venerdì 17 ottobre 2025
Cronache dell’altro mondo – o del coyote (365)
“Gli Stati Uniti sono sempre stati una terra di imbroglioni” – “The Nation”, novembre
Cronache dell’altro mondo – infantili (364)
Da anni il New Mexico si classifica ultimo, tra gli Stati della federazione,
per la cura dell’infanzia. Calcolata su fattori quali il reddito familiare, i
risultati scolastici e la mortalità infantile. Nell’ultimo decennio, quando il
New Mexico non si è classificato al 50mo posto per la cura dell’infanzia, si è
piazzato al 49mo.
Ora la governatrice Michelle Lujan Grisham, che aveva centrato sull’assistenza
all’infanzia a prezzi accessibili la sua campagna del 2018, ha annunciato che dall’1
novembre lo stato offrirà un servizio di assistenza all’infanzia universale e
gratuito. Esteso a tutte le famiglie, indipendentemente dal reddito. Il
programma si calcola che si tradurrà in un risparmio familiare medio annuo di
12.000 dollari per bambino.
I programmi statali retribuiranno il personale di base con un minimo di
18 dollari l’ora e offriranno 10 ore di
assistenza al giorno, cinque giorni alla settimana. Grisham calcola che siano
necessari altri 5 mila specialisti della prima infanzia per realizzare il suo “sistema
universale”.
L’ebraismo prima di Israele
Ulisse è uno che non sa chi è. La stessa confusione è
degli ebrei, “questi Ulissi erranti che, non diversamente dal loro insigne
prototipo, non sanno chi sono”. Si sono assimilati entusiasti, in questi ultimi
centocinquant’anni (H. Arendt scriveva questo “Noi profughi” nel gennaio del
1943), e poi hanno preso a suicidarsi. “Erano tanto sereni gli ebrei austriaci
fino al 1938”, erano l’invidia di tutti: “Quando poi le truppe tedesche invasero
l’Austria e i gentili cominciarono a manifestare davanti alle case dei loro vicini
ebrei, gli ebrei austriaci cominciarono a suicidarsi, senza spiegazioni,
diversamente dagli altri suicidi” - “parlo di fatti impopolari”, interloquisce Arendt
con se stessa, non del solito ribelle folle, che vuole “uccidere in sé l’intero
universo”, ma di “un modo silenzioso e segreto di scomparire” (in un testo qui
non ricompreso, la recensione nel 1943 di Zweig, “Il mondo di ieri”, fa a pezzi
lo scrittore, come epitome dell’orgoglio dei letterati, che non si spiegavano
il nazismo neanche quando li mise nel mirino).
Ma, poi, anche il sionismo non la persuade, in un saggio
di poco posteriore, ottobre 1945, “Ripensare il sionismo”. I sionisti sono, in
un certo senso, gli unici a volere sinceramente l’assimilazione (“essere come
gli altri”). Sono una piccola élite, di intellettuali sradicati, sia in
patria che nella diaspora. Il loro errore è la valutazione dell’antisemitismo
come conflitto tra nazioni, che si radica nella tradizione ebraica del “noi e
loro” - come dice Herzl, il fondatore del sionismo, “una nazione è un gruppo di
persone tenute assieme da un comune nemico”. Il sionismo spunta dalla - e punta
alla - “eccezionalità” ebraica. Non un grande sforzo intellettuale: “Il
sionismo non è altro che l‘accettazione acritica del nazionalismo tedesco”.
Erano una piccola
élite nel mondo conosciuto, sarebbe stato più giusto dire: ad Hannah
Arendt era completamente ignota l’Europa orientale, dalla Polonia alla Russia,
che ha poi creato e forgiato Israele. E di suo dà poco peso all’impatto sul
mondo ebraico delle patrie nell’Ottocento, dei nazionalismi e degli
irredentismi, dei risorgimenti – a loro volta assortiti di “primato”.
La raccolta, questa come le numerose altre su Hannah
Arendt e l’ebraismo, è interessante come una sorta di dibattito, di assemblea
dell’ebraismo, dei problemi che si pone o deve affrontare – Arendt li espone e
li dibatte. Singolarmente remoti dall’ebraismo dopo Israele. Questo però è
invece motivo d’interesse: un mondo la raccolta rappresenta di cui Israele, più che
la Shoah, sradicherà le certezze – convivenza, democrazia, liberalismo,
prosperità, materiale e morale. Di un umano, ovvio e giusto, disegno di accrescimento,
del reddito, della sicurezza, della soddisfazione.
La raccolta è di testi, per lo più brevi, contribuiti
da H. Arendt, recente immigrata in America, tra la fine del 1941 e l’aprile del
1944 alla rivista “Aufbau”, un settimanale di cultura e problemi ebraici pubblicato
a New York, a cura di un New York Club, per i profughi ebrei di lingua tedesca, dall’impero austro-ungarico e dal Reich germanico,
una sorta di foro della diaspora ebraica. Ma in contemporanea H. Arendt trattava
di argomenti analoghi su “Menorah Journal”, “Jewish Social Studies”, “Jewish
Frontier”, “Commentary”.
Gli scritti su “Aufbau” sono prevalentemente sul tema
l’ebreo come paria. “Ebraismo e modernità”, la vecchia antologia Feltrinelli,
1993, a cura di Giovanna Bettini, è più significativa, anche sostanziosa, di questa,
pubblicata nel 2002, che ora si riedita – con un vecchio saggio di Leone
Traverso. Ripresa dal tedesco, l’antologia curata da Marie Louise Knot, la pubblicista
che tra i suo interessi ha anche H. Arendt.
Hannah Arendt, Antisemitismo e identità ebraica,
Einaudi, pp. 232 € 421
giovedì 16 ottobre 2025
Cronache dell’altro mondo – critiche (364)
I lamenti sullo stato della critica sono una storia vecchia. Ma il
mestiere si va perdendo: oggi non conviene
sbracciarsi per incarichi sempre più limitati e non (ben) pagati. Per di più sotto
la concorrenza della rete, dove opinioni anche approfondite sono elargite
gratuitamente.
Non conviene fare il critico, di letteratura come di cinema, teatro, arte
eccetera. Non conviene ai critici e non conviene ai media. Non ci sono
più le critiche musicali, se non in forma di promozione. La “Chicago Tribune”
non ha più il critico dei film. Il “New York Times” ha spostato quattro dei
suoi critici d’arte ad altre sezioni, anche agli obituaries – i necrologi
in forma di biografia.
Ma l’esigenza di una “buona critica” starebbe tornando, in forma
diversa. Mantenendo la critica tradizionale, la prima impressione di una “prima”
(edizione, rappresentazione, esecuzione, mostra) a caldo. Ma in breve: come una
segnalazione, seppure di segno più o meno. Seguita a distanza da una critica
ragionata, se il manufatto o evento la merita.
