sabato 11 ottobre 2025
Cronache dell’altro mondo – di pace e bene (362)
L’approvazione del primo passo del piano di pace di Trump da parte di Israele è ventuta per un imprevisto empito di commozione. Lo raccontano Isaac Stanley-Becker e Vivian Salama sul sito dell’antitrumpiano “The Atlantic”:
Toni Morrison, che impose gli scrittori afro
Toni Morrison scriveva denso e impegnativo, ma agli autori
che curava come redattrice di Random House consigliava linguaggi semplici,
leggibili da un vasto pubblico: privilegiava gli aspetti commerciali,
specialmente nei debutti. Senza nulla togliere ai debuttanti “autori”, che
invece proteggeva in casa editrice con le direzioni commerciali – una lunga
lista di autori afroamericani affermati curati inizialmente e imposti da lei viene
fatta. Ma sì ai personaggi di cui curava, con insistenza, volte con insofferenza,
le autobiografie: Angela Davis, Muhammad Alì, Huey P. Newton. Invece proteggeva
i suoi scrittori, se neri e giovani, dalle strategie pubblicitarie e commerciali
della casa editrice.
Un lungo saggio, in forma di recensione di “Toni at
Random: The Iconic Writer’s Legendary Editorship”, la storia editoriale di T.
Morrison, di Dana A. Williams. Morrison lavorò alla Random House nei suoi
quarant’anni, per una dozzina d’anni, dal 1972 al 1983 (dieci anni prima del Nobel).
Unica redattrice afroamericana.
“Oggi conosciamo Morrison per la sua scrittura iconoclasta, che le valse
il Premio Nobel per la Letteratura nel 1993 e consolidò saldamente il suo posto
nel canone letterario americano. Tuttavia, Toni at Random sottolinea
il fatto che la scrittura di Morrison fu molto più di un risultato individuale.
Nel pieno del Black Arts Movement, Morrison fu una dei tanti scrittori che
ampliarono le possibilità di ciò che la letteratura nera poteva essere e fare.
Il suo più grande riconoscimento negli anni Settanta e Ottanta fu la sua
capacità di aprire le porte dell'accesso istituzionale alla comunità di
scrittori a cui apparteneva. La capacità di Morrison di pubblicare scritti neri
innovativi dipendeva dalla sua capacità di proporre i libri al caporedattore
della Random House, James Silberman, e poi di commercializzarli sia al pubblico
nero che a quello bianco”.
Un caso viene raccontato esemplare del modo di fare di
Morrison in casa editrice, e del suo successo.
“Forse la più riluttante a impegnarsi in pubblicità
per vendere i suoi libri fu Gayl Jones, che aveva solo 25 anni quando il suo
primo romanzo, Corregidora (1975), fu pubblicato con grande
successo di critica….. Nonostante (o forse proprio a causa) dell’estrema
timidezza di Jones, Morrison si impegnò ancora più duramente del solito per
ottenere blurbs da affermati scrittori neri – tra cui James Baldwin e
Alice Walker – e si unì a Jones per interviste a sostegno di lei”. Il rapporto
si dovette interrompere per le intromissioni dell’agente di Jones, “poi
diventato suo marito, Robert Higgins, che Morrison considerava instabile e
autoritario. Senza gli sforzi pubblicitari di Morrison, l’attenzione della
critica si spense e Jones cessò di pubblicare per due decenni dopo il suicidio
del marito nel 1998. La pubblicazione del romanzo Palmares (2021),
iniziato sotto la direzione di Morrison alla fine degli anni ‘70, inaugurò una
recente rinascita nella sua carriera e un ritorno ai riconoscimenti ottenuti
con il suo primo romanzo”.
Marina Magloire, “To Free Someone Else”:
Toni Morrison the Book Editor, “The Nation” 7 ottobre (leggibile anche in
italiano)
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venerdì 10 ottobre 2025
Problemi di base accuditivi - 884
spock
Prendersi cura
per migliorare la vita?
O per
sostituirsi, nervosamente?
Prendersi cura
per alleviare o per aggravare?
Con affetto o
con dispetto?
Per stare in pace con se stessi?
Anche a costo di negarsi?
spock@antiit.eu
Nobel alla paura
“Ritiratevi in un luogo sicuro e salvaguardate
tutto ciò che è importante per voi, portatelo sottoterra, tutto ciò che avete,
togliete i gioielli, il cibo, le fotografie dei bambini, la poltrona dove vi
piace sedervi con un libro in mano, la tenda dietro la quale vi sentite al
sicuro, dalla finestra; raccogliete tutto ciò che vi era caro, raccogliete le
carte d'identità e i certificati di battesimo, prendete i soldi dalla banca e
nascondeteli in cantina dietro il muro, ma in realtà ogni gioiello, ogni pezzo
di cibo, ogni fotografia del bambino, ogni poltrona e ogni amato libro, ogni
tenda e ogni documento, e in realtà tutti i soldi fino all'ultimo centesimo, e
nascondete davvero tutte queste cose bene, ma davvero bene, sottoterra, così
che almeno potrete credere fino ad allora che ci fosse un senso in tutto
questo, finché non saremo arrivati, cercate protezione almeno fino ad allora,
mentre siete ancora in grado di credere che non siamo ancora arrivati…”. L’umanità
è messa in guardia – non solo qui, anche in altri racconti. Dal Nobel ungherese
con molta concitazione, periodi lunghi una pagina, e atmosfere apocalittiche.
È come spiega Com
Toibìn a commento: “La prosa del romanziere ungherese László Krasznahorkai è
carica di minaccia, ma sarebbe un errore interpretarla come politica o come
qualcosa che non arriva da nessuna parte. …. La sua immaginazione si nutre di
paura e violenza autentiche; ha però un modo di rendere paura e violenza ancora
più reali e presenti, estrapolandole da un contesto familiare”.
Una prosa dall’effetto curioso, sempre ansiogena. Si direbbe
che Krasznahorkai, ungherese, ricostituisca con Thomas Bernhard, austriaco, una
sorta di Cacania della concitazione – della narrazione senza pause e senza respiro
(punto). Ma con una curiosa differenza. In Bernhard la concitazione, estesa su più
pagine, se non per l’intero racconto, assume anche tonalità ironiche, sarcastiche,
comiche, perfino idilliache, si procede nella lettura come se fosse punteggiata,
“sagomata”. Su una pagina invece, come usa Krasznahorkai, assume un tono, oltre
che concitato, minaccioso, costantemente.
Un Nobel di genere, horror? Molto caduta degli dei, del mito, delle illusioni, del vecchio impero, dove spiriti e genti convivevano nella differenza. Quasi un ultimo vagito, minaccioso, della fantastica Mitteleuropa. Nella Europa odierna, senza bussola.
