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domenica 31 dicembre 2017

Il mondo com'è (329)

astolfo

Diversity – La dottrina della “diversità” farà quarant’anni l’anno che viene. Ma arriva alla maturità come materia di discussione, senza più il sostegno unanimistico, più o meno convinto, con cui ha prosperato. Tema di discussione della sinistra americana, che lo ha promosso e difeso, attorno al partito Democratico e fuori: se la “diversity” ha fatto il suo tempo e perché. È la domanda che si pone “The New Yorker” a fine 2017, la “diversity fatigue”, stress da diversità, e insieme sovraesposizione. 
La “dittatura delle minoranze” è tema antico della democrazia americana, già Tocqueville ne parlava. Ma la discussione in corso non è rituale, e non solo teorica: si innesta su fatti precisi, e va in crescendo. Neanche il rigurgito di sessismo emerso col caso Weinstein sembra ridare vena alla “diversità”. La regista Ava Du Vernay, la prima afroamericana che ha beneficiato di una nomination ai Globe, si è distinta, dopo la polemica seguita agli Oscar 2017, che premierebbero i bianchi, con un attacco alla “diversità”:  “Odio tanto questa parola, proprio tanto”, ha dichiarato. Argomentando che ha un suo suono “medico” e freddo, mentre “appartenenza” e “inclusione” sarebbe quello che le gente da sempre marginalizzata vorrebbe sentirsi proporre.  
La pietra d’inciampo è Trump, ma non solo Il riconoscimento delle minoranze delle minoranze, e fino ai bisogni personali purché collegabili a un elemento di etnia o di genere (la “diversità” è di fatto un sistema di garanzie per il lavoro e la carriera delle donne e della gente di colore) , ha generato il fenomeno Trump, o Trump ne sta generando la fine, comunque l’indebolimento? “The New York Times” si è giustificato con irritata ironia, dopo le tante proteste dei lettori, per avere ospitato nella pagina delle opinioni un commentatore conservatore, protestando a sua volta il principio della “diversità di vedute”.  Mark Zuckerberg, costretto anch’esso a scusarsi, qualche mese prima dl “New York Times”, per avere tra i suoi collaboratori Peter Thiel, che è anche consulente di Trump, ha messo in campo il rispetto e il bisogno di una “diversità ideologica”.
La diversità era già venuta sotto accusa una ventina di anni fa, da parte di manager aziendali, direttori di giornali, direttori di dipartimenti universitari e centri di ricerca. Per l’aggravio di dover  reclutare, formare, favorire comunque quote di minoranza, a rescindere dalle qualità personali, e per  l’insufficienza spesso degli esiti produttivi. Nel 2006 fu la volta di alcuni scrittori, che lamentarono la difficoltà (“come camminare sulle uova”) di tenere sempre in conto le diverse suscettibilità, anche dei singoli, inibitorie fino al silenzio. Po Bronson e Ashley Merryman, in particolare, due scrittori liberal, posero il problema di un “eccesso di tolleranza”: “Le persone vogliono essere tolleranti, ma dopo un certo punto si sentono obbligati a ingoiare la zuppa”.
Trump sarebbe il detonatore di un’insodisfazione ampia. Si fa colpa alla “diversity”, scrive il  “New Yorker”, dell’atletismo in declino, compresa la mancata qualificazione della nazionale di calcio ai mondiali di Russia (la prima volta dopo molti anni: anche negli Usa è un piccolo dramma, come in Italia). Della popolarità in declino delle nuova ”Star Wars”. E anche di quella dei Supereroi: “Un’indagine MarketWatch sulla diffusione del catalogo Marvel si chiede se gli appassionati «tradizionali» non siano stati allontanati dai loro beniamini dalla crescente diversificazione dei Supereroi – che include «uno Spider-Man afro-latino, una Ms.Marvel mussulmana, un Thor femmin a, un Iceman gay, un Hulk coreano, un ruolo femminile afro-americano in Iron Man, e una Chavez lesbica latino-americana»”. Gli ambulatori sanitari per il controllo e la prevenzione (Centers for Disease Control and Prevention) includono “diversity” in una lista di parole-concetto che scoraggiano di usare al loro personale.
La “diversità” è stata imposta per legge dalla Corte Suprema federale negli Usa il 28 giugno 19798. Ma dopo un dibattito di nove mesi. E con una decisione “divisa”, 4-4. Che prevalse solo per il parere volatile del Lewis Powell, che una volta votava per un gruppo, e un’altra per l’altro gruppo. . Il suo parere comunque non fu condiviso da altri cinque giudici, che diedero una lettura diversa della sentenza. Le sei opinioni si dividono grosso modo 5-1: le cinque arguiscono il bisogno di un “azione affermativa” per riparare ai guasti storici della discriminazione e dell’ineguaglianza. Il giudice Powell argomentava invece l’opportunità di una ‘”azione  affermativa” per cogliere nuovi umori e nuove forze, soprattutto nell’istruzione superiore e nelle univevrsità. Un criterio che oggi, mutate le condizioni politiche, se l’elezione di Trump ha un senso, potrebbe giocare contro gli automatismi della “diversità”.

