi maledetti” (1921), nelle radici futuriste del surrealismo stesso. Ma non vibra. È, a suo modo, “politicamente corretta”.
 “Florinski annunciava, nella sua stessa perversione sessuale, il tragico tramonto di una società rivoluzionaria presto inquinatasi, corrottasi nel godimento del potere, nell’esercizio scomposto del potere, nel contrasto delle ambizioni smodate, e nella particolare immoralità delle élites rimaste fedeli a un’utopia irrealizzabile”. Malaparte aveva scritto prima di ogni altro un romanzo sulla Nomenklatura corrotta a Mosca e non l’ha pubblicato. Ce l’aveva nel 1945, accanto a “Kaputt” appena uscito e a “La Pelle” (all’epoca “La peste”) che si affrettava a completare. Sarebbe stato un terzo scorcio, sulle malefatte dell’”altro Alleato”, “mentre «Kaputt» era l’Europa sotto i Tedeschi, e «La Peste» sarà l’Europa sotto gli Alleati, specie Americani”. La fine dell’Europa.
Il “Ballo”, una costola della “Pelle”, era solo da rifinire, ma Malaparte non lo ha fatto. Voleva pubblicarlo in Francia, a metà 1946, per evitare gli anatemi in Italia. Voleva perfino cambiare traduttore, considerando inaffidabile la fedele Juliette Bertrand perché  “comunista militante”. Sarebbe arrivato molto prima del Rapporto Krusciov sui crimini di Stalin. Avrebbe spiegato – lo spiega infatti, cosa che il “Rapporto” non farà – le ragioni, oltre che i modi, dell’involuzione. In una delle versioni del “Ballo” recuperate da Raffaella Rodondi si leggono due pagine magistrali (215-216) sulla funzione dello scrittore come “storico”, il problema già di Erodoto e Tucidide, con occhio lieve (“l’Italia vera è quella di Stendhal, non quella di Gregorovius”). Ma per opportunismo se ne privò. Dapprima per non indisporre Togliatti, da cui dipendeva la sua defascistizzazione. Poi per la convenienza di farsi neocomunista.  Pur essendo visceralmente anti, si vede nella corrispondenza, di più con gli editori francesi. Del Ballo” pubblicherà un terzo circa su “Vie Nuove”, il settimanale del Pci, come corrispondenza da Mosca nel 1957. Dopo cioè l’Ungheria, quando molti invece si allontanarono dal Pci. Fu a Mosca due notti tra un aereo e l’altro per il viaggio in Cina, che lo stesso Pci gli aveva organizzato, dove contrasse l’infezione letale. Ne approfittò per una rivalutazione, a suo modo obliqua e intelligente  (qui riprodotta in appendice, (“Trozki, Gorki, e altri volti”), dello stalinismo dopo le infamie del Rapporto Krusciov l’anno prima.
“Kaputt” Malaparte definiva “romanzo storico contemporaneo”, “La Pelle” invece “storia e racconto”, d’invenzione cioè, “Il ballo” avrebbe potuto essere una “storia di costumi”. Lo annunciò all’editore francese nel 1946 come un affresco satirico dell’“alta nobiltà marxista di Mosca, le sue vite, i suoi scandali, i suoi costumi, le sue passioni, i suoi terrori”. Datato 1929.  Riscrivendo le impressioni, le fantasie e gli articoli che in quell’anno aveva maturato nella capitale sovietica, quando da giovane direttore de “La Stampa” vi aveva passato alcune settimane tra maggio e giugno. Attratto dal cambiamento politico, alla fine della Nep, del relativo liberismo sovietico, che lo colpì subito – fu , con Corrado Alvaro, uno dei pochi viaggiatori occidentali all’Est non “utili idioti”, come li aveva bollati Lenin. Ricavandone la raccolta di articoli “Il Volga  nasce in Europa”, e i due saggi di politica leninista che fecero epoca, la “Technique du coup d’État” e “Le bonhomme Lenin” – questo pubblicato in contemporanea anche in italiano, col titolo “Intelligenza di Lenin”, il primo, inviso a Mussolini, solo nel 1948. Dove spiega che la rivoluzione era arrivata al capolinea, con l’esilio di Trockij nel Caucaso e di Kamenev sul Volga, gli ultimi compagni di Lenin, e l’inizio delle epurazioni – mentre Malaparte stava a Mosca “spariva” Kamenev, uno degli ultimi “compagni di Lenin”. Finiva il romanticismo della rivoluzione.

