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venerdì 15 maggio 2020

Il mondo com'è (403)

astolfo

Crociate – La storia ne è oggi riduttiva, del tipo Armata Brancaleone. Sulla scia di Runciman, che lo ha detto il più grande delitto contro l’umanità,  e dell’antipapismo inglese. Runciman, che nella guerra fu professore a Istanbul di Arte e Storia bizantina, era stato a Cambridge l’allievo prediletto, “il primo e solo studente”, del libero pensatore John Bagnel Bury.
Bernardo di Chiaravalle, promotore dei Cistercensi, che fu predicatore della seconda Crociata, era amico di Pietro il Venerabile, che a Cluny per primo fece tradurre il “Corano”. Le Crociate vennero a seguito degli interventi sempre più pressanti del turchi contro l’impero indebolito di Bisanzio. La seconda fu chiamata dopo i massacri dei cristiani a Edessa.
Ma è vero che, fallendo per le discordie dei capi e capetti cristiani, perpetrarono come dice Runciman la più grande follia politica del Medioevo: la distruzione per loro mano dell’impero di Bisanzio, di quel che ne restava, mentre pretendevano di salvarlo. Aprendo di fatto la strada dell’Europa ai turchi. Quando Saladino riconquistò Gerusalemme, nel 1187, non vi furono i saccheggi e i massacri di quando i cristiani l’avevano occupata, ottantotto anni prima.
L’ultima crociata, chiamata dallo stesso papa, Pio II, il papa umanista, andò deserta. In Ancona, dove il papa aveva chiamato a raccolta nel 1464 le forze promesse, da Venezia, la Germania, la Francia, eccetera, non ci trovò niente – eccetto la morte, per la peste. Alla crociata aveva lavorato a lungo, dopo la caduta di Costantinopoli, nel 1453, per prevenire l’espansione mussulmana. Di fronte allo scarso interesse, aveva minacciato perfino di intronizzare Maometto II imperatore romano, facendo circolare una falsa lettera, in cui lo invitava al battesimo, per favorire l’incoronazione.

Menabrea – Oggi marca nota di birra, è stato nell’Ottocento, nella persona di Luigi Federico, “uno dei più grandi scienziati italiani del secolo XIX”, savoiardo di Chambéry, ingegnere, generale, uomo politico e diplomatico, il quarto o quinto presidente del consiglio del neonato Stato italiano, uomo di fiducia del re Vittorio Emanuele II, quando la capitale era a Firenze. Dopo essere stato ministro della Marina e ministro dei Lavori Pubblici. Infine a lungo ambasciatore a Londra e a Parigi – e da sempre senatore a vita, per 36 anni, primo conte Menabrea, primo marchese di Valdora.

Fu bravo ingegnere e matematico. A lui si deve la spinta probabilmente decisiva al computer. Trentatreenne, si era laureato ingegnere a Torino, con dottorato in matematica applicata. In questa veste Menabrea si ricorda anche come benemerito iniziatore della scienza dei computer. Avendo per primo capito e sistematizzato le idee di “macchina analitica” di Charles Babbage, il matematico londinese, da lui appositamente invitato a esporle a Torino nel 1842. A essa ispirando poi in via risolutiva lady Augusta Byron, “Ada Lovelace”, che pure era collaboratrice di Babbage: dalle discussioni con Babbage, Menabrea aveva ricavato un saggio, pubblicato in francese a Ginevra, che si considera il primo lavoro scientifico nel campo dell’informatica, “Notions sur la machine analytique de Charles Babbage”. Il saggio fu tradotto in inglese e arricchito da Ada Lovelace.