Perdono – È attraverso il perdono che il cristianesimo diventa religione accettata, e presto religione di Stato. Il perdono delle efferatezze dei potenti. Lo snodo è ben sintetizzato dal romanziere russo Merežkobskij in “La morte degli dei”, la storia di Giuliano l’Apostata. Quando l’imperatore Costantino a una certa età fu sopraffatto dalla violenze commesse, tra esse l’assassinio del figlio primogenito Crispo, della seconda moglie Fausta, e del nipote Licinio, figlio della sorella Costantina. “Straziato dai rimorsi, l’imperatore aveva supplicato gli ierofanti della religione pagana di purificarlo, ma quelli si erano rifiutati. Allora il vescovo lo aveva persuaso che soltanto la religione di Cristo possedeva sacramenti in grado di mondarlo da simili delitti”. 

Tribù Un atlante delle tribù sarebbe oggi un ghirigoro infantile di colori indefinibile. Sono innumerevoli i conflitti che a vario titolo, etnici, religiosi, di frontiera, politici, sono in atto in Africa, a Sud e a Nord del Sahara, in Medio Oriente, in tutta l’Asia, e in Europa. Caldi o dormienti. nell’Africa ne-ra. E una serie di schede sinistre sui conflitti interni euroafricani: l’inestri-cabile tripartizione marocchina, arabo-berbera-spagnola, i berberi contro gli arabi in Algeria, i copti in Egitto, l’inestricabile tripartizione jugoslava fra croati, serbi e, in Bosnia, i musulmani, con gli albanesi dentro la Serbia e la Macedonia, e i greci dentro l’Albania, i Russi dentro l’Ucraina, e dentro le frazionate comunità caucasiche, poi gli inglesi dentro l’Irlanda, gli scozzesi dentro l’Inghilterra, i baschi e i catalani in Spagna, gli ungheresi in Romania, i rumeni in Moldavia, i fiamminghi e i valloni, gli armeni, i curdi e diecine di altre nazionalità dimenticate.
Un fattore di nazionalismo, quindi bellicoso. Ma antirazzista. Cinquant’anni fa Ronald Segal, il fondatore della Penguin African Library, argomentava in un denso volumone in favore della razza come “fattore primario”, o “strutturale” – era d’obbligo allora “rifare Marx”. Ma il contrario è più vero: la tribù nei fatti smantella la razza. È il fatto tribale religioso che tormenta l’Irlanda, non quello etnico. Ottantacinque musicisti in quindici generazioni di Bach non è un fatto di razza teutonica, non c’è un Dna nazionale della musica, ma di ascendenze familiari. O i Melani di Pistoia, sette musicisti su nove fratelli, dal maggiore Jacopo, autore della “Tancia”, la prima opera buffa, al minore Alessandro, che musicò il primo don Giovanni, l’”Empio pentito”. O i sette Scarlatti, sorelle, fratelli, figli e nipoti di Alessandro. Storicamente si può sostenere che il razzismo nasce quando si conculca il tribalismo. Nasce nel 1492 in Spagna, dopo la conversione imposta agli ebrei: non contando più la professione religiosa, per distinguere gli ebrei si compilano Libri Verdi sulla limpieza de sangre.
Un problema è semmai a che tribù legarsi, fra i tanti incroci. Ai kikuyu operosi, coi quali aveva mercato quotidiano, Karen Blixen preferiva i masai, che vivono a sbafo, e i somali, che impongono ai giovani di ammazzare qualcuno se vogliono una moglie – così pensa lei golosa. È vero che il cuoco kikuyu ha gambe curve, viso piatto, naso schiacciato, ed è un nano di fronte ai somali e masai, i quali, non lavorando, sono alti e ritti. In swahili tribù si dice cabila, ma potrebbe essere cabala.

astolfo@antiit.eu

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