Ancien régime
Qui Malaparte è ancien régime – lo fu a suo modo tutta la vita, seppure sotto la scorza proustiana, dell’ideologia della fine. “Il ballo” svolge al ritmo dello small talk, lui dice potin, da francesizzante, tra i “balli delle ambasciate”, nello “splendido tedio della vita modana” – da Proust minore, disidratato. In una Mosca metafisica. Immaginando di accompagnarsi ai personaggi più noti, Majakovskij, Lunač’arskij e moglie, il ministro dell’Istruzione italianista (anche lui ultimo compagno di Lenin, col quale a Capri aveva organizzato una “scuola di comunismo”alla Pensione Weber alla Marina Piccola) e l’attrice sua moglie, la cuisse legère più famosa di Mosca, Bulgakov, la sorella di Trockij moglie di Kamenev, la star del balletto Semënova, il ministro degli Esteri intramontabile Litvinov, e l’incredibile Florinskij, un omosessuale che pavoneggiava le sue inclinazioni, truccato, atteggiato, capo del Cerimoniale agli Esteri, l’uomo di tutte le ambasciate - in una delle quali, quella greca, sarà prelevato al tavolo del bridge dalla “giacche di cuoio della Ghepeù” nel 1936. Visti però col senno di dopo, dello stalinismo realizzato.
Malaparte è certamente anche uomo del suo tempo. Molto interessato quindi al sovietismo.  Fin dai suoi inizi, dalla “Rivolta dei santi maledetti” (un racconto che ne impose subito la peculiare capacità analitica, di narratore della storia: Malaparte vi individuava da solo il senso della guerra, le plebi che si liberano del ceto dirigente giolittiano, liberale, risorgimentale, affaristico, notabilare, di formidabile modernità prima ancora che di rivoluzionario futurista-fascista - ma più esatto sarebbe nazionalista). Se non da prima, quando rifiutò la paternità del sassone Erwin Suckert facendo circolare la voce che era figlio invece del pittore Paolo Trubeckoj, incolpevole ma russo di origine. Da russista nell’animo, si può dire, per una sorta di comune panteismo. Nel 1929 partivano a Mosca i piani Quinquennali, una delle cose che lasceranno un’impronta sul secolo, ma Malaparte non ne intese la portata - salvo ex post, nel 1957, per rivalutare Stalin. O se ne disinteressa. Vede i visi e le anime, le correnti sotterranee della storia. In un progetto anticomunista, però. Violento. Di cui poi si privò, pur pubblicando di tutto, libri anche irrilevanti, per sfruttare il successo della “Pelle”.
Beffardo il commento di Raffaella Rodondi, che cura questa riedizione (una prima edizione postuma, nella collana affrettata delle sue opere edita da Vallecchi, è uscita nel 1971 in un volume farcito con altri racconti e scritti vari): Malaparte ha mancato l’ultimo colpo. Pubblicato nel dopoguerra, sia pure dopo la destalinizzazione, “Il ballo al Kremlino” sarebbe stato attualissimo, la controprova dei crimini di Stalin. Ma non sarebbe stato Malaparte, uno che soprattutto si adattava. Per una sorta di camaleontismo connaturato - si può dire che si è preso al suo laccio. Secondo la credibile testimonianza di Lino Pellegrini, giovanissimo inviato di guerra del Popolo d’Italia”, l’unico che veramente seguisse le truppe dell’Asse, con Malaparte, nella guerra all’Urss, avallata ora dal biografo Serra, il “Kaputt” antitedesco si chiamava nel 1942 “God shave the King”, Dio fa la barba al re invece di salvarlo. Sarebbe stato antinglese – nel 1942 Hitler aveva vinto la guerra.
Una trilogia europea che comprende, dunque, nella sua abiezione pure i Malaparte. Quello del nome e gli amici di fascismo. Montanelli per esempio, Longanesi, che non gli perdonarono niente e anzi lo resero quasi simpatico col vilipenderlo, come scrittore e come uomo. Casi non eccezionali di destra che si vuole sinistra, e viceversa. Ora Malaparte recupera Adelphi, dunque “da destra” secondo la non desueta tipizzazione dell’ambiente. Dopo mezzo secolo di ostracismo, editoriale e critico, se si eccettua la devozione della sorella Edda Rochi, e qualche biografia scandalistica, meglio se con foto.
Il vero romanzo è la “Nota” di Raffaella Rodondi, sulle varianti ma anche sulla gestazione di questo progetto. Una primizia filologica, cento pagine di montaggio e smontaggio di un’opera inedita e non finita. E un’edizione critica, con 150 pagine di racconto, 150 di varianti, e 100 di nota filologica, proposta come un libro da banco, un romanzo come un altro. Ma, per il lettore che non s’arrende, con diletto.
Curzio Malaparte, Il ballo al Kremlino, Adelphi, pp. 417 € 22

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