(“The New York Review of Books”)
Secondi pensieri - 570
zeulig
Fede
–
È femminile, direbbe Karen Blixen: “La relazione fra il mondo e il Creatore è
per la donna una storia d’amore. E in una storia d’amore la ricerca e il dubbio
sono assurdità”.
Freud – Contestato più che
accettato. In ambito analitico. Negli anni 1950 negli Stati Uniti si è
affermata una generazione di analisi radicalmente omofobi e misogini. Negli stessi
anni molto femminismo smise di considerarlo il nemico per eccellenza,
proponendosi invece una psicoanalisi (freudiana) “inclusiva”, liberatoria.
Guerra-Pace – È d’uso citare Tacito, “De Agricola”,
a proposito di pace e guerra in questa forma: “Desertum fecerunt et pacem
appellaverunt”, fecero il deserto e lo chiamarono pace, mentre dice l’opposto
– lo fa dire a Calgaco, re dei Caledoni, e riferendosi non ai Romani ma ai
Britanni contro i Romani: “Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”,
rimasti soli, quello dissero pace. Un’espressione, se si vuole, più calzante in
molte guerre post-1939 – in molte strategie, tutte fallite.
Occidente – Il cammino dei popoli e delle
civiltà si svolge verso Occidente, usa dire “da sempre” - da quando la piccola Europa
si è staccata dalla grande Asia (Grande Madre)? Ma si vede che andando sempre a
Occidente ha completato il periplo su cui aveva ragionato Colombo, ed è ritornato
alla casa madre. Lasciando macerie sul percorso. Senza che ci sia stato un
terremoto. O forse sì, due guerre mondiali. E guerricciole continue al suo interno,
commerciali e anche armate, all’insegna
del “celodurismo”, o nazionalismo – il disegno ottocentesco, collegato ai
risorgimenti nazionali, dei primati.
Religione - L’incroyance
si vuole di ambito laico. Ma pure la religione di Stato, oggi il mercato,
altrove il marxismo-leninismo, o anche il marxismo-leninismo col mercato, e
prima gli imperi-mondi (India, Cina), o gli imperi e basta (Russia, Cina),
anche imprese disperate della storia (Vietnam), sono partorite e gestire in
ambito laico.
Schiavismo – Di un capitale razionalizzato, da marxologi e anime pie, si
è posta a fondamento la bufala dello schiavismo, la tratta più antieconomica
che ci sia, utile solo alla gloriola e poltroneria dei padroni, gente oberata
dalle ipoteche. Mentre la ragione dello schiavismo fu ed è culturale. Di colture
e di cultura. Per il fine suddetto, di un mercato che si vuole nobile, e quindi
poter fingere di non lavorare, non avere affanni. O per altre esigenze: gli
africani servirono a popolare le Americhe di persone e miti, balli, suoni.
Con una derivata anti-Tocqueville, se lo schiavismo è
la chiave dell’arricchimento: l’America dovrà attendere novecento anni per rinascere,
essendosi liberata dalla schiavitù da cento anni – ottocentocinquanta risalendo
alla guerra civile. La fine di Roma indica che ci vuole un millennio per
riprendersi senza schiavi, coltivando in proprio grano, vite e ulivo. In
quarantena millenaria sono pure gli arabi, e si vede.
E dunque l’America, al momento, non esiste? Mentre è
diventata ed è una potenza dalla fine dello schiavismo, col duro e durissimo West,
la fatica quotidiana.
Storia – Anche nella forma spicciola, événementielle, è
segnata dall’eternità, da percorsi a noi esterni e ignoti.
È arduo, si direbbe impossibile, fare la storia di qualcosa che non c’è. Anche
recente. Anche sorretta – provata – da testimonianze. Nei romanzi
dell’Ottocento l’amore sta per follia, per quanto benigna, oggetto spesso di
necrofilia, spiritismo, magia, giuliette e romei, e altre storie nere. Oggi la
materia è sterile.
“La Storia si può veramente chiamare una guerra illustre
contro la Morte”, o “una guerra meravigliosa contro la Morte”, o “una guerra
illustre contro il Tempo”, sono tre incipit di Manzoni, di “Fermo e Lucia” e dei “Promessi
sposi”. Era Manzoni hegeliano, per la storia della Provvidenza, ma incerto.
È anche vero che ogni storia vera,
per quanto scontata, viene meglio d’un romanzo.
La storia del pensiero è piatta. Anche il progresso è
zero, in quanto ragione.
Vuoto – Il vuoto non esiste in natura, e quindi nemmeno nell’animo
umano – o nell’esistenza.
È uno sbocco – un punto di sbarco – del nichilismo. Che però è una forza (operosità,
pensiero) attiva. Pensarsi nichilista è una contraddizione – il nichilismo è
una deriva, informe.
“A clean, well lighted Place”, 1926, uno dei primi racconti di Hemingway,
che poi saranno detti “minimalisti”, in cui due camerieri si spazientiscono perché
è tardi ma non possono finché un vecchio, che “ha tentato il suicidio tempo fa”,
non smette di chiedere ancora bicchierini, e uno dei due s’interroga sul senso
della vita. Per concludere che “lui lo sapeva che tutto era nada y pues nada y
nada y pues nada” – e recitarci sopra un “Padre nostro” del niente – “nada
nostro che sei nel nada…”. Sforzo notevole per questo nada – il racconto è stato
“lavorato” a lungo, e Hemingway venticinquenne a Parigi era in full swing,
anche come socialite.
zeulig@antiit.eu
Don Matteo made in Usa
“Don Matteo” rovesciato – il don Matteo di Raoul Bova:
il carabiniere diventato sacerdote diventa il sacerdote diventato poliziotto.
Lo svolgimento è un po’ più cruento, siamo in America, ci vogliono inseguimenti,
scazzottate e sparatorie – e senza l’alleggerimento di Frassica. Ma gli
svolgimenti gli stessi, tra ricordi, remore, crisi, e azione.
Brad Ingelsby, Task, Sky Atlantic, Now
mercoledì 15 ottobre 2025
Il mondo com'è (489)
astolfo
Plia Albeck – Un’avvocata, “oscura
funzionaria del ministero della Giustizia americano” (R.Bergman - M.Mazzetti,
“L’impunità dei coloni”), è diventata famosa ed è tuttora riverita in Israele per
avere “scoperto” nel 1987, vent’anni dopo l’occupazione, la chiave giuridica
che Israele fa valere per appropriarsi della Cisgiordania, tramite la
colonizzazione. Sfogliando i regolamenti del vecchio impero ottomano, Albeck
trovò la chiave nel Codice Fondiario Ottomano del 1858, un insieme di norme
intese a promuovere una riforma agraria. Nella norma che prevedeva la confisca
dei terreni di proprietari assenteisti – “qualsiasi terreno che non fosse stato
coltivato dai proprietari per un certo numero di anni, e non fosse «a distanza
d’urlo» dall’ultima casa del villaggio”. Di terreni abbandonati e remoti.