László Krasznahorkai, Animalinside, “The New
York Review of Books” (leggibile anche in italiano)
giovedì 9 ottobre 2025
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (609)
Giuseppe Leuzzi
Ascolti in
calo per “Lezioni di mafia” del giudice Gratteri su “La 7” dopo la prima curiosità:
da1,1 milioni di audience
al debutto a 950 mila e a 720 mila in quindici giorni. Forse le mafie non tirano più tanto,
malgrado il brio che ci mette il giudice. Sarebbe il primo
calo d’interesse da “La piovra” quarant’anni fa – la serie di cui la Polizia ha
voluto insignire l’interprete,
Michele Placido, qualche giorno fa del titolo di “poliziotto ad honorem”, per la fama che
le avrebbe conquistato.
Emanuele Trevi,
che ha passato le estati fino ai vent’anni dalla nonna materna in Calabria, e
la celebra in “Mia
nonna e il Conte”, dà un senso pieno al (poco) dialetto che usa: cibbia (gebbia), vagabundu e scostumatu. Sbaglia la trascrizione, e quindi
le fonetica (cibbia è ggibbia), ma ha pieno il
senso delle parole. Il senso cioè locale, dialettale. Non quello del
vocabolario, della traduzione.
Il dialetto ha sue valenze (significati, sfumature) che l’equivalente in lingua
non ha. Il linguaggio
è radicato.
La città
italiana con più centri commerciali non è Milano: è Catania - secondo
una ricerca di “Men’s Health”. Sempre
al Sud, in Campania, le strutture più grandi: il Centro Commerciale “Campania”,
a Marcianise, provincia di Caserta, e il “Vulcano Buono” a Nola, provincia di Napoli. Modernizzazione?
Omonegeizzazione sicuramente, malgrado i leghismi.
La campagna regionale perdente di Pasquale Tridico, 5 Stelle, è stata
puntata sul sottogoverno: soldi per tutti, senza faticare. Una campagna
“laurina”, da Napoli anni 1950, affamata, negli anni 2020. Un errore così marchiano
da non potersi attribuire a nessuno stratega elettorale. Ma è la forma
mentis dell’emigrato. Dell’emigrato mentale come Tridico, che della Calabria
si è ricordato solo perché spinto dai 5 Stelle. Che fa propria, sulle proprie
origini, la narrativa dominante.
Si spiega che Tridico non sia stato votato neanche dai suoi, secondo
l’Istituto Cattaneo, che analizza i flussi elettorali: “Da sinistra a destra”,
al concorrente di Tridico, si è spostato un 5 per cento del voto, “dall’area
«liberaldemocratica» e da elettori che nel 2024 avevano votato per il M5S”.
Sudismi\sadismi
La partecipazione
al voto alle regionali in Calabria è stata bassa oppure alta? Votano sempre in pochi, dicono
i commenti più benevoli, la politica è estranea al Sud. E si svolge su pattern
ridicoli – naturalmente
non poteva mancare il commento irridente su questo aspetto del mangiaterroni
Gian Antonio Stella,
firma privilegiata del “Corriere della sera”, martedì 7: “Prometto tutto in
stile «Cetto La
Qualunque»”.
L’Istituto Cattaneo sottolinea invece il contrario: in Calabria si vota,
e a ragion veduta: “Dobbiamo sottolineare che, al contrario di quanto si potrebbe ritenere
considerando i tassi di partecipazione ufficiali, la partecipazione alle regionali è notevolmente cresciuta
rispetto alle politiche del 2022 e alle europee del 2024 (come del resto era capitato nel 2020 rispetto
alle europee del 2019). Questo perché in Calabria il numero degli aventi diritto al voto residenti
all’estero è molto più elevato che in altre regioni: è pari a circa il 20 per cento degli aventi diritto. Questi elettori non sono inclusi tra gli aventi diritto nelle sezioni elettorali calabresi al voto per
il parlamento nazionale, perché in quel caso possono votare in apposite circoscrizioni estere. Sono invece
inclusi nella base su cui si computa il tasso di partecipazione “ufficiale” nel caso delle elezioni
regionali e locali, in quanto possono esprimere il voto solo recandosi al seggio nel comune di
origine. Ma, ovviamente, non tornano in Italia per votare.
“In
Calabria il numero dei votanti è cresciuto in queste regionali, rispetto alle
precedenti elezioni parlamentari
(nazionali ed europee). E se si calcola il tasso di partecipazione alle regionali considerando
solo i residenti, cioè coloro che realmente hanno la possibilità di partecipare
al voto (e ne hanno
realmente interesse), il tasso di partecipazione supera il 50 per cento, raggiungendo
livelli simili a
quelli a cui si sono collocate negli ultimi anni varie regioni del centro-nord”.
Ed è un voto semmai maturo, attesta il Cattaneo: “Molti elettori
calabresi ….tendono stabilmente a orientarsi…. verso candidati al consiglio regionale dell’area
centrista, o meglio di candidati privi di una chiara connotazione ideologica, più presenti nel territorio”. Non verso
i demagoghi, bensì verso candidati moderati, fattuali.
Certo, si può sempre dire che questo voto, a candidati “presenti sul territorio”,
è un voto di scambio. Ma la
politica è uno scambio, il voto – il voto è una delega. Bisogna fare, in questo
“scambio”, la differenza
che non si fa, tra uno scambio specifico, di favori, posti, soldi, e uno
politico, di fiducia, ancorché
reciproca.
La donna del Sud
Le “storie familiari” sono inattendibili, spiega Emanuele Trevi nel racconto
sul lato materno della famiglia, in Calabria, “Mia nonna e il Conte”, ma un dato dà per
certo: “Quello che è sicuro è che la madre di mia nonna”, la bisnonna, “vissuta
in tempi certamente meno fiabeschi e avventurosi, era altrettanto capace di
esigere quello che le spettava, senza fare compromessi”- girava da ragazza per il
paese, senza dare scandalo, con una piccola pistola nella borsetta, “allo scopo
di scoraggiare i corteggiatori” che non le piacevano. E si spinge per questo, e
sulla propria esperienza nelle estati passate con la nonna, ad argomentare,
invece del matriarcato, il Nonnarcato. In aggiunta all’incipit ormai famoso, “mia nonna diventò bellissima
dopo gli ottanta”, esuma la Grande Madre mediterranea del “grande psicologo
junghiano, nonché astrologo e chiromante, Ernst Bernhard”, quella che vizia i
figli, il figlio, e quindi diventa “cattiva madre”, per dire che, “nella
maggioranza delle famiglie del sud, chi comanda davvero, stringendo saldamente
il suo scettro di emozioni primarie, è semmai la Madre della Madre: la
millenaria, zodiacale, rupestre, Nonna Mediterranea”. Un “Nonnarcato” dunque. Che, benché sprovvisto di “simboli venerabili”, statue, santuari, grotte, crepacci,
e di poemi epici e racconti “storici”, non per questo è meno reale – di donne “che siano
sarde, cicladiche o tirreniche, dalmate o berbere”.
