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sabato 13 ottobre 2018

La promessa di Marx che non ci salva

Il comunismo di Marx “ha sempre lottato per l’utopia senza mai rinunciarvi”. Ed eccoci qua, alle prese con questo comunismo, trent’anni dopo la caduta del regime sovietico. In Cina ben al governo, in Vietnam, forse a Cuba, ma anche altrove nei discorsi e nelle idee.
“Una rassegna”, dice l’autore questa “fenice Marx”, del postcomun0simo. Di alcune posizioni intenibili del post-comunismo - non postmarxismo, non siamo al post: Asor Rosa e poi, su un altro livello, Antonio Negri, Jean-Luc Nancy, Giorgio Agamben, Alain Badiou. Sviluppata sul nocciolo di ricerca proposto dieci anni prima, in “aut-aut” nn. 271-271, 1996, “Comunismo come supplemento d’anima?”.
De Benedetti è arrabbiato. E il lettore con lui. Apre i capitoli all’insegna del pop, i Beatles, gli Arena, Mogol e Battisti. In antitesi – o no? – col trattato postcomunista di Negri, “Impero”, che termina appaiando san Francesco e le “posse” – si spera quelle musicali. Ma il panorama è sconfortante . La trattazione, benché datata, è purtroppo sempre attuale: i quindici anni trascorsi dacché l’opera è stata pubblicata non hanno migliorato il postcomunismo. Non sembra vero, col populismo trionfante, in Europa e nelle Americhe, a Sud e a Nord, a destra e a sinistra, ma il populismo ne è una derivate, oggi ignorata, ma consistente, nelle determinazioni di voto - in Italia in Toscana, in Emilia-Romagna e nelle Marche, e nel “vaffa” di Grillo.
Di Marx ce n’è più d’uno
La storia del comunismo ancora non si è fatta, in Russia e fuori. E della critica si è svuotato pure il termine, oltre che la funzione, lo schieramento si dissolve solo un po’, per ragioni anagrafiche. Piuttosto che analizzarsi criticamente, il postcomunismo si fa furbo. I filosofi “si sono rilevati ancora più restii degli storici a prendere in considerazione qualcosa come una presunta «lezione dei fatti»”. I filosofi “di lingua italiana”. Ma come parte della “koiné ermeneutico-heideggeriana”, di una sua lettura “quanto meno sbrigativa”, e “in grado di vanificare qualsiasi «fatto»”, di “dissolverlo in un «conflitto delle interpretazioni»”, pretestando nessuna verità possibile. Fino all’ineffabile Derrida, che sempre salva capra e cavoli – “di Marx  ce n’è più di uno, deve essercene”.
Mentre, è evidente, il comunismo avrebbe bisogno di misurarsi col sovietismo, con la sua pratica trucida e fallimentare, anche al fine di ricostituirsi o meglio definirsi. Ma non se ne può parlare male, se non di qualcosa di remoto e a noi ignoto – a noi, quelli che lo hanno praticato una vita. Al centro della trattazione si ripropone così “la capacità inedita del post-comunismo di entrare in rapporto con tutto quanto possa servire di volta in volta alla costruzione non tanto di un’alternativa  realmente percorribile volta al miglioramento delle condizioni sociali dei più, quanto di alimentarne le speranze o quantomeno di gestirne il rapido trapasso da aspettativa a disincanto, prolungando indefinitamente quella che si potrebbe chiamare la dimensione adolescenziale dei corpi sociali”. È il “vaffa” di Grillo che spopola. De Benedetti ci aggiunge i “bamboccioni”: “Il post-comunismo vive una fase molto simile a quello che accade nelle famiglie di oggi, costrette o per convenienza o per mancanza di alternative  praticabili, a prolungare la giovinezza dei figli in uno spazio indefinite fatto di attese e delusioni”.
Sotto al chiesa di san Paolo
Di fatto, “una volta venuto meno al comunismo quel tanto di principio di realtà rappresentato dal socialismo reale, lo scatenamento della fantasia sembra non avere più limiti”. De Benedetti ne propone gli esempi più notevoli, di maggior richiamo. Ma più che della fantasia lo scatenamento sembra dell’insolenza: “Il comunismo è rimasto, per questa galassia culturale immensamente influente, l’orizzonte tuttora imprescindibile di ogni buona azione, di ogni buona intenzione, che non è mai tale se non si referenzia, in ultima analisi, ai valori, agli stili e alle promesse che il comunismo stesso ha alimentato”, il comunismo reale, il sovietismo. Il meccanismo è semplice: “Le società dell’Est sono crollate non a causa dell’insostenibilità del comunismo, della sua impossibilità ‘tecnica’ ed economica, ma, al contrario, perché in quell’esperimento vi era troppo poco  comunismo, anzi non ve n’era affatto”. La continuità è peraltro, va aggiunto, nella lingua di legno – che purtroppo si riflette anche nella trattazione di De Benedetti.
