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sabato 4 febbraio 2017

“No, we cannot” sia il nostro motto

Tesi impegnativa: non si scherza con l’imbecillità. Su una materia, poi, così d’attualità. Cipolla è il riferimento d’uso, come quello più popolare. Ma la lista è lunga: da Fruttero e Lucentini a Marrone (che però argomentava la fine del telefonino, vent’anni fa..), Odifreddi, Ponte di Pino, Accatino, De Conciliis, et al., sembra che non ci sia trattatista che non si ponga la questione. Forse non significativamente, poiché “stupido è (etimologicamente) chi si stupisce”, e se la filosofia, come vorrebbe Jeanne Hersch, nasce dallo stupore – tesi che Ferraris liquida brutale: “Stupida è anzitutto la leggenda della filosofia che nasce dalla meraviglia”. Ma più della trattatistica s’impone l’attualità, o il fatto.
Il tradimento della ragione fu specialmente acuto e diffuso negli anni 1930, testimoniato dalla storia come si sa, e da un’altrettanto consistente denuncia, di Ortega y Gasset, Benda, E.R.Curtius, Th. Mann (“Fratello Hitler”), Husserl, Musil. Siamo oggi allo stesso punto, anche se le denunce non sono così autorevoli? Manca “il fanatismo” di quegli anni, “una forma particolarmente acuta di stupidità”. Oggi semmai siamo dissolutori per essere ipercritici, anzi complottisti, decifratori instancabili di segreti e occultismi, “corpi separati” eccetera (corpi “separati”?), agenti imperterriti delle fake news, della manipolazione dell’informazione, che anzi più sono balle più ci piacciono – è il difetto della rete, mezzo a libero accesso, in linea col vecchio detto meridionale: “Tempo d’alluvione, pure gli stronzi vengono a galla”. Per sfinimento. Impossibilitati a capire, perché non si può ragionare. Per dissoluzione, gioiosa – basta seguire i partiti politici. E perché siamo corretti - non vorremmo all’indice “Huckleberry Finn” e “Il buio oltre la siepe” per razzismo, benché siano racconti propriamente antirazzisti? 
Il libro è serio, con molte note. La bibliografia è lunghissima, in nota al § 3, il tema non è stato trascurato, a partire dal secondo Ottocento. Joseph de Maistre variamente. Flaubert, Baudelaire, Dostoevskij, analisti fini e insieme soggetti d’analisi. Horckheimer e Adorno, che “La dialettica dell’illuminismo” chiudono con “La genesi della stupidità”. Adorno, che poi si eserciterà sulle  “Stelle”, l’astrologia, e sull’“Inautenticità” – per non dire una parola più volgare – di Heidegger. Altri se ne possono citare, Voltaire, Jean Paul, Rochefoucauld, i grandi comici, Molière, Rabelais, Plauto, Aristofane. Il capolavoro dell’imbecillità Ferraris peraltro esemplifica con un volume di un anno fa del suo stesso editore, Holger Afflebach, “L’arte della resa. Storia della capitolazione”.
Il filosofo vuole il suo saggio una “rapsodia”, non un trattato. Una sorta di rassegna. Ma di suo non è rassegnato: assesta molti colpi, a destra e a manca – di più a manca, con l’aiuto di sferzanti reazionari. “C’è un rischio enorme”, premette, “propriamente da imbecilli, che ci si assume parlando di imbecillità”. È anzi temerario. Esordisce con una decalogo non si sa se imbecille o “imbecille”. Del tipo: “Andate a scuole repressive”, “Non esagerate con le idee”, “Copiate, non create”, “Classificate non costruite”. Antifrastico? Pesantuccio. Vuol dire che si esce dalla stupidità coltivando la mediocrità? Come si coltiva la mediocrità?