La sua, di nonna, di Trevi, “era pur sempre una divinità tirrenica, appartenente
al temibile, indomabile, antichissimo ceppo calabrese: perspicace, volubile,
testarda, capace di leggerti un pensiero nella testa prima ancora che tu stesso
l’avessi formulato”.
Nero Calabria, nero Aosta
“Lei sa perché Molti valdostani hano i capelli neri?”, chiede d’acchito
al suo intervistatore, Paolo Bricco del «Sole 24 Ore», l’intervistato Vito
Gamberale, che è stato un manager pubblico di successo di grandi imprese, ed è
nostalgico della “fabbrica”, della “manifattura”, dell’industria. E si
risponde: “In Calabria, nel Settecento e nell’Ottocento, si trovavano
importanti centri siderurgici. Le Reali Ferriere ed Officine di Mongiana, in
provincia di Vibo Valentia, costituivano uno dei maggiori poli industriali del
Regno delle Due Sicilie. Arrivarono ad avere milleseicento operai. Producevano
ghisa e ferro. Realizzavano le armi per l’esercito dei Borboni e le rotaie per
la linea ferroviaria Portici-Napoli. Dopo l’unità d’Italia il Sud, che
nonostante mille arretratezze aveva alcuni fra i poli pù avanzati della penisola,
subì una deindustrializzazione. I Piemontesi intensificarono lo sfruttamento
delle miniere in Valle d’Aosta e, nel 1907, fondarono la Società Anomina delle
Miniere di Cogne. Molti calabresi, che sapevano di metallurgia e di siderugria,
si trasferirono, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, in Valle
d’Aosta”.
Cronache della differenza: Calabria
“Che il
feudalesimo fosse una caratteristica calabrese”, fa mordace Nisticò nella
“Controstoria della Calabria”, 60, è una stramberia. I baroni, salvo qualche
eccezione, “non lasciarono alcuna memoria di sé”. Tanto meno si atteggiarono a
mecenati di artisti, come usava in Iralia. Ma non senza ragione: “Se leggiamo di
Ruggero e Marfisa, figli di Ruggero di Risa (Reggio), della Chanson
d’Aspremont e del romanzo Aspramonte,
lo leggiamo sì ma nei versi del Boiardo e dell’Ariosto di Ferrara; mentre
questa notizia, se mai sia giunta a Reggio, noncommosse e non commuove nessuno”.
Colpa dei baroni?
“La più romantica delle province
italiane”, è la conclusione che lo scrittore austriaco Friedrich Werner Van
Ostéren antepone al suo racconto di viaggio “Povera Calabria”, 1908. Dove
racconta di esistenze “umbratili”.
“La Calabria ci prende alla prima
con quel suo classico viso che non ha forse l’uguale di purezza e di nobiltà in
tutta la casata” d’Italia, “fatto più bello dalla sventura”. È lirico Antonio
Baldini a metà del suo viaggio in Calabria nel 1931. Sono prime impressioni di
un viaggio fugace. Ma come un’istantanea: “È la parente povera… Ha la fronte
bianca cme il marmo e l’occhio molto intento dei fatalisti… Col suo accento nativo,
a voce alta e cadenzata, dice cose semplici e severe in un suo tono appassionato…
Si studia in tutti i modi di offrirci la migliore ospitalità nella sua casa quasi
vuota e cadente… Il frasario cittadino le darebbe fastidio”. Però, “bisogna adattarsi”.
Le meraviglie non sono finite:
“In nessun altro paese come in Calabria le farmacie fanno venire voglia anche al
forastiero di prendere una seggiola ed entrare in discussione. Parlatori di
primordine, ornatissimi patrocinanti, liberi maestri d’eloquenza, c’è da stare
a sentire incantati; gente che parla con la compostezza di un re sul trono…. Con
l’allure di un predicatore..., piacendosi straordinariamente del suono
delle proprie parole. Parla così fiorita e magnificente che per le cose correnti
non resta che il dialetto. Tradandatona nei fatti, agguerritissima nelle
apparenze. Avvocati come piovesse”.
E non è tutto. “Calabria, casamadre
dell’Ospitalità italiana”, la elegge Baldini. Stendhal in Calabria, dove non ci
fu, “non per niente diceva di avere colto sulla bocca dei calabresi il modulo
ampio e fluente del tirate di Tito Livio”.
È stata, oltre che il tema di
molte fantasie, fantasticata scena di molti avvenimenti del mito. L’ultima spiaggia
di Oreste. Rifugio variato di Ulisse, nel suo svagato peregrinare. La piana
dove fu rapita Persefone. Il porto di Agatocle.
In sintesi, nella seconda
guera (punica) i Bruzi e i Lucani si schierarono con Annibale, per difendersi
da Roma. Quando Annibale, ridotto a Squillace, prima di imbarcarsi per Cartagine,
chiese agli alleati di seguirlo, questi si rifiutarono. Annibale li fece sterminare,
nel santuario di Era Lacinia a Crotone. I superstiti furono ridotti in
schiavitù dai Romani.
I prigionieri di guerra diventavano
“schiavi pubblici”. Gellio dice che gli schiavi pubblici erano chiamati
“bruziani”.
Amedeo Matacena jr, imprenditore
delle traghetto Villa San Giovanni-Messina, passa con Berlusconi e viene subito
colpito, montagne di inchieste per mafia. In una delle quali viene anche condannato,
per concorso esterno. Cinque anni. Che passa a Dubai. Con una (seconda) moglie.
E poi con un terza, sposata con “rito africano”. Dopo il quale la madre protettiva muore, e lui pure,
senza malattie, a 59 anni. Basta un “rito africano” per atterrare un mafioso
calabrese.
I Matacena sono napoletani - Amedeo Matacena padre era
uno stimato medico a Napoli. Ma la cosa non cambia: il problema è l’antimafia.
leuzzi@antiit.eu
Giallo al rallentatore
Un giallo di ombre, ma non di misteri. Di ambiente,
di mood. In questa terza serie, sempre sceneggiata, diretta e interpretata
da tutte donne – un solo ruolo maschile, di spalla (qui ci sono anche un marito
e una famiglia, ma sono un diversivo - più spaziato e lento del solito. Come
per fare minutaggio.
Petra-Cortellesi è sempre seguita nei suoi silenzi, sguardo
fisso sbarrato, che si vorrebbero misteriosi, per lunghi tratti, in ambienti spogli
e chiusi. La trama è ancora meno importante (avvincente) delle prime serie: in
un convento di suore c’è stato il furto del Bambinello nella cripta, e l’assassinio
del restauratore della stessa cripta.