Il primo ministro
Begin, impegnato dal presidente americano Carter a un accordo di pace con l’Egitto,
che comportava la restituzione all’Egitto del Sinai e altre concessioni, cavalcò
la “scoperta”: l’avvocata fu fornita di un elicottero militare per mappare la
Cisgiordania e individuare gli appezzamenti che potessero consentire l’avvio
degli insediamenti ebraici sulla base della riforma agraria ottomana del 1858.
Ne tornò con l’individuazione di “oltre cento aree” che si potevano difendere
in tribunale sulla base di quella norma, su cui si impiantarono “legalmente” i
primi coloni – che l’avvocata amava definire “i miei figli”.
San Carlo Borromeo – Santo,
annota la sua biocritica Fragnito, malgrado lo straordinario nepotismo – che
eserciterà anche, un secolo dopo, il Borromeo buono di Manzoni, il cardinale Federico,
grande acquisitore di beni e titoli – esteso a “parenti delinquenti”. Stile Innominato.
Fu santo per il “suo indubbio zelo apostolico, la grande carità che
praticò e fece praticare, l’opera di acculturazione e moralizzazione del clero,
la sua modestia e la sua fede, vissuta talvolta con sorda intransigenza”. Fu
però il vescovo che rinobilitò Francesco Cittadini, un giovane milanese di
buona famiglia che per non saper che fare se ne era andato a Roma, dove aveva
fatto carriera in Vaticano, presto nominato vescovo di Castro, l’antica capitale
degli ipernepotisti Farnese. Qui aveva fatto un figlio con una badessa, Elena
Orsini, della potente famiglia romana (la vicenda è una delle “Cronache italiane”
più note di Stendhal, “La badessa di Castro”), che lo fece imprigionare e processare
per relazione sacrilega. Il futuro santo Borromeo si adoperò per sottrarlo alla
condanna, gli affidò una parrocchia in Lombardia, e lo volle in molte cerimonie,
subito dopo la liberazione, al suo fianco.
La protezione del vescovo Cittadini è però niente al confronto di
quella che il santo spese in favore di un Giovan Battista Borromeo che aveva
trucidato la moglie, Giulia Sanseverino, ed era stato per questo condannato alla
decapitazione. L’uxoricida era un lontano cugino, ma era stato per un breve periodo
accudito, bambino, organo di entrambi i genitori, dal futuro santo.
L’uxoricidio
era stato particolarmente efferato. A conclusione di una lunga vicenda di sopraffazioni
e violenze, compresa la reclusione della vittima in casa con porte e finestre murate.
L’8 marzo del 1577 la uccise a pugnalate, davanti alle due figlie, bambine. Avvenne
a Origgio, dove Giovanni Battista, “signore di Cannobio”, aveva residenza. Nel
feudo Borromeo che prendeva il nome da Angera, sul lago Maggiore, sulla sponda
di fronte al monumento che sarà eretto al santo, il “Colosso di san Carlo
Borromeo”, bronzo alto 35 metri, in cima al Sacro Monte di Arona. I Borromeo,
conti e marchesi, erano padroni di mezzo varesotto – lo “Stato Borromeo” nel
Tre e Quattrocento contava più di mille kmq: il conte risiedeva ad Arona, il
marchese ad Angera.
Lo “zio” cardinale fece
espatriare il “nipote” subito a Locarno. Dove ricevette, una settimana dopo,
l’ingiunzione del Capitano di Giustizia di Milano a comparire. E due mesi dopo,
la sentenza dello stesso Capitano: decapitazione, e confisca dei beni. Il cardinale
si agitò subito a svigorire la condanna, agendo sulla distinzione che la legge
faceva fra l’assassinio premeditato e quello commesso in un impeto d’ira. E a
questo fine raccolse molte testimonianze, senza difficoltà. Mentre le ebbe per salvare
i beni, oltre la vita, e ottenere la libertà, con il perdono di tutte le parti
offese. Su questo trovò l’opposizione della sorella e della madre della moglie
assassinata, Barbara e Lavinia Sanseverino. Di quest’ultima soprattutto. Che tenne
testa alle pressioni del vescovo fino alla morte, un anno e mezzo dopo, il 2
novembre 1578. Morta Lavinia, il vescovo cardinale ottenne rapidamente il perdono
delle figlie, della sorella Barbara e di altri due parenti: ad agosto del 1579
il governatore Guzmán
y Zuñiga condannava il nipote del cardinale a una pena pecuniaria e a cinque anni
di residenza coatta fuori dello Stato – nel finitimo Monferrato.
Frascineto – Oggi borgo arbëreshë,
in Calabria, alle pendici del Pollino, è il nome antico di Saint Tropez. Nato
da una spedizione (“scorreria”) arabo-mussulmana nel secolo X, originata dal
regno di Granada. La calabrese Frascineto viene da ginestra, “frasnita” in arbëreshë
– il borgo aveva finito per chiamarsi, attraverso una serie di derivazioni,
“Porcile” nel primo Novecento. Nella Frascineto-Saint Tropez i corsari cerarono
una base, da cui partire per le scorrerie, sia via mare che via terra, risalendo
i fiumi, e a cui fare capo intermedio al rientro verso le basi sicure. Un
insediamento che nelle cronache latine dell’epoca viene registrato come
Fraxinetum Saracenorum. Con due possibili etimologie. O dalla vegetazione,
oppure dal castrum, oggi detto La Garde Freinet, al bordo nord dell’insenatura,
sopra un rilievo roccioso – che però anche questo era protetto da una densissima
spinarum silva.
L’insediamento fu
stabile per un lungo periodo. Registrato da Ibn Hawqal, il mercante e viaggiatore
originario di Bagdad che rilevò tutto il mondo mussulmano, Sicilia compresa, da
Granada all’India, nel “Libro delle vie e dei regni”: “Il Ğebel ‘al qalâl (rilievo
non identificato, ma sarebbe la Provenza, n.d.r.) era deserto da molto tempo, ma aveva acque,
buone terre, culture e seminati in grado di alimentare chi vi riparasse. Sbarcato
che vi fu un gruppo di mussulmani, ne fecero loro residenza e la mantennero.
Anche contro i Franchi, i quali non poterono nulla contro di essi, e l’inattaccabilità
del luogo”.