Poi, però, si diverte e diverte, lieve e gustoso. Con l’“Imbecillità di élite”, dei “Venerati maestri” – “con effetti anche politici se i maestri sono anziani e tedeschi” – e i “Colpi d’imbecillità” – il Walter Benjamin che si suicida perché non ha avuo il permesso di entrata in Spagna dall’alcalde, che glielo avrebbe dato il giorno dopo. Contro il correttismo, il conformismo: “Conoscere l’attrito del reale, la difficoltà dei mutamenti, e soprattutto la strepitosa imbecillità umana, è la sola maniera per poter trasformare il mondo.  Dire invece «Yes, we can» è un modo per mettersi l’anima in pace”. E con l’SSS, il Soggetto Supposto Sapere. Le  “idiozie luciferine di Bacone o di Heidegger”. O la denazificazione di Heidegger. Anzi, i suoi successi: “La singolare operazione di traghettare nella sinistra postmoderna parole d’ordine, termini e concetti” nazisti. Anche Wttgenstein è insolentitio, q.b. - liquidato avrebbe detto Stalin.Con un po’ di Nietzsche, ovviamente. Ma più per il “lato umano”, l’aneddotica, non quello che ci si aspetterebbe di uno che ha scritto “Perché sono intelligente” – in apertura a un “Ecce Homo” che avrebbe potuto intitolarsi “Specchio”, o “Tentativo di una valutazione di se stesso”. E senza il supponente Schopenhauer, o Kierkegaard – mentre l’“imbecille delle Prealpi” Heidegger è bersaglio comodo, rinchiuso nella polemica antinazista.
Che far(n)e? “La dialettica dell’imbecillismo racconta una storia di dannazione certa e di redenzione dubbia”. Siamo sempre qui, si sa, nella valle di lacrime. Il filosofo dice poi la redenzione “eppure sempre possibile”. Ma da ottimista, anche se non candido?
La tesi è impegnativa. È il rovesciamento di Rousseau, del “Contratto sociale”: l’uomo nasce libero, vive in catene , e il perché lo ignoro. Coi colpi di maglio di Voltaire vecchio. E con lo spirito sardonico di Joseph de Maistre, vecchio anche lui e reazionario, alla demolizione di Rousseau, di  Bacone, di Locke. Una fenomenologia del Witz proponendo alla fine: dello spirito ma caustico.
Lui stesso vorrebbe essere inquietante: “Non conosciamo”, realizza a un certo punto in polemica con Heidegger, “un solo animale povero di spirito, mentre la povertà di spirito sembra essere il passo costitutivo dell’umano”.  Ma poi si trattiene – troppo rischioso essere apodittico? La “dialettica dell’imbecillismo” non sfocia a nessun lido.
Umberto Eco apre e chiude il libro. All’apertura è l’Eco di qualche giorno prima della morte che, stufo della rete, dichiara il mondo pieno di imbecilli. Non una grande scoperta, per la verità, anche prima di internet. E non molto allegro. Alla chiusa torna un Eco ancora lontano dalla fine, ma da essa avvinto, che fa argomentare a Socrate una buona morte se solo ci si convince che il mondo è pieno di imbecilli. Un omaggio a Eco bonario, del fondo di malinconia “all’origine del suo incontenibile buon umore”. Rimestando la vecchia “parentela che unisce il ridicolo al sublime”. Ma con un che di non libero, anzi di scherzo a denti stetti. Da reduce che non si dà pace, di una guerra che non sa vincere, forse perché non sa combatterla – ci vuole fegato a essere reazionari, antidemocratici, incoscienza.  
Non detta, è l’impraticabilità della scena politica, italiana. Occupata, oltre che dai soliti “lupi e agnelli”, “falchi e colombe”, pesantemente dal “popolo bue”. Si fanno temi a scuola sulla traccia “La mamma dei cretini è sempre incinta”, o degli idioti, gli stupidi, gli imbecilli, ma, si vede, a nessun effetto, o altrimenti moltiplicatore.  È un’esercitazione contro “il farisaismo, la dissidenza immaginaria rispetto a quello che non va, e la dissidenza reale tra il dire e il fare” delle élites culturali. In questo senso si può dire la rapsodia coraggiosa - se la leggono, per esempio, al giornale di Ferraris, “la Repubblica”, epitome e esempio massimo del libello (quale élite più élite)?
Maurizio Ferraris, L’imbecillità è una cosa seria, Il Mulino, pp. 129 € 12

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