Maria Sole Tognazzi, Petra, Sky
mercoledì 8 ottobre 2025
Letture - 592
letterautore
A.Christie – Anticonformista,
al limite della misoginia? A Poirot fa dire, a proposito di violenze domestiche:
“Io mi sono occupato di molti casi del genere. In ventidue era l’uomo, ma in
sessanta (ottanta? – n.d.r.)) a menare le mani era lei”.
Colomba – Simbolo di pace,
è una bestia aggressiva – come quasi tutti i volatili, il più bello, il
gabbano, è il più feroce. “Sembra che il
piccione sia un animale crudele. Quando si batte con un altro piccione, si accanisce
su di lui finché non muore”, Tahar Ben Jelloun, “Cinquanta paradossi”. Il
cardinale Ravasi, citando lo scrittore sul “Sole Domenica”, lo conferma con l’esperienza
personale - che è quella di tutti, peraltro. Ma, antifrasticamente con gli eventi
contemporanei?, fa risalire l’equivoco alla Bibbia, “Genesi” 8,11, il racconto
del diluvio: “Quando le acque si ritirarono, la colomba rientrò nell’arca di Noè
«reggendo nel becco una tenera foglia di ulivo», altro simbolo di pace”.
Il cardinale non
manca di rilevare che in arabo e in ebraico il saluto è lo stesso: shalōm,
salām, pace.
Ex voto – Voti, penitenze, una
“follia religiosa” per lo scrittore austriaco, ben cattolico, Van Oestéren, 1874-1953,
italianista fluente, che viaggiò, specie al Sud (della Calabria pubblicò anche
un diario di viaggio, “Povera Calabria”), in un articolo sul quotidiano viennese
“Vossische Zeitung” - che poi ha ripreso, spiega Teodoro Scamardi nella postfazione
alla traduzione di “Povera Calabria”, da lui curata, dalla rivista dei modernisti
tedeschi “Das Neue Jahrhndert”, n.2, 10 gennaio 1909. Dove lega le forme religiose
di fanatismo, devozione eccessiva, pratiche umilianti (strisciare, leccare,
colpirsi), culti bizzarri, “a fini di lucro”.
Harijan – Della stessa radice
sanscrita di “ariano”? È il termine indù, che Gandhi ha provato a liberare, con
la comunità e il periodico dallo steso nome, e oggi è perfino parola “incorretta”
e quindi proibita, per “intoccabile”. L’ariano della nobiltà teutonica o
caucasica è sì “figlio di Dio”, - questa la traduzione di “harijan - ma
nel senso di paria, intoccabile. Quanta filologia, quanta storia, anche filosofia,
e quante guerre, per la “razza ariana”.
Uno spreco di cui fa la sintesi “La morte
è giovane”, romanzo in via di pubblicazione: “La
storia della Grecia nasce nel 1840, quando la filologia critica interruppe il
filone della storia provvidenziale e se ne fece giudice, libera quindi
d’inventare l’“arianesimo”. Che l’università Georgia Augusta di Gottinga veniva
elaborando da un secolo: a un certo punto, dice il modello “ariano” della
storia greca, dal Nord arrivano gli elleni, parlanti indo-europeo, e soggiogano
la cultura egea. Rinata
dopo la disfatta nel ‘18 a centro meritorio della fisica, con la meccanica
quantistica di Heisenberg, Pauli, von Neumann, Oppenheimer e Born, Gottinga è
stata per due secoli la culla della storia
eretta a scienza grazie all’invenzione della filologia. Con gli “ariani” e la
Grecia fu tedesca pure Roma, la letteratura romanza, la storia, la chimica, la filosofia.
Incluso il Giordano Bruno italiano, riportato in vita quattro volte nel solo
Ottocento, da Adolf Wagner, Lagarde, Lasson, Kühlenbeck – dopo essere stato salvato
ai posteri dai re di Francia e d’Inghilterra. Nel
1770 Blumenthal aveva imposto la prima graduatoria delle razze, inventando il
caucasico. Winckelmann la Grecia delle statue patinate quale ideale di
bellezza. Tra il 1820 e il 1840 Karl Otfried Müller, il filologo di Gottinga, dà
significato culturale e politico alla storia “antica moderna”, con la scoperta
dei dori. Era la filologia dei primati – di Ariano vero c’è solo il santo a
Venezia, all’isola dei Morti.
La
parola nasce dal suono negativo iniziale del sanscrito, un’aspirata equivalente
al “non”, seguito dalla radice ar-.., che è di tutti i composti, compresi i
nomi propri (Artaserse, Artabano, etc., il celtico Artù), col senso di valore (impresa,
nobiltà, superiorità) – eroe, il tedesco Herr, arte, artefice, etc., - ma
piace pensarla come il negativo di “ariano”.
Nonnarcato – “La Grande Madre
mediterranea è in Italia una madre primitiva”. Così Ernst Bernhard - “il grande
psicologo junghiano, nonché astrologo e chiromante” (E. Trevi, “Mia nonna e il
Conte”, p.18) – in “Il complesso della Grande Madre” (nella raccolta “Mitobiografia”).
Con i noti effetti boomerang: “Essa vizia per lo più i suoi figli con la
massima istintività… Ma quanto più li vizia, tanto più li rende dipendenti da
sé”, trasformandosi, da “buona madre nutrice e protettrice… nella cattiva madre”.
Trevi, figlio di Mario
Trevi, altro grande junghiano, discepolo di Bernhard, non è d’accordo: “Come
tutte le teorie”, obietta a Bernhard, “anche quella della Grande Madre finisce per
occultare dettagli dell’esperienza quotidiana che non sono meno evidenti”. Per
conto suo, nella sua propria famiglia, e per quanto ha potuto vedere al Sud nella
sua esperienza, “chi comanda davvero… è la Madre della Madre: la millenaria,
zodiacale, rupestre Nonna Mediterranea” – anche se “questo Nonnarcato” non s’illustra
come il matriarcato di simboli e culti venerabili, statue, santuari.
Sante-papesse – Ci sono più
casi, nella tradizione, più o meno veritiera, di donne che si sono volute uomo,
per entrare in convento o per fare carriera ecclesiastica. Di questa seconda
specie, in realtà, non ci sono casi storici, certificati. Quello famoso della papessa
Giovanna (una inglese nata nata in Germania, a Magonza), che sarebbe succeduta
a Leone IV nell’855, e avrebbe regnato per due anni, cinque mesi e quattro
giorni che avrebbe passato a Roma fornicando, poiché dopo quel tempo, nel corso
di una processione, dal Colosseo a San Clemente, avrebbe partorito, non è vero.