Ma Menabrea fu anche quello che impaludò l’Italia unita nell’orrido di Assab, e due questioni sociali aprì poi rimaste più o meno irrisolte: la questione meridionale e quella sociale – l’Italia riducendo alla dubbia aristocrazia sabauda e agli affaristi profittatori della manomorta ecclesiastica . Esponente della Destra storica, presiedette governi di destra incondizionata, uno di essi tutto settentrionale – con il quale progettò di confinare in Patagonia i “briganti” postunitari, convinto che “il sano terrorismo di Minghetti”, uno dei suoi predecessori, andasse rafforzato. Impose la tassa sul macinato, per colmare il debito contratto con l’infelice guerra del 1866 – nei tumulti popolari che ne seguirono si esercitò alla repressione, con 250 morti e un migliaio di feriti, il giovane generale Raffaele Cadorna. Si deve a lui anche Assab: il colonialismo sterile, e la rovina – una delle rovine – dell’Italia ai suoi primi passi come nazione.
La storia del colonialismo impervio – più che straccione (l’Italia spese molto nelle colonie) – avviato da Menabrea è così sintetizzata in  Astolfo, “Non c’è anarchico felice”:
“La prima volta avvenne a opera di Giuseppe Sapeto di Carcare, in provincia di Savona, che prima a Cavour, inascoltato, poi a Vittorio Emanuele II propose i calanchi roventi di Assab, avamposto di Adua. Per gli etiopici indifferentemente gesuita, cappuccino, spia, Sapeto era stato lazzarista,  membro cioè della Congregazione delle missioni apostoliche, fondata da san Vincenzo de’ Paoli nel 1625, prima di spretarsi nella foia climaterica dei cinquant’anni, e diventare via via agente francese in Dancalia, curatore dei manoscritti orientali alla Biblioteca Nazionale di Parigi, successore di Michele Amari, professore di arabo a Firenze, in forza di un «Viaggio e missione cattolica fra i Mensa, i Bogos e gli Habab», col quale, missionario a Cheren, aveva tramandato minuziose annotazioni etnografiche, agente di Rubattino nel mar Rosso. In tre settimane in Siria nel 1837 si era fatto ordinare dal vicario apostolico Jean-Baptiste Auvergne suddiacono, diacono, prete. Nel 1838 aveva già fondato una missione a Massaua, a ventisette anni. Precursore e mentore di Giustino de Jacobis di San Fele di Avellino, il santo vincenziano che aprì la religione e la chiesa al clero africano. Ma la sua passione era geopolitica, per la quale importunava i potenti, “con pertinacia sovrumana” dicono i biografi: la regina Vittoria, Gregorio XVI, Luigi Filippo, Pio IX, Napoleone III. Papa Gregorio mandò una campana. Erano anni di sede vacante, l’ultimo abuna, Cirillo, era morto nel 1828 avvelenato dal re del Tigré Sabagadis, e non si trovavano i diecimila talleri da pagarsi al patriarca d’Alessandria per l’unzione del nuovo abuna. Finché gli inglesi fecero nominare Abba Andreas, un sensale di schiavi della suburra del Cairo, battezzato, ma di scuola coranica, e infine monaco copto, che si chiamò abuna Salama.
“Sapeto puntò sulla Francia, oltre che su Torino, alla quale fece promettere dallo sbandato Negussié la baia di Adulis e l’isola di Dissee. Negussié, nipote ventiseienne di Ubié, il ras del Tigré spodestato dal famoso Kassai, il Napoleone d’Abissinia, che si era fatto incoronare Teodoro II, si aspettava dalla Francia un esercito, e sparì quando arrivò una nave senza armamento. I francesi non si persero d’animo, e comprarono Obok, che sarà Gibuti, per diecimila talleri di Maria Teresa da un altro capo locale. Che sparì pure lui, ma questa volta il capitano di fregata conte Stanislas Russel, l’inviato di Napoleone III, piantò la bandiera.
“Al giovane Negussiè già Sapeto aveva portato nel 1859 da parte del re di Sardegna un trattato commerciale e il riconoscimento di re dell’Etiopia – di cui non c’è traccia nelle carte di Cavour, ma il re potrebbe aver supplito. Cavour l’Africa la discuteva con Antonio Rizzo, un palermitano che con la sua gentile signora Santina si era installato comodo sull’altopiano dell’Asmara, da dove scriveva al conte invoglianti missive – ma il paradiso, intervallato da carcerazioni e riscatti, durò solo sette anni, nel 1861 Rizzo morì a Torino poco dopo il conte. Dopo l’acquisto francese della costa pietrificata e le ambe impervie di Obok, Sapeto non ebbe requie finché non portò l’Italia a Assab, calcinata dal sole e dall’umidità. 
