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lunedì 10 giugno 2019

I processi alla filosofia

Una vicenda che caratterizza l’avvio della Controriforma, e poi tutto il Seicento, secolo pure di grande libertà intellettuale, proficua nelle scienze. Il primo processo Campanella lo subisce nel 1592, a 23 anni, frate domenicano sconosciuto, di formazione e esperienza provinciali, in remoti paesi della Calabria, ma già autore di una celebrazione di Telesio, “Philosophia sensibus demonstrata”. Non essendoci nulla da eccepire nel libro, fu processato perché “uno scioccherello giunse ad accusarlo di possedere un demonietto personale allogato nell’unghia del dito mignolo, che gli suggeriva le risposte a qualunque quesito ed era la sola fonte della sua sterminata dottrina”.
La dottrina era il suo vero inciampo, e su qeusto verté l’interrogatorio: “Come sa di lettere costui, se non le ha studiate?”. Campanella si difese con un detto di san Girolamo, sui suoi studi anche di notte: “Io ho consumato più d’olio che voi di vino”.
Fu assolto questa prima volta, senza tortura. Ma molti altri processi subirà fino al 1605,  di cui Firpo fa gustosi e terribili resoconti nel primo contributo di questa raccolta di saggi campanelliani, quello che dà il titolo al libro, un centinaio di pagine. Giudicato da ultimo per la presunta congiura antispagnola e la creazione di una repubblica-città del sole in Calabria. Non condannato, ma lasciato a languire per trent’anni nelle segrete napoletane – un trattamento che incuriosirà pure Marguerite Yourcenar, che ne scrive in “L’opera al nero” e altrove.
Per la congiura subì la tortura. Dapprima blanda, una sospensione per le ascelle di mezz’ora, infine la “veglia”: 40 ore da passare appeso alla fune con le braccia slogate. Dopodiché, se il torturato sopravviveva, era considerato inattaccabile: non poteva essere eretico. Campanella fece di più: sopravvisse, e poi si finse pazzo, perché i pazzi non etrano “giustiziabili”. Ma si fece trent’anni di carcere.
La nuova raccolta di testi di Firpo su Campanella, che Eugenio Canone ha curato in memoria dello studioso torinese (morto nel ), testimonia, oltre che vicende storiche di estremo interesse,  anche un impegno intellettuale ora raro. Con ricerche di archivio instancabili. Anche dopo faticose richieste di permessi speciali, perché pare che sia difficile accedere alle carte dell’Inquisizione su Campanella, e deve proninciarsi lo stesso papa.
Un Campanela a tutto tondo, fuori dall’aneddotica – il suo motto più famoso è, dopo la “veglia”, rivolto al carceriere che gli ha ridotto le slogature, “una frase triviale e proterva: «Si pensavano che io era coglione, che voleva parlare?»”. Campanella è autore, spiega Firpo, di “più di cento lavori, qualcosa come trentamila pagine”. Di cui però lo stesso Frpo riesce a individuare un’ispirazione e una resa unitarie malgrado la molteplicità degli interessi e delle riflessioni, tra poesia, storia, utopia, scienza, politica., esegesi. E nella biografia che poi non ha scritto – ma percorre la sua cospicua bibliografia campanelliana – gli trova “una coerenza di fondo”: “Al di là del suo pensiero e dell’opera tanto ricca e varia, egli resta per l’Italia un raro esempio di tempra morale, un ruvido carattere inflessibile”, scriveva su “La Stampa” il 5 settembre 1968, per i 400 anni anni della nascita dello stilese.
Liuigi Firpo, I processi di Tommaso Campanella, Salerno, pp.348, ril. € 24

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