Lo spiega il medievista Tommaso di Carpegna Falconieri in una ricerca di
prossima pubblicazione di cui dà conto Paolo Mieli sul “Corriere della sera”. Ci
sarebbe stata una papessa, ma a Oriente, una patriarca nella chiesa di Costantinopoli - se ne
saprebbe da una lettera (non spedita) di papa Leone IX al patriarca di Costantinopoli
Michele Cerulario.
Ci sono invece, documentate, “un’infinità di donne di cui si racconta che
condussero una vita di santità vestendo abiti maschili e mantenendo celata la
loro condizione femminile”.
Ci sono state dunque molte donne che hanno voluto
essere uomini. Non ci sono stati invece uomini che hanno provato a farsi monache,
nemmeno per insidiarne, come era l’uso, le virtù – nemmeno per scherzo, per
così dire.
Storie di famiglia – “Le
storie d famiglia non sono né vere né finte”, Emanuele Trevi, “Mia nonna e il
Conte”, p. 30: “Il loro grado di attendibilità non si misura sulle testimonianze
e su documenti, perché consistono di fili narrativi così ingarbugliati che non
si può separarli e distinguerli, privilegiando i più ragionevoli e tralasciando
le palesi assurdità”. Servono a “cementare i cosiddetti legami di sangue”.
letterautore@antiit.eu
Renzi a Cosenza – o uno scandalo giudiziario
Succede in Calabria, e quindi non fa notizia, ma il processo-non
processo a carico di Occhiuto, presidente uscente e rientrante della Regione,
ha tutte le apparenze di uno scandalo. Una notizia di reato non seguita da imputazioni
specifiche. A opera di giudici, il Procuratore capo e i due sostituti, che
vantano – vantavano fino a qualche tempo fa – fede o affiliazione “renziana”.
Si sa come vanno le cose, questi legami si negano ma si cercano, per la
carriera (non è colpa dei giudici se le nomine sono politiche, etc. etc.). La
Procura di Cosenza è in debito con l’uomo più potente d’Italia per un quinquennio,
fino al 2017 o 2018, presidente del consiglio, segretario del Pd, “rottamatore”
dei politici ultracinquantenni. Poi in bassa fortuna ma specializzato nel far
cadere i governi – o almeno lui così si pensa. Ex critico della giustizia politica
nel caso dei suoi genitori, e dei suoi colloqui alle stazioni di servizio sull’autostrada.
Giustizialista con Occhiuto, con due liste al voto, e probabilmente nemmeno un
consigliere sui trenta eletti.
Renzi in Calabria vanta un “clamoroso risultato”, dice l’Istituto
Cattaneo, che studia il voto e i flussi di voto: riuscì a invertire nel 2014 la
tendenza che vede i calabresi votare per il centrodestra alle regionali, dopo aver
votato per il centrosinistra alle politiche e alle europee: conquistò la
Calabria. Ora, in bassa fortuna, tenta anche la lui la pista giudiziaria?
Sarebbe la parte succulenta di un voto di fatto
senza storia, e senza gran peso specifico. Ma non è nemmeno citato nelle cronache politiche, fra
le tante dichiarazioni, interviste e lunghe pagine su Renzi a giorni alterni nei media mainstream.
La fascista Meloni paladina degli ebrei
Seguire i social è tempo perso – sprecato. Ma una cosa è curiosa:
l’anti-semitismo è di sinistra. Anche
non estrema.
L’antisemitismo propriamente detto. Che non è di chi diffida di Israele
o lo critica. Quello di chi odia, senza nemeno dirsi perché, gli ebrei in
quanto ebrei. La rete è piena di quelli che si fanno un punto di deridere i “fozzagioggia”.
Che sono quelli che sostengono il governo. I “fozzagioggia” in specie sono derisi
perché Giorgia fornirebbe armi a Israele.
Le forniture sono in realtà bloccate dall’inizio della guerra per regolamenti
europei. Ma gli anti-fozzagioggia fanno della fascista Meloni (Natala Aspesi dixit)
una sostenitrice degli ebrei, anzi una paladina.
Sesso senza sesso
Un’imprenditrice di successo cinquantenne, sposata
con un regista fantasioso con cui ha un’ottima intesa, amorevole e accudente con
le figlie adolescenti, s’infatua di una ragazzo che, dopo averla aiutata dall’assalto
di un cane sul marciapiedi affollato della metropoli, si ritrova in azienda come stagista.
E imbastisce con lui, benché sfrontato e invadente, una relazione sadomaso. Senza
problemi per il resto della vita – inutile raccontare il resto, per cui il film
ambisce alla qualifica di thriller.
Si definisce anche erotico, ma è fiacco anche in quello - è un ginnastica, senza erotismo.
Problematico sì: perché Nicole Kidman – l’imprenditrice è lei - è stata migliore
attrice a Venezia nel 2024? E perché il film può vantare il titolo di “uno dei dieci
migliori film del 2024”? Un anno sventurato?
Halina Reijn, Babygirl, Sky Cinema, Now
martedì 7 ottobre 2025
Una guerra senza pace
L’assalto del 7 ottobre era una guerra, si spiegava nel sito il giorno
dopo – una guerra e non un atto di terrorismo, come i tanti subiti dagli Stati
Uniti, la Francia, la Spagna, la Gran Bretagna, la Germania. Ed è stata una
guerra molto dura, la più aspra oltre che lunga dopo quella del 1948, della nascita
di Isarele. E come nel 1948, va ora aggiunto, non si conclude con una pace.
Non c’è un vincitore netto.
Israele deve accettare delle condizioni. E non ci sarà pace: Israele non intende
fare pace.
Israele nel suo insieme, non solo la destra al governo con Netanyahu. Nessun
governo precedente ha mai affrontato la questione politica. Gli accordi di Oslo
del 1993 non sono stati applicati, neanche prima dell’assassinio di Itzak
Rabin, che li aveva sottoscritti. Quelli di Camp David nel 2000 erano vuoti.
La soluzione di polizia non paga – non funziona, oltre che mettere Israele
dalla parte del torto, giuridico e politico. Specialmente dopo questa guerra,
ma anche prima. Si stima che un palestinese su cinque sia passato per le carceri
israeliane, anche senza condanna, quindi un milione – tra essi migliaia di
ragazzi sotto i 12 anni. A nessun effetto pratico, se Hamas ha potuto fare
guerra contro Israele – di fatto contro gli Stati Uniti – per due anni.
Dopo una guerra, specie dopo una sanguinosa come questa, viene la pace.
Se c’è un vincitore.