Fu la base degli
arabi in Liguria dei racconti di Calvino. Da Frascineto-Saint Tropez fecero
continue incursioni sulle coste provenzali e liguri, saccheggiando a più riprese
la Riviera di Ponente. Più sistematiche le spedizioni nell’entroterra, tra il
Rodano e le Alpi, fino all’Oltregiogo padano – in particolare su Acqui, Alba e l’alto
Tortonese. Oltrepassarono anche le Alpi, in Svizzera si ricorda la devastazione
del monastero di San Gallo.
Sionisti cristiani
–
Il movimento “evangelico” americano, sui cui orientamenti Donald Trump ha basato
e basa gran parte delle sue decisioni, specie su Israele e il Medio Oriente, ha
una forte componente sionista, ampia e di fede assoluta - e sarebbe stato la fonte di ispirazione, a metà Ottocento, dei sionismo propriamente detto, ebraico, israeliano. Lo storico israeliano
Ilan Pappé ricorda (“10 miti su Israele”, p. 235) che “George W. Bush era
fortemente influenzato dai sionisti cristiani, con cui forse condivideva l’opinione
che la presenza degli ebrei in Terra Santa facesse parte del compimento di uno
scenario apocalittico che avrebbe potuto inaugurare la seconda venuta di
Cristo”.
Il sionismo non ha
buona ricezione nelle confessioni protestanti e nella chiesa cattolica – salvo
pochi, recenti, “mediatori teologali”. Ma ha diffusione in America. Specie in
questo movimento “evangelico”, messianico - Martin Luther King si vuole sia stato
anche lui un sionista cristiano.
I sionisti cristiani non si sa quanti
sono, ma sono influenti. L’organizzazione cristiano sionista più grande, i
Cristiani Uniti per Israele, che conterebbe dieci milioni di membri, è anche screditata:
il suo creatore e organizzatore, John Hagee, un ultraottantenne pastore e predicatore
tv, nel 2013 fu a lungo bestseller con un libro in cui profetizzava la
fine del mondo a una certa eclisse lunare del 2014.
Hagee è famoso
anche per avere stabilito che le persecuzioni degli ebrei, Olocausto compreso,
nascono dalla disobbedienza del popolo ebraico a Dio – e in particolare che
Hitler proveniva da una stirpe di “ebrei meticci maledetti e assassini”.
Ma nel 2023, secondo
un sondaggio del Pew Research Center, oltre il 60 per cento dei cristiani
evangelici e circa il 50 per cento degli afroamericani erano convinti che
Israele adempisse la profezia biblica, trovasse le sue radici nella Bibbia, ad
empisse una profezia biblica. Poco più delle metà degli intervistati, il 55 per
cento, affermava di sostenere Israele in base ai racconti e ai precetti
biblici. Un sondaggio più recente, 2017, di Life Way, rilevava una percentuale
maggiore, l’80 per cento del dei cristiani evangelici convinti che la nascita di
Israele nel 1948 fosse un adempimento della profezia biblica che avrebbe
portato al ritorno di Cristo.
Il governo israeliano
sostiene ufficialmente il sionismo cristiano. Nel 1980 è stata aperta una Ambasciata
Cristiana Internazionale - a Gerusalemme, sede privilegiata, e non a Tel Aviv. L’ambasciata
si è segnalata per la raccolta fondi destinati al finanziamento della immigrazione
in Israele dall’Unione Sovietica e poi dall’ex Urss. E ha assistito e assiste i
coloni israeliani in Cisgiordania.
Il sionismo, l’attesa
di una “restaurazione ebraica”, si sarebbe sviluppato per primo tra i cristiani,
e in particolare nel pensiero puritano inglese del Seicento. I “circoli ebraici”
ne sarebbero stati contagiati intorno al 1840, secondo la storica contemporaneista
israeliana Anita Shapira - la stessa studiosa,
biografa dei più forti sionisti, Berl Katznelson, Ben Gurion, Yigal Allon, e
analista dell’identità ebraica, in una ricerca specifica, “The Bible and
Israeli Identity” nel 2005, rilevava che la considerazione della Bibbia era diminuita
nell’identità israeliana.
I cristiani
evangelici, come i sionisti messianici, in realtà, come correttamente spiega lo
storico Pappé nel recente “La fine di Israele”, si esercitano da un secolo o poco
meno sulla fine dello Stato di Israele, e pregano ferventemente per un’apocalisse,
“nella speranza che gli eventi in questi territori precipitino la fine dei
tempi e preparino il ritorno del Messia cristiano o (l’avvento) di quello
ebraico”.
astolfo@antiit.eu
La madre non si sostituisce
La famiglia allargata non esiste. Cioè esiste, è un
dato di fatto, ma il padre è uno, e la madre è una. Rachel, bellissima,
vivacissima, sapientissima, e anche saggia insegnante di letteratura in un istituto
tecnico, si avvicina alla menopausa senza il figlio che vorrebbe. Il suo ultimo compagno
si scopre avere una figlia, piccola, alla quale Rachel si affeziona, e che la
corrisponde. Al suo modo, con gli umori
da bambina, ma con punte di grande affettuosità. Se non che Rachel non è “della
famiglia”: non delle feste con i nonni materni, non del lutto per l’amica “di
famiglia”, e viene dimenticata quando la madre, seppure non invadente, è presente.
Il ragazzetto che a scuola lei ha letteralmente salvato, e ora ha già fatto carriera
al lavoro, ne fa una santa. E questo (non) è di consolazione.
Con una Virginie Efira perfetta in tutti i registri
del personaggio – l’attrice belga da noi sconosciuta che ricopre da qualche
anno i maggior ruoli femminili del cinema francese, collezionando più premi.
Rebecca Zlotowski, I figli degli altri, Rai 3,
Raiplay
martedì 14 ottobre 2025
Etichetta islamica
“È giovane, bella e molto rispettata”,
è il complimento di Trump a Meloni a Sharm el Sheikh, alla firma del Trattato di
Pace per il Medio Oriente. Poi nella foto di gruppo lei viene confinata all’estremità
– a una delle estremità, all’altra c’è il suo collega dell’Iraq. Era anche l’unica
donna su 33 partecipanti. Non c’è male come diplomazia (etichetta, precedenze)
e come galanteria (buona educazione).
A Ankara, o era Istanbul, il presidente
turco Erdogan, islamista senza convinzione, per politicanteria, non ha dato una
sedia l’altro anno a Ursula von der Leen, la presidente della Commissione Europea,
in visita.
Un altro mondo? No, è il nostro. Un’altra
etichetta.
Un po’ si capisce che Meloni sia (un po’)
sovranista.
E ora la valanga di sinistra
Cominciano le sberle per Meloni. In Toscana era scontata, ma non in quella misura. Beffata dal generale Vannacci, dalle beghe leghiste.
