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venerdì 5 gennaio 2018

Hannah si vede Rahel, e non si piace

È la storia di un’ebrea che si negava. Cioè non si negava, voleva vivere come gli altri. Prorompente di vitalità. Senza danni per nessuno. Che per questo la giovane Hannah Arendt ammirava. Non bella né specialmente colta, ma capace di stimolare gli intellettuali, che ne frequentarono per decenni la casa, proficuamente. I nomi migliori in circolazione a Berlino. E in particolare un focolaio del prorompente romanticismo. Un personaggio che, senza l’ebraismo, una sorta di vincolo o capestro, specie dopo la fine dell’ebraismo in Germania, sua patria prediletta, sarebbe un vanto di tutte le storie delle letterature, e di tutte le storie. Il lascito Varnhagen, che era andato smarrito quando Hannan Arendt ha lavorato alla sua storia, e ora è ritrovato, è pieno di nomi importanti. Si può anzi dire un archivio del romanticismo. Con i lasciti dei Brentano, fratello e sorella, e molte lettere degli Schlegel , gli Humboldt, i Mendelssohn-Bartholdy, Leopold von Ranke, Hegel, Tieck. Casa Varnhagen fu il lugo della beatificazione di Goethe a Berlino, in vita, anzi relativamente giovane, con busto in sala.
Più propriamente, però, la storia è di un’incomprensione. Nella redazione per la pubblicazione, negli anni 1950, la storia diventa una violenta trasposizione della vicenda dell’autore nel suo soggetto. Di Rahel Levin e August Varnhagen, persone per più aspetti stimabili, Hannah Arendt fa dei parvenu, lei perfino sciocca per essere ebrea, e quindi stretta tra assimilazione e rifiuto. Hannah Arendt non aveva avuto, e non avrà, problemi di rigetto della società cristiana e “occidentale” in cui ha vissuto, riconosciuta. Ma vive in questa biografia, che invece è un esame di coscienza, la stupidità (“banalità”?) della sua relazione con Heidegger. Il cui ripudio ha ogni ragione - nel momento in cui scrive - di imputare al suo essere ebrea (un anno o due dopo, o due mesi dopo, capirà invece che l’amore della sua vita, che ora dipende da lei per la riabilitazione, non è la Volpe che si credeva).
Le date conducono quasi univoche a questa direzione: Hannah Arendt cominciò a lavorare su Rahel Varnhagen nel 1930, dopo la tesi di dottorato sull’amore in sant’Agostino, condotta con Jaspers e non col maesto-amante Heidegger, che l’aveva ripudiata. Una ricerca all’infuori dei suoi interessi di filosofa cattedratica. E in antitesi col suo stesso essere-non essere ebrea – di non aver visutto fino ad allora il suo storione familiare se non come quello di una famiglia - padre e madre uniti nell’orientamento -  tedesca liberale. Non conclude il lavoro, per gli eventi sopravvenienti, l’esilio praticamente forzato per motivi razziali e la sua prima adesione al sionismo. E quando lo riprende e lo pubblica - la prima edizione è del 1958 - è come un esecizio autobiografico. Una “biografia come autobiografia” la dirà Elisabeth Youg-Bruel, sua biografa ex allieva.
È un rapporto, tra autrice e soggetto, tra diciannovenni. Rahel ha diciannove anni quando comincia a fare della sua mansarda berlinese il ritrovo preferito di amici intellettuali, e poi, negli anni delle guerre napoloniche e dell’incipiente romanticismo, di cui diventa in Germanla la fucina privilegiata, della migliore società politica e letteraria. Hannah ha diciannove anni quando arriva a Marburgo a studiarvi la teologia, un ache fumava in strada, sapeva di Platone, e ballava il boogie-woogie.
Quello di Rahel è un salotto, ma anche un modo di essere. Lo diventa quando Hannah Arendt decide di rivedere il testo e stamparlo. Sotto l’ombra, inevitabile, dell’Olocausto, e quindi del rifiuto del rifiuto, di un ebraismo irrinunciabile se non di un sionismo (ri)conquistatore. È così che la biografia diventa, una sorta di specchio, non grato. Al “veneratissimo maestro” Jaspers, che la rimproverava nel 1952 di non avere amato il suo personaggio, risponde che è vero. Per una ragione precisa: aveva continuato a discutere con Rahel come aveva fatto con se stessa “in tutti questi anni”.
Come biografia è monca anche perché Hannah Arendt dovette lasciare la Germania quando ancora non aveva completato l’esame delle fonti. E quando riprese il lavoro, negli anni 1950, l’archivio Varnhagen, dapprima conservuto alla Biblioteca di Stato di Berlino, era dato per disperso – sarà ritrovato nel 1976 in Polonia, a Cracovia, dove si trova nella biblioteca Jagellonica.
Nella prefazione alla prima edizione, 1958, spiega di non aver voluto attribuire al suo sogetto “poeticamente, con pretenziose riflessioni, un adestino diverso da quelo che lei stessa coscientemente ha vissuto”. Onesta premessa. Ma da intendere così: “Rahel non era né bella né attraente, e tutti gli uomini con cui ha avuto un rapporto d’amore erano più giovani di lei; la sua straordinaria intelligenza e la sua originalità appassionata non avevano doti a disposizione per riuscire a oggettivare le esperienze vissute; infine la sua è stata un’esistenza tipicamente ‘romantica’, e il problema femminile, il divario cioè fra quanto gli uomini ‘in genere’  si aspettano dalle donne e quanto possono dare e a loro volta attendano era già prefigurato nelle condizioni dell’epoca e quasi insolubile”.
Una mediocre? No. Anche se nella diatriba ebraica sull’ebraismo molti soggetti finiscono per sembrarlo, sotto le spoglie della identità. Che volentieri sconfina nel paralogismo.
Si ripubblica l’edizione 1988 di Lea Ritter Santini, con la postfazione di Federica Sossi alla riedizione nel 2004. La lunga prefazione di Lea Ritter Santini mette in quadro la persona e la vicenda – con l’aiuto spesso della corrispondenza Arendt-Jaspers. Perché Arendt non l’ha fatto. A ragione quindi Federica Sossi insiste sulla “storia ebraica”. Ma non dice che è una ragione ex post, degli anni della guerra e dopo. La “questione ebraica” in Germania è della seconda metà dell’Ottocento, non di prima.
“L'ebraismo di lingua tedesca e la sua storia” Hanah Arendt vuole nella prefazione 1958 “un fenomeno del tutto particolare”. Intendendo eccezionale - come tutto che è Tedesco. È Arendt l’assimilata malgrado tutto, Rahel Varnhagen era accettata e benvoluta. Questa sua “Storia di una donna ebrea” è la sua propria despedida, il canto dell’addio, nel momento in cui decide di pubblicarla (poco dopo ritroverà la “sua” Germania). Non amabile.
Hannah Arendt, Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea, Il Saggiatore, pp. 429 € 22

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