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giovedì 2 ottobre 2014

Il bracciante fu l'eroe della Grande Guerra

“La guerra ci ha educato alla lotta, e resteremo combattenti finché viviamo”. Anche perché “la guerra non è solo nostra madre ma anche nostra figlia. L’abbiamo cresciuta, così come essa ha fatto con noi”. Sinistra premonizione. Ma corretta: questo di Jünger è il libro forse “più” vero sula Grande Guerra, sulla guerra. Più del suo stesso “Nelle tempeste d’acciaio”, scritto a caldo nel 1919. Degli istinti animali sempre vivi. Dell’orrore, costante nell’uomo, fin dalle “paure” dell’infanzia. E la putrefazione. La trincea. La paura – il nemico è sempre dentro. L’eros, il bisogno incontinente della scarica ormonale. Uno sguardo a fondo sulla guerra che Jünger continuerà ad arricchire in testi dispersi (ora raccolti nel primo dei tre volumi degli “Scritti politici”) che accompagnano la riedizione di questa “Battaglia interiore” nel 1926-27.
Le pagine sul “bracciante” sono tutto l’opposto del “Tutti a casa” di cui l’Italia si compiace. Di rispetto, e anzi di ammirazione, motivata. Dopo una pagina, a metà libro, molto jüngeriana e però singolarmente inattaccabile, sulla “riduzione a massa” (“Ormai disabituati alle forti ebbrezze, il potere e gli uomini ci fanno orrore, i nostri nuovi dèi sono la massa e l’uguaglianza. Se la massa non può diventare come i pochi, allora i pochi diventino come la massa”). “Perfetto” al fronte è stato solo lui, il bracciante. Viene in mente la Brigata Catanzaro, passata alla storia – nel quadro del “contadiname” che stava per far perdere la guerra all’Italia - per la ribellione al fronte, e la decimazione che subì a opera dei Carabinieri, ma dopo una anno e mezzo di offensive senza mai un turno, un giorno, di riposo.
La battaglia è la liberazione, “energia fatta carne, carica di forza alla massima potenza”. La guerra si capisce facendola: “La lotta si nobilita con l’azione. E anche il motivo della lotta. Altrimenti, come si fa a stimare il nemico? Solo un valoroso può capirlo fino in fondo. La lotta è sempre qualcosa di sacro”. Concepito a difesa del combattente, del reduce, nella “follia collettiva” dell’ingratitudine e del rifiuto del dopoguerra, pubblicato nel 1923, il libro riesuma la visione della guerra da combattente che il lettore di Jünger già conosce, ma con un occhio clinico più affinato. Al solito, non entusiasta e non cattivo, di chi ha visto le cose, anche sgradevoli, e le dice. Ma con una pietas. Che la nuova introduzione, alla riedizione del 1926-27, qui riproposta, espone senza ambiguità.
Jünger ha vissuto e rivive la Grande Guerra coma una guerra di Troia. Con le trincee e i cannoni, ma come scontro ancora di persone. Di un’epica minuta, frantumata, ma lui stesso è piccolo-grande eroe omerico. Con un’altra visione della guerra, non politica, non razionalizzata: un evento. E nell’evento, con il massacro, anche l’ineluttabilità. E il valore che ad essa si lega: “Noi abbiamo avuto accesso anche allo sconvolgimento ebbro che sia accompagna alla consapevolezza di compiere grandi azioni”, una “euforia”, il “senso morale” insito “nelle grandi opere”.
Il richiamo omerico Jünger non fa mai. Si appella a una “esperienza interiore”, un’orma indelebile che la guerra ha lasciato, forte come è possibile ipotizzare nel costruttore ignoto delle piramidi. È la guerra  una carneficina e una sperimentazione: “La guerra è il potente incontro tra i popoli…. Mediante la guerra le grandi religioni sono diventate un bene per il mondo intero, le razze più valorose si sono messe in luce prendendo le mosse da oscure origini, e innumerevoli schiavi sono diventati uomini liberi”. Quando si dice “mai più guerra” bisogna saperlo. Una dura verità. Il pacifismo è un segno epocale di fine imminente. Jünger lo sostiene in polemica con l’antireducismo che lo umiliò a guerra perduta. Ma allora le due guerre tedesche saranno state le ultime dell’Europa e hanno segnato la fine dell’Europa stessa.
Ernst Jünger, La battaglia come esperienza interiore, Piano B, pp. 160 € 13


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