Fra un mese perderà, con un suo candidato, anche in Campania, con le stesse percentuali. Oltre che in Puglia, dove non ci prova nemmeno. E potrebbe perdere perfino in Veneto.
Nel Veneto naturalmente no, ma che se ne possa fare l’ipotesi è già una mezza sconfitta. Come lo è farsi imbrigliare, con tre anni di anticipo, sulle candidature alla Regione Lombardia. Giusto per scontare subito la lite che ci sarà con Salvini – forse senza più la posizione di forza della presidenza del consiglio (questa XIXma legislatura finisce un anno prima).
Anche nazionalmente, il carniere è mezzo vuoto. È pieno sul lato diplomatico e del rigore contabile, che però non hanno mai fatto votare nessuno. Si vota per il benessere – per il reddito. E qui il bilancio è vuoto: più tasse e non meno tasse (il taglio Irpef è d ridere). Con molti artifici. I più odiati le bollette più care del mondo, piene di iva sulle accise (sic) e di false “tasse di scopo”, con una patrimonialina di 25 euro al mese sull’elettricità per le seconde case, che tutti gli italiani hanno. E lo svuotamento delle spese detraibili – ormai non ci sono più medicinali, solo parafarmaci.
Se Veneto e Lombardia sono contendibili
Veneto e Lombardia sono contendibili, dopo quarant’anni, perché sono le regioni dove ci sono i soldi. Nessun governo si era mai spinto a manomettere le banche, Meloni ci prova ogni anno. In questo 2025, oltre che con la solita patrimoniale (una tantum per modo di dire) sulle banche, persino con l’assalto a Mediobanca-Generali tramite il piccolo e inesperto Monte dei Paschi. Con la farsa del golden power sul milanesissimo Bpm, contro Unicredit, che è pure milanese, a favore di Crédit Agricole, che è francese. E con un serie di leggi su cui sicuramente si faranno indagini penali: le norme che consentono il controllo azionario della gestione senza l’obbligo di acquisto dopo una certa soglia, e il nuovo Tuf, il testo unico di finanza, che si preannuncia rivisto per favorire il passaggio di Bpm sotto Crédit Agricole.
Capri, di malavoglia
Capri, Anacapri e Caprile. E il monte Solaro, “greco”
- “Che monte ridente! Che monte misurato! Che monte «greco»!”. Con “le donne
dal collo robusto” di Omero. E i Teleboi – che sono di Virgilio, ma Savinio,
pur professandosi latinista in gioventù, non ne fa cenno.
La partenza è promettente. Allo sbarco gli si erge la
memoria di “quel principe del pompierismo letterario che risponde al nome di C.A.Sainte
Beuve” – che dell’isola arrivando aveva visto “la silhouette severa, il
profilo formidabile, Tiberio”, l’imperatore crudele in persona, “nel golfo della
mollesse, il richiamo grave e terribile”. Subito poi ce n’è per Debussy,
sentendo su per un sentiero “le notine perlate di un preludio di Debussy”: “Che
musica da morticini! Che musica da piccoli annegati gonfi che galleggiano sopra
un mare putrefatto” – ed è uno “uno dei più brutti, uno dei preludi più banali
che abbia scritto magister Claudius: ‘Les collines d’Anacapri’”.
Pochi altri umori. Un Savinio ben disposto ma poco ispirato
– una “guida” scritta nel 1926, ma pubblicata solo nel 1988. Anche lui ci trova
Tiberio, naturalmente, il Salto di Tiberio – ma con la Madonna del Soccorso,
che protegge dalle tentazioni (“se Tiberio faceva precipitare gli schiavi da
questa rupe, era solo per sedare un poco il terribile desiderio che lo
struggeva di buttarsi egli medesimo dal Salto di Tiberio”). Con più agio ci ha
trovato Augusto. E poco altro. In una pagina si affastellano Shakespeare, Verne,
Victor Hugo, Walter Scott e Barbarossa - Khaireddin, non Federico.
Alberto Savinio, Capri, Garzanti, pp. 80 €
5,90
lunedì 13 ottobre 2025
Le mani del governo sul risparmio
Su una cosa che ancora non esiste, una
procedura Ue contro il governo italiano per la gestione politica, contro le
regole, del golden power (contro Unicredit per l’acquisizione di Bpm, e a
favore di Crédit Agricole, n.d.r.), due europeisti convinti come Osvaldo De
Paolini e sul “Giornale” e Angelo Di Mattia sul “Foglio” si scagliano contro.
Con virulenza. Con violenza.
“Che a Bruxelles si continui a mettere
in discussione la sovranità nazionale in tema di sicurezza economica è ormai
diventata una pericolosa abitudine”, è l’esordio di De Paolini. Il motivo? “Di
nuovo nel mirino della Commissione è finito il decreto Golden Power applicato
all’Ops Unicredit-Bpm”. Dove invece il governo ha solo difeso l’italianità di
Bpm. Perbacco, contro il “lurco” Unicredit? E che diritto ha Bruxelles di intromettersi
in una questione di sovranità? “Il ministro Giancarlo Giorgetti è stato molto
chiaro: la sicurezza, anche economica e finanziaria, non è materia comunitaria,
ma competenza esclusiva dello Stato nazionale. E l’Italia la difenderà «a ogni
costo»”. Cioè, sottraendo Bpm a Unicredit, per affidarlo al Crédit Agricole.
Non è giornalismo (non c’è logica), e nemmeno
politica. Non varrebbe soffermarvisi se fosse una bizzarra concezione del mercato.
Del giornalista come di De Mattia – che pure da ex collaboratore di Fazio alla
Banca d’Italia, dovrebbe ben sapere cosa succede quando la politica “si occupa”
del risparmio (delle prepotenze disastrose della politica si ricorda solo quella
contro Baffi e Sarcinelli, ma la persecuzione di Fazio, sempre alla Banca d’Italia,
è stata ben peggiore). De Mattia riconosce che non sa di che lettera si tratti,
ma ritiene necessario, non richiesto (la sua è una lettera al giornale), di schierarsi:
la non-lettera Ue è “una conferma del modo inaccettabile del funzionamento di
alcune strutture della Commissione”. Tale che “è da attendere una doverosa replica
da parte del governo, essendo in ballo la tutela della sicurezza nazionale nei
diversi aspetti, e, se necessario, il ricorso alla Corte di giustizia europea”.
Diversi da che, dalle regole?
