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venerdì 12 ottobre 2018

Secondi pensieri - 363

zeulig

Classico - Classico sta per misurato. Ma la misura è non inventare la realtà, pur inventando. I classici, ha scoperto Tocqueville in America, sono aristocratici: scrivono per pochi, di temi scelti, e curano i particolari. Con opere peraltro non “irreprensibili”, poiché “ci sostengono dalla parte verso cui propendiamo”. Ogni testo non ha sostanza se non mutevole, compresa “la famiglia confusissima e zingaresca dei codici di Platone”, avrebbe detto il non citabile grecista Coppola, fascistissimo, ma il fatto è quello, già al tempo di Petrarca.
L’“Enciclopedia”, che fa il nostro mondo, è quella dello stampatore Le Breton. Che tagliava e cuciva per sue esigenze d’impaginazione, risparmio, legalità. Diderot lo scoprì un giorno che volle leggere in bozze un suo articolo della lettera S. Non protestò per non figurare responsabile dell’opera. Ma non protestarono neanche gli altri autori. E i classici iperdistillati non sono passati per schiere di copisti incolti, burloni, ebri? Sono classici per l’autorità di un grammatico oscuro, quali cose appartenenti alla prima classe dei cittadini, fra le cinque in cui l’ordinamento timocratico, in base al patrimonio fondiario, di Servio Tullio aveva diviso i romani. Dei latifondisti, insomma. La narrazione no, ha vita propria. Ma in orizzontale. Una tessitura larga, piana, visibile. Non la storia che fa avanti e indietro, la freccia, ma un prato.

Filosofia tedesca – È stata, è, francese. Da un secolo in qua – ma forse già da Nietzsche. Poco frequentata in Germania. Riccardo De Benedetti lo rileva di Marx, del comunismo –“La fenice di Marx”: “Occorrerebbe studiare approfonditamente il significato di questa riprovincializzazione  di una visione così profondamente tedesca”. Ma è più vero del Novecento, da Schmitt a Jünger e Heidegger. E poi, con particolare intensità, nel post-comunismo, da Derrida a Nancy e Badiou.

Io – Si è allargato da Freud ai social e al culto dei selfie, in parallelo con l’impersonalità di ogni relazione. Anche quella di coppia sempre più si riduce all’ananke, ale cose da fare, e al dare e avere, sessuale, economico, parentale.
Si acuisce il culto romantico, ipertrofico, di una interiorità antidoto al mondo coltivando l’evasione in realtà. Nel sogno e nella memoria. In reazione all’illuminismo e al ragionevole Kant, si suole dire. Ma piuttosto invece come loro sviluppo, l’applicazione della ragione all’insondabile, opera di Nietzsche, di Freud, di Heidegger.Un culto del sé che non può non approdare nel nulla – pur rifiutando, caratteristicamente, il conseguente annullamento del sé, l’annientamento fermando all’annientamento di sé, il pensante.
Ciò produce molta letteratura, due secoli già abbondanti,  un realismo fantastico. Di incubi che diventano sogni, e viceversa, del dolore che attenta a ogni gioia, e viceversa, una ricerca incessante, nuovissima, della felicità che immancabile finisce in angoscia. Insomma il trattamento psicoanalitico: l’Io finisce sul lettino.

Paesaggio – È “in assoluto la migliore altalena e culla del nostro vivere inquieto”, Jean Paul, “L’arte di prender sonno”, 26. In quanto è creato “con facilità dall’animo umano, che ha più occhi che orecchi”. In più, a differenza del consorzio umano, i paesaggi hanno un vantaggio: “Non fanno correre il rischio di futuri subitanei risvegli perché disertati dagli uomini”. Per questo il paesaggio si dice riposante, anche quando è tenebroso e tempestoso?

