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venerdì 24 luglio 2020

Marrano è bello

Da una condizione di segretezza, e quasi di latitanza, a una di affermazione sul mondo, anche se non orgogliosa né dichiarata: un’estensione e non una mutilazione dell’ebraismo. Anzi, una sorta di modo di essere dell’ebraismo, se non di ogni sorta d’identità comunitaria, Donatella Di Cesare arguisce in questa svelta ricostruzione della condizione dei “marrani” storici, obbligati in Spagna da “re cristianissimi” alla conversione ma in cuor loro - e in famiglia, al chiuso – renitenti: “La definizione di marrano mette in questione quella di ebreo”.
La disamina la filosofa utilizza anche, allargando l’obiettivo, per configurare il tema della identità oggi: non più univoca, e anzi impossibile se non nel meticciato – che non nomina ma sottintende nella condizione dei marrani. Dichiarandolo fin da subito: “Con loro implode e si frantuma il mito dell’identità”.
Si può pensare la condizione del marrano, costretto a una fede che non sente sua, come di sofferenza e di ingiustizia, situazioni da riparare. Di Cesare se lo dice, leggendo le storie che ne sono state fatte, da Cecil Roth a Yersushalmi, partendo da Maimonide. La dissimulazione porta all’“angoscia della doppiezza”, dice anche, al sé diviso. Ma per coglierne una ambivalenza, che fa sua. Riportando il marranismo ancora più lontano di Maimonide, del secolo dodicesimo, al libro di Ester nella Bibbia, la prima marrana, che vinse per dissimulazione – in un racconto peraltro che Di Cesare mostra divertito, da “Mille e una notte”, più che messianico.
Una condizione non di oppressione, né una furbata. Intanto, una condizione che si è ritorta subito contro il cristianesimo, inventando e introducendo nella storia l’irreligiosità, la miscredenza, l’ateismo. E una condizione oggi comune: “Con loro implode e si frantuma il mito dell’identità”. Anzi, di privilegio, una sorta di autoimunizzazione, di cui beneficerebbe tutto l’ebraismo. “Il messianismo si reitera”, è la conclusione di Di Cesare, cioè l’ebraismo. Dopo aver ricordato Shmuel Trigano: “C’è una sindrome marrana nell’ebraismo”.  O, di suo: “Il marranismo è inscritto sin dall’origine nell’ebraismo. Altrimenti detto: l’origine dell’ebraismo è marrana”.
Curiosa rivendicazione, di non appartenenza e di dissimulazione. Che si traduce peraltro in una sorta di avocazione universale, “da Cervantes a Pessoa, da Montaigne a Proust”, con Teresa d’Avila e altre sante, “Lazarillo”, la scoperta dell’America, e Benjamin e Derrida. Una rivendicazione della “purezza del sangue”, la setssa che si rimprovera giustamente all’Inquisizione. E a un certo punto anche una vasta rete di connivenze, “una straodinaria rete di collegamenti… un legame fraterno sviluppato nella clandestinità forzata”. Anzi, ebraica è la storia, è l’altra conclusione di Di Cesare: “Nella tradizione ebraica il ricordo è un obbligo: zakhor! L’ingiunzione si ripete ossessivamente nella Torà, anima i versetti, sorregge il testo…  Così il popolo ebraico – secondo Yerushalmi – introduce il concetto di «storia» destinato a diventare patrimonio universale”.
Finale ancora più curioso, la negazione del mondo. Al termine di tante esclusioni e auto-esclusioni solo l’ebraismo esiste: il concetto, e la pratica, della thomasmanniana “elezione”. Ma l’elezione nella dissimulazione?
Donatella Di Cesare, Marrani, Einaudi, pp. 113 € 12



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