“Successe all’inaugurazione del canale di Suez il 16 novembre 1869. Per la quale del resto anche Verdi immagina il paradiso in Etiopia, attorno alla principessa Aida. Una delle tante missive dell’ex missionario ebbe risposta: il presidente del consiglio Luigi Federico Menabrea lo incaricò di acquistare uno scalo sul mar Rosso, preferibilmente all’ingresso meridionale, lo stretto di Bab El Mandeb, pur chiamandolo Sepeto, e affiancandogli il contrammiraglio Guglielmo Acton, ex napoletano, con uno stanziamento di centomila lire, quattordicimila talleri. Era il 12 ottobre 1869. Lo stretto era già preso, Aden era britannica e Gibuti francese. Sapeto e Acton risalirono la costa della Dancalia e, dove nessuno poteva vederli, comprarono un pezzo di costa dai fratelli Ibrahim e Hassan ben Ahmed per cinquemila talleri. La metà dei francesi, un affare. Era il fatidico 16 novembre. Al ritorno Acton trovò a Alessandria la nomina a ministro della Marina nel gabinetto Lanza, che si formava a Firenze.
“Sapeto invece dovette giustificarsi, non molti nel nuovo governo apprezzarono, e s’inventò che Assab era la porta del Tigré, cioè dell’Etiopia, dov’erano stipati e disponibili “avori e pelli, zibetto, muschio, oro, incenso”, cioè i tesori dei Magi e della regina di Saba, nonché “caffè, sale, droghe, granaglie”. Nacque la favola delle ricchezze dell’Etiopia, gli esploratori hanno sempre dovuto inventarsele. Dopo il Perù, dopo l’oro e l’argento, i tesori non si trovavano, e i selvaggi dei gesuiti potevano giustamente ribattere nelle loro lettere: “Se siamo così poveri e selvaggi come dicono, che vengono a cercare da noi?”. Il papa a un certo punto aveva bloccato queste lettere – i gesuiti paragonavano le storie dei selvaggi canadesi a quelle di Tito Livio - ma non aveva fatto trovare più oro.
“Il casalese Giovanni Lanza, capo delle destra, preparava l’occupazione di Roma, e non voleva indisporre l’Europa con imprese esotiche. A marzo inviò Sapeto, col marchese Orazio Antinori in abito da esploratore, sulla «Vedetta», un avviso militare, a piantare il tricolore a Assab a titolo privato, a nome dell’armatore Rubattino. Una cautela che non bastò: il khedivé d’Egitto, informato dai francesi, e invidioso dei talleri che i capi dancali s’intascavano vendendo le sue terre, ancorché aride, mandò a rimuovere le insegne italiane. Sapeto allertò Bixio, che alla Camera chiese l’occupazione militare di Assab. Il governo se la cavò con una commissione di studio, e l’incarico al conte Ottavio Lovera di Maria, che farà carriera come prefetto di Catania, e al generale Ezio De Vecchi di visitare Assab e sondare il khedivé. Gli inviati ne fecero un quadro orrido, e gli esperti poterono sconsigliare la creazione di colonie, fossero pure penali – Sapeto aveva ripiegato su “qualcosa tipo Cajenna”. Ma non finì lì.
“Per un decennio Assab fu dimenticata. Poi il Parlamento abolì la sovvenzione alla linea Genova-Alessandria per la tratta fino ai porti siriani, e Sapeto riemerse con la proposta di ristabilirla per la tratta fino a Assab. Fino al nulla cioè, ma si trattava solo di passare dei soldi a Raffaele Rubattino, benemerito di Garibaldi. L’Italia seppe, per la facondia di Ferdinando Martini, di un’Affrica toscaneggiante, liberale, manzoniana. Il garibaldino Giuseppe Maria Giulietti, esploratore, convinse il ministro degli Esteri Agostino Depretis. E sotto il governo di Benedetto Cairoli, altrimenti attendista, si diede pronto avvio alla fine. Sapeto riemerge in Africa in qualità di agente di Rubattino e il 15 marzo 1880 acquista tutta la baia di Assab, 36 miglia di lunghezza per 2-6 di profondità, 630 km. quadrati, per 23.600 talleri. Un paio di tenenti di vascello diranno con Giulietti che Assab è la leva per la conquista del Tigrè, e il più è fatto: l’Etiopia, un paese che parla ottanta lingue, si penserà di conquistarla con un battaglione. Al comando di Oreste Barattieri, un altro garibaldino.
“Sapeto, il 25 agosto 1895, avendo apprestato il necessario per la fine dell’Italia qualche mese dopo a Adua, morirà contento. Il prezzo di Assab rappresenta il più grosso boom immobiliare della storia: solo quarant’anni prima i britannici si erano presi Aden, che vale molto di più, per dieci sacchi di riso. L’infausta Assab conta ancora oggi, dopo tutto il colonialismo, diciassette abitanti”