Non dire sembra l’imperativo. Anche a costo di dire scemenze. Di Negri con san Francesco affiancato alle “posse” per il comune spirito di comunità. O di Badiou, con Agamben al seguito, che rifanno la comunità di classe con san Paolo e il comunitarismo bimillenario della Chiesa – e a De Benedetti è mancato Tronti, che il pedigree ha perfezionato ad altezza liriche – “Il nano e il manichino”. Agamben è anche uno che introduce “Al di là dei diritti umani”, uno dei saggi di “Mezzi senza fine”, 1996, con “prima che si riaprano in Europa i campi di sterminio (il che sta già cominciando ad avvenire)”. Dopo che si sono chiusi i campi di sterminio comunisti?
De Benedetti affronta il postcomunismo sul piano della riflessione: “Perché un ideale politico come quello comunista sembra sopravvivere alla severa confutazione della storia”. Il comunismo di Marx, che a differenza del summum bonum di sant’Agostino si vuole di questa terra, è il tema del libro. Scandito attraverso l’analisi di cinque opere, dei cinque post-comunisti citati - con Derrida ghignante, attorno, sopra, e sotto. Cosa voleva Marx, e cosa è o può essere la sua critica (filosofia). Ma inevitabilmente costeggia la scena culturale, che è dominante – il pensiero è scarso, il potere vasto. Si veda all’inizio, la rozzezza del “pensiero politico” di Asor Rosa nel postcomnista “La guerra”. Uno che non ha letto il Rapporto Krusciov, 1956, non sa di Ungheria, 1956, né di Praga, 1968, del Muro a Berlino, della Polonia, delle fughe, dei manicomi. E nemmeno del socialismo, la “transizione” forzata di Marx, che in Althusser è “una merda”.
Agitatore politico
Marx è certo stato un filosofo. Ma a leggerlo è un agitatore politico. Non un politico, se non di partito: fazioso, un agitatore. Marx è diventato un filosofo dopo Lenin e l’Ottobre sovietico, dopo il loro fallimento, la storia di una catastrofe, di una serie di catastrofi. Basato su una nozione, la classe, strumentale, puramente agitatoria. Non definita nemmeno. Marx ne parla al libro III del “Capitale”, svogliato e non concluso, dopo due libi incentrati sul “conflitto di classe”,
Sterminate trattazioni Lenin ha seminato, che la sapiente propaganda del Komintern ha fatto germogliare ovunque – per quanto: quanto Marx Gramsci, per dirne uno, ha letto e ponderato? Ma per ciò stesso, per restare “esornativo”, soprammobile, come lo dice Croce, è diventato filosofico. Una delle intuizioni più brillanti della trattazione di De Benedetti. Croce porta a un grosso equivoco, spiega, attribuendo “carattere ornamentale”, nella “Storia dell’Europa”, alle tesi massimaliste del congresso socialista di Erfurt, 1891: avalla di fatto il massimalismo stesso. Impianta e radica - nella “storiografia del comunismo patrio” – “una lunga stagione di equivoci e fraintendimenti intorno alla portata e al ruolo del comunismo nella cultura italiana che tenderà ad ascriverlo alla tradizione dell’umanesimo italico, sottovalutando gli esiti devastanti, proprio a fronte di quella tradizione, ottenuti nella sua realizzazione pratica in porzioni significative del continente europeo”. Portando ad esso l’adesione del “ceto medio-alto influente” – a differenza, si può aggiungere, di altri paesi europei, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna. A un comunismo avulso dalla realtà, che è solo un lavacro culturale, e uno zoccolo duro di buona coscienza.
Ma, poi, lo stesso De Benedetti trova che il comunismo, che comunque va fatto risalire a Marx, è all’origine una filosofia. Per programma, e per la ragione antica e seminale, all’origine dell’“Occidente”, che Taubes rilevava, “Messianismo e cultura”: Marx introduce per primo “una promessa di salvezza”, grazie a una verità che “non resta incarnata esclusivamente in una teoria accessibile solo a pochi nell’inattività, ma, attraverso la prassi della storia, diventa una possibilità per tutti”. O del comunismo, anche, come religione - prima dell’attendamento sotto san Paolo.  
Una denuncia giusta, da critico culturale pacato, senza eco. C’è un social scientist, accreditato, ci dovrebbe essere un cultural scientist. Che però, ceto, è abito ingrato: è anticonformista e porta all’isolamento. Essere nel giusto è un colpa, c’è poca onesta e molta malafede nella cultura – presunzione, opportunismo, faziosità. La storia del dopoguerra in Italia e in Europa, la storia della Prima Repubblica in Italia, e anche della Seconda,  non ne dovrebbe fare a meno, della critica culturale. Anche perché la sua assenza si è tradotta, si traduce, senza anticorpi, senza critica, in ritardo economico e sociale. Oggi si direbbe anche politico: l’implosione del comunismo non ha cessato di fare danni. L’eredità resta pesante. Specie in Italia.
Riccardo De Benedetti, La fenice di Marx, Medusa, remainders, pp. 163 € 6,25

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