Malumori dell’età? Il giornalista e l’ex
direttore centrale della Banca d’Italia sanno di che parlano – e non sono
anti-europeisti. Sanno anche che in queste materie la Ue non si pronuncia per la
prima volta – proprio Mario Monti nel decennio in cui fu a Bruxelles responsabile
della concorrenza e dei servizi finanziari (“mercato interno, integrazione
finanziaria, fiscalità, unione doganale”) ebbe più occasioni di intervenire nel riavvio della “banca universale” e nelle ristrutturazioni bancarie, allora così radicali (l’opus magnum
del governatore Fazio). Si schierano - De Mattia non invoca il santo Giorgetti
(non è Unicredit una banca straniera, controllata dai diabolici fondi?), ma è
come se. Non sul fronte del risparmio, evidentemente.
Il governo deve proteggere il
risparmio. Come, con la mazza? Con le barricate? Il risparmio si protegge da
sé, con le regole. Non con le manomissioni – al netto delle turbolenze interne
a Forza Italia, e tra Salvini e i meloniani. Si fanno le baŕricate contro le prepotenze UE, che ancora non si vedono, per non parlare del nuovo Tuf, che sottomette il mercato al governo?
Se il covid non c’è stato
Una riflessione sui (non) effetti del covid, se non “gli
adesivi sbiaditi”, e “qualche reparto di terapia intensiva potenziato” – oltre “a
inedite definizioni di paure e fragilità”. Ovvero sull’effetto semplificazione,
se non rimozione: della pandemia come una parentesi - un’influenza un po’ pestifera,
come si voleva agli inizi. Mentre “aveva aperto questioni gigantesche e più
generali, avendo imposto un corpo a corpo con il collasso di alcuni diritti
fondamentali, con le epifaniche e amarissime disuguaglianze di quella che era
per tutti la stessa «tempesta» ma non la stessa «barca»”.
Una riflessione propiziata dalla
mostra “Venezia e le epidemie”. Che invece testimonia di una storia, una realtà
politica, che si intendeva di epidemie, trafficando per i porti di tutto il
Mediterraneo, e sapeva prevenirle e trattarle. Un’esperienza di secoli, che
Gissi sintetizza come efficace. Intanto perché anticipa un concetto
contemporaneo, “la comprensione della relazione reciproca tra salute ed
economia, il valore della governance coordinata, l’esigenza di un’intelligence
sanitaria sovranazionale” – che Venezia non trascurava, uno dei suoi tanti plus.
Ma, soprattutto, si organizzava di conseguenza: “L’esperienza veneziana
dimostra come l’eccellenza nel governo delle emergenze sanitarie non scaturisca
soltanto da saperi scientifici avanzati – all’epoca certamente fragili – ma
dalla facoltà di edificare istituzioni adattive, capaci di trarre insegnamento
dalle emergenze e di trasformarsi”. Il contrario della realtà odierna, da Paese pure “avanzato”, di una “sanità collettiva” che si affronta con “tagli e logiche di
mercato”.
Con
un interrogativo anche sulla funzione della storia, della storiografia. Che a
volte è lì per rimuovere invece che per scoprire – rivelare, spiegare: “Rimozione
e oblio sono evidentemente tentazioni potenti e già sperimentate nel caso della
‘spagnola’ d’inizio Novecento, nascosta a lungo nelle pieghe dei manuali
di storia”.
Alessandra
Gissi, Venezia e le epidemie, un viaggio nella storia e nell’ambiente,
minima&moralia, online
domenica 12 ottobre 2025
Ombre - 795
La Francia non ha solo un
problema di debito pubblico, è troppo alto anche il debito delle imprese, rileva
“Il Sole 24 Ore”: “Ha raggiunto i 4.550 miliardi, il 155 per cento del pil”, un
record – in Germania è all’89 per cento, negli Usa al 73,7, in Italia al 57.
La globalizzazione, il “mercato”, si è fatto
a debito. Il Fondo Monetario Internazionale calcola l’indebitamento pubblico “globale”
(mondiale) alla pari quest’anno col pil, con la produzione.
Si scopre, con lo scambio di prigionieri
Israele-Hamas, che “migliaia” di palestinesi sono detenuti in Israele senza processo,
e senza assistenza legale. Anzi in segregazione. E non se ne sapeva niente.
Democrazia? Informazione?
Si modifica il Tuf, testo unico
della finanza, per consentire alla francese Agricole il controllo di Bpm arrivando
a un centesimo sotto il 30 per cento - elevando dal 25 al 30 per cento l’obbligo
dell’offerta pubblica di acquisto dell’intero pacchetto. Dopo avere modificato
le regole di gestione, per cui si controlla un’azienda col poco meno del 30 per
cento. Da parte di un governo “sovranista”, che ha fatto guerra a Generali per l’accordo
con Natixis, francese, e a Unicredit per l’ops su Bpm – dichiarando Unicredit
banca straniera, che mette a rischio il “risparmio degli italiani”.
Sotto il sovranismo la vecchia manovra “bieca”
di potere. A danno del risparmio – lo è sempre stata. Ma questo non si dice. C’è
un perché?
Si litiga su una decisione di Bruxelles in materia di “golden power” che non è stata presa. Litigano Meloni e Giorgetti, e i loro fan nei media. Curioso. Anche perché non c’è mai stata tanta intromettenza politica, sull’informazione e sul risparmio - le banche, bene o male, ci tengono i conti. Neanche quando le banche erano pubbliche. Le Casse di risparmio rispondevano ai potentati locali di turno, ma con discrezione – anche perché le Procure all’epoca vigilavano. Dei grandi banchieri pubblici era soprattutto nota, e non contestata, l’indipendenza, di Mattioli, per dire, Cingano, Siglienti, anche Braggiotti, lo stesso Nesi, Sarcinelli – anche nelle contese, tra Cingano e Braggiotti, o tra Fausti e Arcari.
Meloni giuliva dei viaggi all’estero
- unica peraltro viva (che se non ha qualcosa da dire sa però come dirla) nel
cimitero europeo – non sa che Renzi arcipotente perse tutto imponendo le sue
banche toscane. Dopo di che qualche centinaio di migliaia di famiglie ci rimisero
molto e moltissimo.
Sembra strano oggi, ma in confronto al
potere di Renzi, per dieci lunghi anni, Meloni non è niente al confronto, appena qualche
nomina, da poco, di passaggio, Sangiuliano, Giuli, Lollobrigida, la sorella.
Di una dozzina di frequentazioni
abituali la metà hanno o hanno già avuto l’influenza. La Regione però ha prenotato
il vaccino per novembre. Poi dice che la sanità pubblica non funziona perché
troppo cara, troppo lenta, disertata dalle competenze, etc. Perché manca la testa,
un minimo di giudizio.
