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sabato 25 luglio 2020

Alle radici – leggibili – di “Finnegans Wake”

Dieci brevi racconti, di un fatto, un  personaggio, che Joyce svilupperà in “Finnegans Wake”, qui ancora parzialmente leggibili. Abbozzati nel 1923, qualche mese dopo avere licenziato l’“Ulisse”. Con irriverenze memorabili. Il “martirio” di san Kevin. San Patrizio e la creazione del bisniss della “relittigiosità irlandese”, cominciando con l’abolire la lingua. La lettura anti-wagneriana di Tristano e Isotta, Tris e Issy: Tris “amante senz’amor, peccator senza peccato” di Issy, “il suo poco men che nipote” e “sua zia prossima ventura”. L’ultima riga certifica la nascita di Donn’Anna Livia Plurabelle Earwicker, che troneggerà in “Finnegans”.
Il Joyce goloso, si fa per dire, del traduttore – ammesso che ci sia gusto nella traduzione. Ottavio Fatica, cui si deve la traduzione-invenzione di questi brani, si dice offeso e arrabbiato in una larga nota, con se stesso, con Beckett&Co, i moschettieri dell’illleggibilità post-“Ulisse”, e con Joyce stesso.
Un strenna. Per joyciani e - in traduzione - non. Un’edizioncina elegante, con le illustrazioni dell’edizione inglese, di Casey. Con i due saggi che hanno accompagnato quella edizione. Danis Rose fa dell“Ulisse” l’epopea dublinese e di “Finnegans” l’epopea irlandese, di quando Giacomo e Nora riscoprono Dublino e l’Irlanda, da cui erano fuggiti – lei lavorava da sguattera al “Finn’s Hotel” di Dublino. Fatica irriverente racconta la vera storia di James e Nora. E sulle citazioni di Joyce vuole precisare che “non era il «prodigioso lettore» che hanno voluto farci credere, bensì un piluccatore”.
James Joyce, Finn’s Hotel, Gallucci, pp. 1125, ill. ril. € 13


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