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mercoledì 19 agosto 2015

La poesia delle parti basse

Cecia, la “tropeana” che ha fatto godere mezzo Capo Vaticano, fa testamento del suo strumento. Un poemetto non citabile, e tuttavia non scurrile: sfrontato e anzi strumento di libertà. Succedeva allora - Ammirà è poeta dell’Ottocento, nato e vissuto a Monteleone, ora Vibo Valentia, per lo più dialettale (in italiano fu autore, tra l’altro, di una traduzione libera dell’“Eneide”) – che il sesso fosse metafora di libertà. In lingua no ma in dialetto sì: un vicino di Ammirà, Vincenzo Padula di Acri, che era pure sacerdote, la pensava allo stesso modo, senza eccessi. Precedeva entrambi, due secoli prima, Domenico Piro, passato all’arte come Duonnu Pantu, che anche lui celebrò, come Cecia, la “Cunneide”, ma anche, più famosa, una “Cazzeide”. Roba non isolata, ma tutta dimenticata: forse è qui la causa di una letteratura singolarmente inerte, dopo i primi tre-quattro secoli, nel perbenismo che ha reciso e seccato ogni fermento di vita vera. Di linguaggio vivo e non da boccuccia atteggiata. Singolarmente inerte anche l’effimero revival del canto popolare, peraltro limitato alle canzoni di protesta del primo Novecento. 
Ammirà fu tardo garibaldino, quando il generale risalì la penisola. Dopo aver assaggiato le prigioni borboniche per l’attività risorgimentale – ma ufficialmente in quanto autore di poesie satiriche contrarie al buon costume.    
Vincenzo Ammirà, La Ceceide

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