La Grande Madre è la Nonna
Spassosa ricostruzione della nonna materna, con la
quale Trevi ha passato le estati fino al 1985 o al 1987, quindi per oltre vent’anni,
in Calabria, in un paese di mare, in una casa con un grande giardino, in mezzo
al paese. “Come certe ragazzine”, è l’incipit – quela che “iniziano a raggiare ….
nel giro di un’estate” – “mia nonna diventò bellissima dopo gli ottanta”. Nella
stessa vena il seguito. Che è in realtà la storia materna di Trevi, dopo quella
del padre e della casa del padre, “La casa del mago” (e quella degli amici morti
presto, Rocco Carbone e Pia Pera, “Due vite”). Una storia di donne, tutte
formidabili: la trisavola che si mise con un brigante, quello che l’aveva
vendicata uccidendo l’assassino di suo marito, generoso e pio medico dei poveri;
la bisnonna che girava con la pistola nella borsetta, quella che si era comprata
quando si era invaghita del futuro marito, per paura che qualche malintenzionata
glielo rubasse – questa è “longilinea” e “magra” come la madre, e altrettanto autoritaria.
Il conte è un vero conte, nobiluomo napoletano, mite e mingherlino, cultore dei Borboni, finito in paese, si presume, con
servo-padrone molto gay, che incontra la nonna per chiedere un favore (poter attraversare
il giardino nella quotidiana passeggiata da casa al mare): ne diventerà la
compagnia quotidiana. Una liaison che culminerà in un sontuoso ricevimeno
verso Eboli di vera nobiltà napoletana, nel quale la nonna farà una sorta di tardivo
debutto.
Detto così non è niente. Ma Trevi sa farne una
(piccola) epopea. Con la ricostruzione anche, suggestiva e breve (e per ogni aspetto
veridica, si può attestare) di un piccolo mondo antico e ben caratterizzato –
nella fattispecie molto calabrese, benché la Calabria sia lunga e varia, per storia
e per mentalità.
Con numerose digressioni, altrettanto spassose. La
Grande Madre mediterranea di tanti mitografi che invece sarebbe la Madre della
Madre, ossia la Nonna – “sono stato più un cocco di nonna che un cocco di mamma”
(con letteratura allegata). L’anamnesi di “Beautiful”. La nonna “cenerentola” a
Eboli. La torre di guardia cinquecentesca alla marina e Francis Marion Crawford.
La location, non detta, è San Nicola Arcella. Il
conte invece alla fine è individuato: è Erminio Scalera, degli “Aneddoti
borbonici”.
Emanuele Trevi, Mia nonna e il Conte, Solferino,
pp. 113 €15
lunedì 6 ottobre 2025
Si tratta un armistizio, non la pace
Il “piano di pace” di Trump non porterà alla pace tra Israele e i palestinesi,
e forse nemmeno a Gaza. Porterà a un cessate il fuoco, e forse a un armistizio –
se Israele decidesse di ritirare le sue truppe. Non alla pace.
Non si fa illusioni il nostro ministero degli Esteri – in linea
probabilmente con le altre capitali europee. Trump vuole il Nobel per la pace,
e quindi magnifica il suo “piano”. Che però non contiene nessuna garanzia che i
palestinesi arrivino all’autodeterminazione – all’autonomia, all’indipendenza.
Sicuramente non in Cisgiordania. E a Gaza il piano non dice come. La guerra
continuerà con altri mezzi.
Trump si vuole garantito per i palestinesi dai governi arabi che lo assecondano:
Egitto, Qatar, Arabia Saudita, Emirati, Giordania - con l’aggiunta della Turchia
e, per quello che possono contare, dell’Indonesia e del Pakistan. Ma l’Egitto e
i principati arabi non sono stati mai garanti di una patria palestinese – e non
potrebbero esserlo, diffidando del democraticismo, del radicalismo politico.
Ma Trump non ha veramente cambiato idea
Non c’è un Trump di Gaza Riviera e un Trump (quasi) filo-palestinese,
perlomeno a Gaza. Ci si è interrogati in America sul “pianto di pace”, se e
perché Trump ha rotto con Netanyahu, e si è concluso che non c’è nessuna
rottura.
Ci si è chiesti se Trump sia stato influenzato dai sondaggi di Pew Research,
che danno gli ebrei americani divisi su Gaza, sulla guerra. Con una larga minoranza,
il 39 per cento, che bolla l’offensiva su Gaza come genocidio. E quasi tutti,
otto su dieci, scontenti per il prolungamento della guerra – colpa di Netanyahu
per l’86 per cento, di Trump per il 61. Critici anche personaggi ebrei membri di
spicco del Congresso, il senatore Sanders, Democratico, e il capogruppo repubblicano
al Senato Schumer. Ma si è concluso che Trump si è speso per Israele per compiacere
l’elettorato evangelico conservatore - che è più sionista, se possibile, dei
sionisti radicali, che Israele riconducono alla Bibbia.
Trump, si è concluso, ha agito di conserva con Netanyahu. Che potrebbe
iniziare un nuovo ciclo politico, post-bellico, liberandosi dei sionisti oltranzisti
Ben Gvir e Smotrich. Non liberandosene, poiché dovrebbe andare alle elezioni e
non le vincerebbe, ma facendo imporre dagli Stati Uniti, che armano e finanziano
la guerra, la pausa bellica indigesta.
Trump si fa rappresentare nella mediazione al Cairo dal genero Jared Kushner.
Una famiglia, i Kushner, cui Trump è molto
legato. Il giorno dell’Inaugurazione ha graziato il consuocero Charles, anche
lui immobiliarista, che era in carcere per reati fiscali, e subito poi lo ha
nominato ambasciatore alla corte d’Inghilterra. Charles Kushner e Netanyahu
sono molto amici, da quando i Netanyahu stavano in America. Si deve a Kushner il progetto Gaza Riviera, o GREAT (Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation) Trust.
In Polonia il vento è sempre di guerra
Non c’è molto sulla Polonia, di oggi e nemmeno di ieri.
L’analisi più recente è questa, di un diplomatico francese ex ambasciatore in Polonia.
Che i giornali francesi hanno ripescato nelle ultime settimane, dopo che Varsavia
ha firmato a maggio un Trattato di Nancy con la Francia, da cui il primo ministro
Donald Tusk si attende un collegamento stretto con l’E 3, il collegamento
informale Gran Bretagna-Germania-Francia che gestisce la politica europea di confrontation
con la Russia. Questo succedeva con Tusk tornato al governo dopo la vittoria
del suo partito, Piattaforma Civica (PO) al voto nell’ottobre del 2023. Poi, a
giugno, la presidenza della Repubblica è andata a Karol Nawrocki, il candidato
del partito destra PiS (Partito Diritto e Giustizia), lo stesso che aveva governato
la Polonia prima di Tusk, e la Polonia è rimasta fuori dall’E 3. Questa l’analisi
che Buhler traeva prima di questi eventi, fra una destra dichiaratamente nazionalista
e una moderata, e malgrado il sicuro europeismo, attestato e rinforzato dall’enorme
sviluppo economico ottenuto con l’adesione alla Ue, in soli venti anni. Ma proprio
questo successo, secondo il diplomatico francese, riporta la Polonia post-Woytiła,
fra una destra moderata e una radicale, indietro di un secolo. Alla rinascita
del paese con i trattati di pace del 1919, che subito si proiettava in una politica
di Grande Potenza. A Varsavia si respirerebbe un “tanto atteso «momento
polacco»”, di una Polonia “chiave di volta della sicurezza europea”. Specie al confronto
con la Russia. Favorito, con “aperto sostegno”, dal clero polacco, in contrasto
con la linea pacifista del Vaticano. Un’ambizione che Buhler vede come “il risveglio
dei fantasmi del passato, quei conflitti di memoria che gravano sui rapporti
della Polonia coi suoi vicini”.
