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giovedì 20 agosto 2015

La lingua di Hitler

“Caratteriale”, “combattivo”, “radioso”, “fanatico” e “fanatismo” per entusiasta e entusiasmo, essere “tedesco” o “nordico”, contro il “razzialmente inferiore”, la “guerra giudaica”, “il sistema” (la repubblica di Weimar – oggi sarebbe “la casta”), il “materiale umano”, e “cieco”, “ciecamente”, “messa al passo”, “montare”, “credere”, “settembrizzare”, “assalto”, “grande”, “storico”, l’esclamativo, il superlativo delle cifre, le sigle, SS, SA, HJ, le prime schiacciate per imitare il fulmine, il segnale di scariche elettriche: il nazismo parlava una sua lingua, semplice. Piena di bugie naturalmente, in pace e in guerra – Dresda “risparmiata” dai bombardamenti perché i nemici volevano farne la capitale della Cecoslovacchia, fino al fatale 13 febbraio 1945. Ma non ci fu l’invenzione di una lingua nazista: “Il Terzo Reich non ha forgiato, di suo, che un piccolissimo numero di parole della sua lingua, e forse anche verosimilmente nessuna. La lingua nazista rinvia molto ad apporti stranieri, e per il resto si rifà al tedesco prima di Hitler. Ma cambia il valore delle parole con la loro frequenza”. Come dire: il nazismo è tra noi, con noi. Non il diavolo che si esorcizza.
“Stranieri” sta per il fascismo mussoliniano e per il comunismo sovietico: nuove per questo in tedesco e ricorrenti furono la “cellula d’impresa” e la “spedizione punitiva”. Ma Klemperer non è Nolte, non collega le dittature - non scusa Hitler col dire che c’erano prima Mussolini e Lenin o Stalin. Molto influiva l’espressionismo, bellico e postbellico, che Klemperer fa figlio del futurismo, della invadenza di Marinetti. Con un insospettato lato “provvidenziale” nella storia di Hitler: “la Provvidenza ci guida” ricorreva in “quasi ogni discorso, quasi ogni appello”. Una “storia provvidenziale” del buon austriaco Hitler, ma più protestante che cattolica: il cerimoniale nazista prevedeva l’“Azione di grazia olandese”, un inno del 1626, della rivolta contro la Spagna. Tutto, soprattutto, è völkisch. Che sarebbe “popolare”, ma è molto di più: il concetto nazista di völkisch è la barriera che si erige tra “ariani” e “semiti” - gli studiosi di Heidegger, così pieno di Volk, non potevano avere dubbi (la cosa è stata peraltro ampiamente spiegata anche da Faye, “Langages totalitaires”, 1974, e “Le langage meurtrier”, 1996).
Con molto nazismo surrettizio, discutibile. Per esempio nelle “Memorie di una socialista” di Lyly Braun, 1911. Nel linguaggio degli stessi ebrei durante la persecuzione, orale e critto, in opere anche di autori considerati. E nei “materiali” che Herzl, il padre del sionismo, avrebbe seminato e Hitler ingigantito. La voglia disperata degli ebrei tedeschi di essere tedeschi è fra i capitoli centrali più densi. Ma uno di essi non era Klemperer. Che imputa a Herzl, in lunghe pagine, di avere dato tanto al nazismo col sionismo, fino a “infettarne”, sic, la Germania, dall’Austria dove il sionismo era divenuto dominante e Hitler lo aveva mediato. Non per cattiveria, per la comune radice romantica, del sionismo e del nazismo - “non soltanto il romanticismo kitsch ma anche quello vero”. Ma poi ce l'ha anche contro Buber, in teoria per il suo misticismo, di fatto per la scelta di Israele. Un’opera d’autore, più che un repertorio di filologo, disperata: di uno che vuole essere tedesco contro venti e tempeste. La “maledizione del superlativo” non è importata dalla “influeza italo-spagnola” del Seicento, per sé ignota alla proba lingua tedesca - “Il superlativo maligno della LTI è per la Germania un fenomeno senza precedenti”?
Sapevamo
I meriti, però, sono eccedenti. Leggendo questo diario, non c’è revisionismo possibile. Le cose – i lager, le “spedizioni punitive”, le bastonature, le persecuzioni, radicalissime e costanti, ogni giorno, ogni ora, contro gli ebrei - erano dette e note dal primo momento. Non ha senso nemmeno il “non sapevano” dei più, della Germania nata e crescita negli anni di Hitler: erano storia quotidiana, e nota a tutti, fanatici e oppositori.