Realismo – In qualche modo c’è, va recuperato. Si rischia altrimenti di camminare sulla testa come il poeta Lenz di Büchner. Piegando la realtà e la storia a paranoie evidenti e incessanti, avendo creato forme ideali che sono formule.
L’idealismo viene con la poesia prima che con la filosofia, il suo errore è per questo pervicace. È difficile provare che è un errore, poiché si tratta d’un impulso e una passione. I poeti che pretendono di andare al fondo della realtà non ne hanno idea, di solito, e tuttavia sono indelebili, con la loro realtà. Non sono maschere e non fanno trucchi, sono uomini adulti, senza più quindi il realismo degli infanti. Ma il loro idealismo, ancorché rovesciato in materialismo, è sbagliato, e se non è consolazione va rigettato, è una serie di furfanterie. Dio ha creato il mondo, e come si può pretendere di saperne di più? Volendo nutrire aspirazioni, queste dovrebbero portare a imitare il mondo, in qualche modo e misura. Insomma a non strafare, sapendo di che si parla.
Il realismo non è male, da Roscellino a Kant, che pure ci vedeva da un occhio solo. “Ovunque io esigo vita”, dice Lenz al buon pastore Oberlin, “possibilità di esistenza, e questo basta”. L’idealismo, Lenz dice pure, “è il disprezzo della natura umana”. È i fianchi grassi che lo struzzo vuole esibire, per questo s’è inventato di sotterrare la testa. Ma, affannato, Jacob Michael Reinhold Lenz si fa opporre dallo svizzero Kaufmann, pietista idealista, che l’Apollo del Belvedere non c’è in natura, né la Madonna di Raffaello. Fa anzi peggio, concorda con l’idealista che i fiamminghi sono idealisti e gli italiani no, uno dei luoghi comuni più vieti. Ma continua a guardare le persone in viso. Che è il modo di comunicare più pieno, e creativo.
Si può presumere di sé, anche esagerare. Ma non al modo di Stendhal-Brulard, inventandosi. E questo per l’estetica prima che per la morale. Il realismo serve alla bellezza, a trovarla e beneficiarne, non c’è una vera poesia idealista. “Le immagini più belle, le note più turgide e canore, si raggruppano e si dissolvono”, Lenz lo spiega bene. Una cosa sola rimane: una bellezza infinita, che passa da una forma all’altra, eternamente dischiusa, immutata. Bisogna amare l’umanità, per penetrare nell’essenza di ciascuno”. Il realismo serve a vivere, e a godere. “Non sta a noi dire se la creazione sia bella o brutta. La certezza che quanto è stato creato ha vita viene prima di questo giudizio, ed è il solo criterio nelle cose d’arte”.

Il realismo aiuta a scrivere, non c’è idealità nella scrittura, anche se ai classici si dà questo privilegio. La scrittura nomina le cose, dice bene Roscellino, ma non deve esagerare, la retorica non ha censore peggiore dei suoi eccessi.
Il realismo serve alla verità. Bisogna essere per la “morale della storia”, anche solo perché la storia approdi a negare se stessa: le guerre, i massacri e i processi. E, bisogna aggiungere, le sciocchezze.

Storia – Si tende a escluderne o a irriderne una filosofia. Mentre non se ne fa di altre, solo filosofia politica. Perenta è la logica, epistemologia compresa. La metafisica non sa dove sbattere. L’etica e l’estetica vanno sotto tono (eccetto che nei talk-show) – perfino nelle chiese e tra gli artisti. Tutto è politica.

La storia non è una macchina calcolatrice, si dispiega nell’immaginazione, e prende corpo in risposte multiformi.
Gli storici hanno le loro colpe. L’umanità si muove in modo continuo, anche se vario, mentre per capire le leggi del suo moto gli storici usano unità arbitrarie, discontinue: epoche, stadi, periodi, percorsi. E così, conclude Tolstòj, “ogni deduzione della storia si dissolve come polvere”. È come se si volesse coprire con la storia la realtà: si fanno appelli, s’invocano leggi, si creano fatalità. Si può sperare di capire le leggi della storia “solo ammettendo all’osservazione unità infinitesimali, il differenziale della storia, le inclinazioni omogenee degli uomini”, concede il conte. Che però ammonisce: “La stranezza e comicità della nuova storia è l’essere simile a un uomo sordo che risponda a domande che nessuno gli fa”. Ogni storia è nuova, ma è nota.

zeulig@antiit.eu

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