Questo risveglio Buhler reperisce nella politica
anti-tedesca del PiS, e in quella anti-russa del PO. La Polonia rinata dopo l’occupazione
sovietica non avrebbe rinunciato al mito della Polonia “jagellonica”, dominante
tra il mar Nero e il Baltico, o in alternativa del “modello Pilsudskij”, perseguito
dalla nuova Polonia, quella rinata a Versailles, tra le due guerre. Quella
Polonia fece in pochi anni sei guerre contro i vicini per i confini: due con la
Germania per la Slesia e la Prussia orientale, con l’Ucraina e con la Lituania
perché si rifiutarono di rifare la “Polonia jagellonica” del Seicento, con la
Russia, e con la Cecoslovacchia per il distretto di Teschen. I primi anni dell’indipendenza
furono agitati anche per la questione delle minoranze, che si volevano assimilate
o espulse: quattro milioni di ucraini, un milione e mezzo di ruteni, un milione
di tedeschi, 100 mila lituani – e tre milioni di ebrei.
Quella Polonia fu per Franco nella guerra civile, e per
Mussolini in Etiopia, e si prese parte della Slesia quando Hitler smembrò la
Cecoslovacchia - salvo diventare preda di Hitler un anno dopo. Mai comunque in
pace con i vicini. L’attacco hitleriano all’Urss nel 1941 fu recepito in Ucraina
“come un presagio dell’imminente creazione di uno Stato ucraino indipendente”. Scatenando
il nazionalismo ucraino contro i polacchi, in Ucraina e in Polonia – oltre che
contro gli ebrei. Anche in Lituania l’invasione tedesca “diede ai lituani l’opportunità
di vendicarsi dei polacchi di Wilno”, Vilnius in polacco, nonché degli ebrei.
Dopo la guerra la Polonia si prese la Galizia, con, di nuovo, mezza Prussia orientale e un po’ di Brandeburgo,
e deportò sette-otto milioni di tedeschi nella Germania Ovest – nella guerra,
sotto l’occupazione tedesca, la Polonia aveva perduto oltre un sesto della
popolazione, sei milioni, solo per la metà ebrei.
Pierre Buhler, Pologne, histoire d'une
ambition, Tallandier, pp. 272 € 21
domenica 5 ottobre 2025
Cronache dell’altro mondo – ebraiche (361)
La grande maggioranza degli ebrei americani ritengono che Israele sta
commettendo crimini di guerra – secondo un sondaggio Pew Research (pubblicato
venerdì). E il 39 per cento ritiene che sia un gencdio. Facendo distinzione,
però, in maggioranza, tra il paese e il suo governo.
Il 61 per cento del campione ritiene – riteneva - che Israele sta(va)
commettendo “crimini di guerra”, il 39 per cento un “genocidio”.
Il 94 per cento condanna Hamas per crimini di guerra.
Il 68 per cento è risultato critico nei confronti di Netanyahu, il capo
del governo israeliano – un 20 per cento in più del tasso di disapprovazione di
un sondaggio Pew Research cinque anni fa. Tuttavia, la maggioranza del campione ritiene
Israele centrale all’“identità ebraica”.
La maggioranza si è anche detta in favore della continuazione degli aiuti
americani, anche militari, a Israele.
L’esito, secondo i sondaggisti, potrebbe preludere a “una rottura fra l’ebraismo
americano e Israele dopo decadi di rapporti stretti”.
Ombre - 794
Due economisti sul “Sole 24 Ore”, Buti e Messori, non si capacitano sul dollaro che si deprezza ma senza intaccare la fiducia degli investitori, sempre attaccati all’America, ai suoi Treasury, alle sue Borse, e alle sue banche. Mentre è l’esito della tattica di Trump, al fondo degli innumerevoli annunci e controannunci: ripetere il successo di Reagan del 1985 con l’accordo del Plaza, rendere l’America più competitiva, e farne pagare il costo ai concorrenti imbattibili, allora il Giappone, oggi la Cina – l’Europa? don Abbondio, “un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”.
L’Inps, solitamente cauto e affidabile, pubblica come dato
statistico reddito medio lordo dei giornalisti dipendenti a 32.770 euro nel
2022 e a più del doppio l’anno dopo, 68.280. Questo nella categoria “iscritti
Inps”. Nella categoria “ordini professionali” il giornalista dipendente aveva
nel 2022 un reddito medio lordo di ben 67.000 euro. Quando si entra nel terreno
delle Entrate (tasse) non si capisce più niente.
Venerdì nelle scuole ha scioperato il 7 per cento, nella
sanità l’1,8. Cioè, non si dice ma si sa, gli ex bidelli, ora “collaboratori
scolastici”, e i portantini. Che sono andati in campagna – son tutti abruzzesi
o altolaziali. In compenso, frotte di genitori furenti per non sapere come
organizzare la giornata dei figli. Politicamente cioè, fatta una sommatoria, un’autocastrazione.
Solo per fare pubblicità a Landini – fa “andare in tv” Landini.
Landini indiceva scioperi a gogò alla Fiat
quando era gestita da Marchionne e rinnovava gli impianti – a Pomigliano e a
Melfi fu sconfessato ai referendum, gli votarono contro. Non ne ha fatto
nessuno dacché Fiat-Stellantis ha ridotto la produzione in Italia, ora a un
terzo, poco più di 300 mila vetture. Niente. E nessuno che lo rilevi, solo
Calenda in breve sul “Foglio”.
Questo Landini è solo un “fenomeno”
mediatico, creatura di “La 7” e “la Repubblica”, di Cairo e Elkann. Ma i due
sostengono la sinistra, o non saranno agenti provocatori?
Caratteristicamente, sul settimanale di “la Repubblica”
epistolografi e Aspesi discutono di (criticano) un film che non hanno visto, “La
voce di Hind Rajab” - sicuramente non Aspesi, 96nne, che non ama uscire, né mostra
di averlo visto un Orrù che scrive ogni giorno al giornale. Discutono della stroncatura
del film di un’altra giornalista, Mancuso. Caratteristicamente perché questa sinistra
si parla a occhi chiusi. Come le vecchie zie.