Lo screzio fra Angela Merkel e
la Polonia – il governo in carica e l’opposizione – sul mancato dialogo con
Mosca tra il 2018 e il 2022 è intanto verosimile:
Merkel dice che la Ue non parlò con Mosca per l’opposizione della Polonia. Ma è
comunque uno dei tanti segnali che l’Est europeo – che determina purtroppo l’agenda
della Ue da un quinquennio – è un verminaio. Il tono della contesa, se non la sua
verità, parla chiaro.
Roma scopre di avere 1.859.221
autoveicoli immatricolati, per 1.600.000 patentati. Nonché essere anche “capitale
dello sharing”, di auto, moto, bici e monopattini. Di questi
soprattutto. Siamo in transizione, verso dove?
Roma ha anche 330 km di piste
ciclabili, e prevede di costruirne altri 700 km. Al costo di 350 mila euro al
km - un “investimento” da 350 milioni. Per piste che nessuno usa. Un investimento
per restringere la carreggiate ed eliminare qualche centinaio di migliaia di
posti macchine al parcheggio.
Ferrari dimezza gli investimenti sull’auto
elettrica. Mentre per il decimo, o ventesimo, anno non fa più una macchina
competitiva alle corse. Dopo Fiat, Jeep, Alfa Romeo e Lancia, Elkann affonda
anche la corazzata delle vendite e dei profitti?
Continuano le ruminazioni sul voto alla
Regione Calabria, dopo quello alla Regione Marche. Sapendo che domani il risultato
sarà invertito in Toscana – e fra un mese in Campania e Puglia.
Giornali e tg fanno un subisso di
politica, senza dire nemmeno l’ovvio – fare di tutto eccezione, anche dell’alba
e il tramonto, è come abbaiare, senza senso.
Fine ingloriosa del candidato
Pd-5 Stelle in Calabria, Tridico, dopo una serie di gaffes inimmaginabili.
E non si dice che un quarto dei voti che ha raccattato, il 10 per cento del totale
del voto, era di due liste socialiste, sotto mentite spoglie, Democratici
Progressisti e Casa Riformista – questa con una spruzzata di Renzi, “Italia
Viva”. Una delle due ha anche preso un consigliere, l’altra è andata poco
sotto.
Meloni da Vespa fa l’elenco delle
accuse avventate che Conte, Schlein e Avs muovono al suo governo. Compresa una denuncia
alla Corte Penale Internazionale per “complicità in genocidio” – per le forniture
militari a Israele. Il “Corriere della sera” titola: “La premier in tv: presentata
una denuncia alla Cpi. Un portavoce della Cpi: nessun atto formale”. Su un testo
in cui il portavoce spiega: “Solo le decisioni hanno valore, e non esiste
alcuna decisione”. Analfabetismo non è - per fare il caposervizio (quello che
fa i titoli) bisogna sapere un po’più che leggere. Ma è sempre vero che la stupidità
esiste, per quanto “impegnata”.
Si critica Trump per una serie innumerevole di motivi, compresa
naturalmente l’economia Usa, ma non si dice che l’economia in A erica è solida,
la più solida, cresce quasi al livello della Cina, gli investimenti in dollari
al massimo, e l’euro, malgrado questa corsa al dollaro, pure ai massimi, nel cambio
col dollaro. È opposizione? A chi, a se stessi?
Si critica Trump e poi si riporta un conto delle spese
Nato che vede gli Stati Uniti finanziare l’alleanza per i due terzi, 997
miliardi di dollari su 1.506, il 3,4 per cento del pil – più di ogni altro
(secondi solo alla Polonia, che si arma da tempo contro tutti, per ora contro la
Russia).
Negli accordi mediati dalla
Croce Rossa e dalla Turchia, la Russia ha restituito all’Ucraina nei tre anni e
mezzo di guerra 13 mila corpi di soldati morti, l’Ucraina alla Russia “un
migliaio”. Sono la verità della guerra, dietro le “notizie di guerra”, la
propaganda, di cui siamo vittime - anche la restituzione dei prigionieri è stata
salutata come un segno che la Russia sta perdendo la guerra, “troppi morti”.
Su Epstein, il ricco newyorchese che forniva ragazze,
anche minorenni, agli amici, sono chiamati a dare contro alla commissione d’indagine
del Congresso i Clinton, lui e ei. Ma i media parlano solo di Trump, se e
quanto era amico di Epstein, e se ne aveva “approfittato”. C’è uno scollamento,
una voragine, tra l’“opinione pubbica” mediata dai media, e l’opinione
comune, sensata, democratica. I media classici si sarebbero detti del
salotto buono. Ora sono del tinello, piccolo borghese.
Il Napoli calcio indovina sempre
tutti gli acquisti, pagando poco, la Juventus li sbaglia, li sbaglia tutti, spedendo
molto. Una costante da troppi anni. C’è una ragione? Stupidità non è – quello
che si è “sbagliato” di più alla Juventus, roba di un paio di centinaia di
milioni, è un dirigente che se ne intendeva del Napoli.
Il problema del calcio è che non si
conoscono i domicili fiscali dei mediatori – agenti, etc.. Cioè si conoscono,
ma sono coperti dai paradisi fiscali.
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Ombre
La commedia del teatro
Uno smontaggio del teatro, della finzione teatrale.
Del “Gabbiano” di Cechov e del “Santa Govanna” al cinema di Dreyer. Delle tante
incongruenze e anche scemenze implicite nelle figurazioni, nei dialoghi, nelle
situazioni canoniche dei personaggi. Legato dal filo medianico di una nonna
defunta che tutta la vita volle essere attrice di teatro, benché star della radio,
e morì con qualche particina nelle filodrammatiche. Come a dire che teatro siamo
tutti noi, anche fuori della scena.
Una performance tenuta assieme, senza i
sussidi teatrali, scene, luci, costumi, trucchi, macchine, da due attori giovani,
Olga Mouak, franco-francese, e Arne De Tremerie, fiammingo. Lui più invadente,
agitato. Lei più padrona, sottotono, con monologhi da applauso. E più nel
ruolo, volendosi l’esperimento coinvolgente anche degli spettatori: al pubblico romano
offrendo appigli svelta, in una battuta –“si chiude tutto” (i centri sociali?
i teatri? non importa), “speriamo in CasaPound”, etc.. A loro sarebbe dovuta la
scelta del “Gabbiano” e di Giovanna d’Arco: la nonna di De Tremerie è morta quando
lui entrava alla scuola di teatro con un “pezzo” del “Gabbiano, Mouak è
cresciuta a Orléans, il luogo della Pulzella, e ha avuto una nonna in Camerun che
sentiva anche lei le voci, ed è morta bruciata. Ma questi pecedenti sono ininfluenti.