Pola – Aveva nell’inverno 1946-1947, quando gli italiani ne furono espulsi, 35 mila abitanti. Di cui trentamila erano italiani.

L’Istria nell’insieme aveva la metà della popolazione, esattamente il 50 per cento, italiana. Nella costa, italiana all’80 per cento, e nell’area retrostante. I croati, e la piccola minoranza slovena, abitavano le aree interne.

Ruggero Zangrandi – Da tempo dimenticato, fu l’autore nel 1962 del “Lungo viaggio attraverso il fascismo”, bestseller Feltrinelli. Un’opera anch’essa dimenticata benché utile. Da comunista, scrittore de “l’Unità” e “Paese sera”, Zangrandi vi ricordava come tutti gli intellettuali della sua generazione, praticamente tutti gli intellettuali del dopoguerra, erano stati fascisti negli anni 1930.

Zangrandi nei primi anni Trenta era stato compagno di scuola di Vittorio Mussolini, pur essendo di quasi un anno maggiore. La stessa che frequentarono Carlo Cassola e Mario Alicata, di tre anni più giovani. Col quindicenne Cassola e con Vittorio Mussolini fondò nel 1933 il movimento Novismo, antifuturista. Che pubblicò anche un “Manifesto”, cui seguirono polemiche. “Ci proponevamo di affrontare problemi filosofici e ideologici di ogni sorta, discettavamo intorno alla pace, all'ordine sociale e internazionale, alla questione religiosa (eravamo ferocemente anticlericali), a quella sessuale, ecc.”, racconterà nella sua ricostruzione. Le riunioni si tenevano a casa dei genitori di Cassola: “Dalle prime adunate tenute in casa mia si era passati alle riunioni semiclandestine nella cantina di Carlo Cassola, in via Clitunno a Roma: un simbolo o, forse, la suggestione delle società carbonare, cui cominciavamo a ispirarci”. Il gruppo evolvette presto senza volerlo su posizioni antifasciste, avendo deciso di “avvicinarsi alla classe operaia”, come ricorda ancora lo stesso Zangrandi: “Avevamo sedici o diciassette anni quando una inconscia smania di conoscere da vicino «i fratelli oppressi», di legarci con loro per una «rivolta sociale» che non aveva ancora, per noi, definizione politica ci spingeva ad andarli a cercare. Pietro Gadola, Carlo Cassola, Enzo Molajoni (non più Vittorio Mussolini, che si era ritirato dal gruppo, n.d.r.) e io ci vestivamo a quel tempo dei nostri abiti più malandati e, con la barba incolta e i capelli in disordine, ci avventuravamo per i quartieri popolari di Roma, a tarda sera. Entravamo nelle osterie, nei luoghi più abbietti, timorosi e schifati. Ci capitava di imbatterci in gente strana, che la nostra fantasia, nutrita di letture russe, coloriva subito di nichilismo”.


astofo@antiit.eu

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