“Il Venerdì di Repubblica” schiera una
radio libera di Panama contro Trump. Con un servizio firmato. Una radio di Panama.
“Animata in larga parte da giornalisti
indigeni e meticci”.
Ma, poi, quanto larga la “parte” – e
“indigeni” a Panama?
“La negazione e il non voler vedere sono due fenomeni
tipici delle società coinvolte in genocidi”, Omer Bartov, storico, israeliano,
studioso della Shoah. Questo è vero, in questo l’Israele di Netanyahu
differisce poco dalla Germania anni 1938-1945. Il mondo fuori, anche ebraico, è
in subbuglio, Israele ha al governo Netanyahu, con Smotrich e Ben Gvir - due processati,
e anche condannati, nella stessa Israele, per terrorismo (compreso l’assassinio
del primo ministri Itzak Rabin).
La premier – “ministro di Stato” - danese Frederiksen vede
droni in massa da qualche tempo, E sa anche che sono russi. È la stessa che due
anni fa non sapeva che gli ucraini facevano saltare il supergasdotto Germania-Russia
lavorando alacremente attorno all’isola di Bornholm, rinomato centro ittico e
turistico – “l’isola del sole” – non lontano da Copenhagen. Forse è un bene che
l’Europa non sia federalista – non decida a maggioranza. Non fino a che ci saranno
dei governi nazionali.
Frederiksen, presidente semestrale della Ue, riceve altezzosa
a Copenhagen Meloni, un po’ perché lei è alta e Meloni bassa, ma soprattutto perché
lei è socialista e Meloni (neo)fascista. Ma non si saprebbe dire di fatto chi è
socialista in questa Europa e chi fascista. Un socialismo bellicoso, per non
sapere che altro fare, è un brand inatteso – di un socialista, a vedere,
anche donna (diceva che le donne al governo ci salvano dalla guerra).
Il “Corriere della sera-Roma” intitola
in grande: “La Capitale di pastiche e cocaina – Fiumi di droga nella Capitale”.
Poi si va a vedere le percentuali del 2024 sul 2023, dei sequestri, e tutte le
droghe sono in forte calo, eccetto le pasticche. Non è nemmeno cupio dissolvi,
la Roma e la Lazio del calcio sono fortemente osannate: è non saper che dire.
Se non c’è scontro di bande, accoltellamento all’uscita dalla disco, uno scandalo
di letto o di soldi, un terremoto, la città non esiste.
A Roma si accoltellavano regolarmente,
negli stornelli e nei racconti di viaggio, all’uscita dalla cantina.
“Tasse, il 43 per cento non paga l’Irpef. E il 12 per
cento versa 26 euro l’anno. L’ex sottosegretario al Welfare Brambilla: “È credibile
che quasi la metà dei cittadini viva con 10 mila euro?”. Credibile no, ma per
le Entrate sì – loro che c’entrano, sono passacarte.
La Juventus, il club di John Elkann, ha speso nella gestione
Giuntoli-Motta un anno fa quasi 200 milioni, per comprare calciatori - nel mentre
che lasciava andare per niente Rabiot, il centrocampista più richiesto in Europa.
Indebolendo e non rafforzando la squadra. Con la nuova gestione ha speso 80 milioni,
per quattro calciatori che non fa giocare, e in sette-otto partite hanno segnato
in tutti un gol. Tutti errori non sono. In compenso sono state pagate, tra Giuntoli
e la nuova gestione, commissioni da 10 e 12 milioni di euro a tre o quattro procuratori.
C’è un mercato dei procuratori, con sfioramenti e elargizioni - anche nelle cessioni semigratuite di Grandi Giovani, Hujsen, Soule? Sì, sicuramente.
O, più paradossale, strana?, la campagna acquisti del Liverpool in estate, campione d’Inghilterra, che ha speso mezzo miliardo per tre o quattro calciatori, con i quali ha infilato una serie di sconfitte, quale da tempo non ricordava. Cui bono? I procuratori hanno residenze fiscali inaccessibili e incontrollabili, e quindi non si può sapere dove vanno in realtà le provvigioni. Ma le società non vigilano? Non licenziano i dirigenti-scandalo? No si rifanno su questi dirigenti? Le federazioni non pongono tetti? Porrebbero anche vigilare, un poco.
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Il castello è un po’ polveroso
C’è stata la crisi del 1929, la fine dei privilegi, le
fortune si sono rovesciate, ora bisogna fare i conti, se non guadagnarsi la
vita. Molto va venduto. Quello che non è stato perduto al gioco, dallo sciocco zio
Giamatti, il fratello della madre – due americani, figurarsi: tanto resilienti (incrollabili,
in pace con se stessi) quanto inaffidabili. E anche la servitù cambia. I vecchi
sono sempre quelli, maggiordomo, cuoca, i giovani sono autonomi – ancora non
sindacalizzati ma talvolta impertinenti. Uno è diventato anche il cocco – l’amante?
– di Noel Coward, figurarsi, impertinenza doppia. Ma anche la famiglia cambia.
Mary, che ha deciso di divorziare, viene esclusa dalla
buona società, a Londra e nel vicinato, nel Sussex. Si rifarà una vita salvando
il salvabile, cioè Downton Abbey. E convincendo i genitori, gli onnipresenti Robert
e Cora delle prime due serie, ad acconciarsi a vivere a Londra in appartamento –
curiosa cosa per essere una casa, senza grandi camini e senza scale, e anzi con
una stanza dietro l’altra – accuditi da una sola cameriera. Mentre Coward, per
i cui drammi a Londra si fanno le code, con l’ex valletto, invece che dare
scandalo diventano i salvatori di Mary e di Donwton Abbey, con la sola loro presenza
a una cena a cui tutta la buona società preme per essere invitata. O
tempora, o mores. Ma siamo inglesi, e non ci lamentiamo. Mary resterà sola,
riaccettata in società sebbene con con poca servitù, a gestire Downton Abbey –
sarà una dimora gentilizia visitabile, a pagamento (ma il titolo sembra dire
che non saranno più sequel)?
Gli eventi insomma precipitano, il rivoluzionamento continuo
domina il terzo episodio, contro la rocciosa staticità dei primi due. Anche il
film sembra fatto alla svelta, la sceneggiatura, i tagli, i dialoghi. Perfino i
colori: Simon Curtis, che aveva illustrato il secondo episodio della serie sui
verdi soleggiati, qui annega tutto sui bruni, spenti, anche i ricevimenti, non
più fiammeggianti, anzi polverosi.
Simon Curtis, Downton Abbey – Il gran
finale
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