Un esperimento semplice, una “decostruzione”
derridiana, a suo modo memorabile. Se non che il pubblico, impreparato (o
troppo preparato, di addetti ai lavori, attenti ai meccanismi?), ha mostrato di seguire
con apprensione. In attesa dell’esito, di un esito, che invece era nella forma –
decostruzione non significa oggi più nulla, benché tardo novecentesca: il millennio
non ha memoria. E quindi ha fatto mancare la sponda necessaria all’esperimento,
la reattività, il ghigno, la risata, la protesta, il buu, l’applauso. Sordo
anche alle tante “arie”, pezzi di bravura, dei due artefici – specie a quelle,
gestite con piglio da primadonna benché sottovoce, sottotono, soave, di Olga Mouak.
Questa prima uscita dell’esperimento ha in Italia (la pièce
è stata ordinata per il festival di Avignone) lo svantaggio di rimandare alle
traduzioni in didascalia, su un pubblico franco-fiammingo potrebbe fare un ottimo
spettacolo comico.
Milo Rau, La lettre, Romaeuropa Festival, Teatro
Vascello
sabato 11 ottobre 2025
Cronache dell’altro mondo – di pace e bene (362)
L’approvazione del primo passo del piano di pace di Trump da parte di Israele
è ventuta per un imprevisto empito di commozione. Lo raccontano Isaac Stanley-Becker
e Vivian Salama sul sito dell’antitrumpiano “The Atlantic”:
“Prima che il governo israeliano approvasse la prima fase dell’accordo
di pace con Hamas orchestrato dagli emissari del presidente Trump, il ministro intransigente
Itamar Ben-Gvir aveva espresso la sua frustrazione. Solo il giorno prima aveva
guidato un gruppo di ebrei in preghiera sul Monte del Tempio, il luogo focale
di Gerusalemme che ospita anche la Moschea di Al Aqsa, e aveva invocato la «vittoria
totale» a Gaza….
“Alla riunione, su invito di Netanyahu, erano presenti sia Jared
Kushner, genero del presidente, sia Steve Witkoff, amico e inviato speciale di
Trump. Erano arrivati in Israele dall’estremità meridionale del Sinai, in
Egitto, dove mercoledì avevano elaborato un documento di una sola pagina che
sintetizzava i termini di un cessate il fuoco e di uno scambio di prigionieri,
che potesse soddisfare sia Israele che Hamas.
“Ben-Gvir si rivolse ai due americani e disse loro che non avrebbe mai
accettato un accordo… che libera detenuti palestinesi per atti di violenza
contro cittadini israeliani inermi, e potrebbe in seguito portare all’amnistia per
un gruppo terroristico responsabile dell’attacco più mortale nella storia del
Paese. Witkoff, un investitore immobiliare newyorkese scelto da Trump per
risolvere alcuni dei conflitti più complessi al mondo, rispose raccontando loro
di aver perdonato la famiglia dello spacciatore responsabile della vendita dell’OxyContin
che ha tolto la vita a suo figlio. L’inviato sembrava sull'orlo delle lacrime,
ci hanno riferito due persone a conoscenza della conversazione. Ben-Gvir rimase
impassibile, affermando che la differenza era che Hamas non si era pentita.
Alla fine, il governo israeliano ha approvato le prime fasi del piano di
Trump: il ritiro delle Forze di Difesa Israeliane e la restituzione di tutti
gli ostaggi israeliani in cambio di prigionieri palestinesi.
Toni Morrison, che impose gli scrittori afro
Toni Morrison scriveva denso e impegnativo, ma agli autori
che curava come redattrice di Random House consigliava linguaggi semplici,
leggibili da un vasto pubblico: privilegiava gli aspetti commerciali,
specialmente nei debutti. Senza nulla togliere ai debuttanti “autori”, che
invece proteggeva in casa editrice con le direzioni commerciali – una lunga
lista di autori afroamericani affermati curati inizialmente e imposti da lei viene
fatta. Ma sì ai personaggi di cui curava, con insistenza, volte con insofferenza,
le autobiografie: Angela Davis, Muhammad Alì, Huey P. Newton. Invece proteggeva
i suoi scrittori, se neri e giovani, dalle strategie pubblicitarie e commerciali
della casa editrice.
Un lungo saggio, in forma di recensione di “Toni at
Random: The Iconic Writer’s Legendary Editorship”, la storia editoriale di T.
Morrison, di Dana A. Williams. Morrison lavorò alla Random House nei suoi
quarant’anni, per una dozzina d’anni, dal 1972 al 1983 (dieci anni prima del Nobel).
Unica redattrice afroamericana.
“Oggi conosciamo Morrison per la sua scrittura iconoclasta, che le valse
il Premio Nobel per la Letteratura nel 1993 e consolidò saldamente il suo posto
nel canone letterario americano. Tuttavia, Toni at Random sottolinea
il fatto che la scrittura di Morrison fu molto più di un risultato individuale.
Nel pieno del Black Arts Movement, Morrison fu una dei tanti scrittori che
ampliarono le possibilità di ciò che la letteratura nera poteva essere e fare.
Il suo più grande riconoscimento negli anni Settanta e Ottanta fu la sua
capacità di aprire le porte dell'accesso istituzionale alla comunità di
scrittori a cui apparteneva. La capacità di Morrison di pubblicare scritti neri
innovativi dipendeva dalla sua capacità di proporre i libri al caporedattore
della Random House, James Silberman, e poi di commercializzarli sia al pubblico
nero che a quello bianco”.
Un caso viene raccontato esemplare del modo di fare di
Morrison in casa editrice, e del suo successo.
“Forse la più riluttante a impegnarsi in pubblicità
per vendere i suoi libri fu Gayl Jones, che aveva solo 25 anni quando il suo
primo romanzo, Corregidora (1975), fu pubblicato con grande
successo di critica….. Nonostante (o forse proprio a causa) dell’estrema
timidezza di Jones, Morrison si impegnò ancora più duramente del solito per
ottenere blurbs da affermati scrittori neri – tra cui James Baldwin e
Alice Walker – e si unì a Jones per interviste a sostegno di lei”. Il rapporto
si dovette interrompere per le intromissioni dell’agente di Jones, “poi
diventato suo marito, Robert Higgins, che Morrison considerava instabile e
autoritario. Senza gli sforzi pubblicitari di Morrison, l’attenzione della
critica si spense e Jones cessò di pubblicare per due decenni dopo il suicidio
del marito nel 1998. La pubblicazione del romanzo Palmares (2021),
iniziato sotto la direzione di Morrison alla fine degli anni ‘70, inaugurò una
recente rinascita nella sua carriera e un ritorno ai riconoscimenti ottenuti
con il suo primo romanzo”.
Marina Magloire, “To Free Someone Else”:
Toni Morrison the Book Editor, “The Nation” 7 ottobre (leggibile anche in
italiano)
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