La “Lingua Tertii Imperii” nasce da un diario segreto, che il filologo Klemperer tenne per i dodici anni di Hitler. Come un bilanciere da equilibrista, dice, che lo salva sulla corda sospesa sul’abisso. La disanima che fa a regime finito è senza animosità. Eccetto che per i colleghi: nessuno gli venne in aiuto, nemmeno per una conversazione. La “colpa” non è – era - dei campi di sterminio: c’era stata, lungo un lunghissimo dodicennio, la privazione, del lavoro, poi della casa, poi degli amici, infine delle conoscenze. Delle relazioni umane in genere, perfino delle letture, con la proibizione dell’accesso alle biblioteche.
“LTI” è un saggio e non il diario. Il diario è stato redatto per la pubblicazione a guerra finita, nel 1945, ex post. Ma fatti ed eventi, oltre che impressioni e giudizi, sono incontestabili, e sono – erano - noti a tutti, esercizio quotidiano, a partire dal 1932. Gli ebrei, pur tedescofili, si trascinavano tra gli “ariani” con la stella gialla, ogni giorno erano deprivati di qualcosa, i non deportabili, per vari motivi,.erano confinati nelle Judenhaus, i Cpt dell’epoca, nessuno li poteva frequentare, e alla fine nemmeno parlargli. Mentre la guerra fu sempre giusta, di difesa, e anche messianica, l’Europa doveva essere germanica per scelta divina.
L’inizio è sintomatico, col fascino che emana il passo dell’oca, il tamburo che batte il passo, la marcia celebrativa della battaglia dello Skagerrak, che l’8 giugno 1932 toglie al professor Klemperer, con la sua forza paurosa nelle immagini tonanti del cinegiornale che precede il film, il piacere della visione dell’“Angelo blu”. Tanto più che per Klemperer il Tamburo maggiore, o Tamburino che sia, è Hitler, come lo stesso futuro führer si voleva al processo nel 1923 per il putsch della birreria: “Non è per modestia che volevo diventare tamburino, è ciò che c’è di più nobile, il resto sono bagattelle”.
La LTI invece è “povera e monotona” nell’analisi che Klemperer premette, “come se avesse fatto voto di povertà”. Modellata sul “Mein Kampf”, 1925. Con tratti del linguaggio militare (cioè di caserma?), che poi sempre più corromperà. Ma invasiva: ricorrente nel “Mito del XXmo secolo” come nell’“Almanacco del commerciante”, e in bocca anche all’operaio, all’oppositore, e agli stessi ebrei che disprezzava.
Il diario è di un sopravvissuto, sotto minaccia quotidiana per molti anni. Un figlio di rabbino, allontanato dall’insegnamento nel 1935, e poi sempre più ristretto, fino al lavoro obbligatorio in fabbrica, ma non deportato, per via della moglie “ariana”. Una coppia non qualsiasi: lui è un “ebreo non ebreo” (Isaac Deutscher), che si battezzerà senza problemi al matrimonio, entrambi filologi romanzi, lui specialista di letteratura francese e italiana. Da ultimo Victor e la moglie sopravvivono da sfollati in Lusazia, protetti dalla comunità sorabe, serbi del’alta Sprea, o wendes, protetti a loro volta dal territorio acquitrinoso, e storicamente dalla Boemia. E il giorno in cui lui infine, contro la legge, viene convocato per la deportazione, il 13 febbraio 1945 (a guerra perduta si facevano ancora deportazioni, la burocrazia germanica è inflessibile)  sarà concluso dal bombardamento che distrusse Dresda. Ma il filologo vuole capire e non combattere
Tedeschi di Dresda, i filologi Klemperer si ritroveranno comunisti alla divisione della Germania e si adatteranno, l’importante per loro è tornare all’università e riprendere gli studi. A Natale del 1946 Victor, cugino del più famoso direttore d’orchestra, è in grado di licenziare questo LTI (il diario sarà pubblicato per intero solo nel 1995). La Germania Est non era già più vetrina di libertà, e la “Lingua Tertii Imperii” avrà vista grama, con distribuzione ridotta – ma assommerà pur sempre dodici edizioni, prima della riunificazione della Germania e del rilancio editoriale. 

Victor Klemperer, LTI, la lingua del III Reich. Diario di un filologo, Giuntina, pp. 355 € 20

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