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sabato 10 gennaio 2009

Letture - 4

letterautore

Arbasino - È il letterato più impegnato, per tutti i cinquant’anni di attività. Più di Pasolini, per dire. Nei viaggi e le scoperte. Nei racconti, nei romanzi, con i “Fratelli d’Italia” rifatto tre volte.
Spartisce il destino d’insoddisfazione dei profeti, anche se l’accostamento lo sorprenderà spiacevolmente: la passione soverchia in lui l’ironia, di molto, e la compassione. Ma è un turbamento condividibile, per quanto egli si voglia snob e solo. E la vertigine è in realtà comune, anche se non altrettanto acuta: quella di vivere tempi mediocri (mediocri? ma si vede, nella politica, ormai da troppo tempo, nella vita urbana, in società). Arbasino ha la hântise di Bouvard e Pécuchet, e tuttavia quella sindrome è comune agli intellettuali migliori, cioè sufficientemente colti e onesti – come Emma Bovary, anche le due messe maniche sono Flaubert.
È contenutista. Bizzarramente, fortemente ancorato alle cose, anche letterarie, e agli elenchi delle cose, cioè ai loro titoli, e quindi agli aspetti meno connotativi. Un instancabile repertoriatore. Per l’ansia di quale mancanza? È uno scrittore espressivo dello sguardo, il solo italiano che non nasconde di vedere tutto, anche l’ordinario e il basso, e i loro insapori linguaggi, per qua nto lutulenti. Ne propone gargantuesche degustazioni, della civiltà materiale e degli insapori linguaggi, mutuandone (mimandone) la mutevolezza, la ripetitività. Potrebbe essere Rabelais, ma c’è passione in lui, risentimento, sdegno, la pirotecnica è pensosa, lo sberleffo non lo appaga, e gioca contro. Né si è ancora capito cosa indigna Arbasino, e di più gli amici, o frequentatori, del medesimo, a volte sembrano i sassi che gli stessi sollevano.
Tutto pure vi è curato, preciso, completo. Ma è la memoria che alimenta i suoi elenchi, le stesse descrizioni, per la prepotenza della cultura. È memorialista: i racconti, “Fratelli d’Italia”, i libri politici, “Paesaggi italiani”. Ne ha la solitudine – nella socievolezza estrema, ostentata, e il disamore. Ma non la cattiveria. Arbasino è allora il memorialista che si rifiuta? Che vorrebbe ancora ballare ma non può, va a memoria. Oppure non quadra per non essere reazionario – il Grande Memorialista è per definizione misologo. Si sente anzi, in quella sua concitazione, caring. Da qui l’irresolutezza, lo spillare e germogliare continuo, talvolta perfino fastidiosamente interrogativo: per soffocamento da indignazione, o da incredulità (l'Incantato del presepio). Anche dove vorrebbe colpire, l’irenismo (la pavidità?) riemerge. E la frivolezza che mette avanti fiisce per ricoprirlo – Mario Luzi in Cina non ne ebbe buona impressione, al punto da scriverci un libretto contro.

Esclusi e marginali - Stare nel partito Comunista “rappresentava una garanzia di potere, sopratutto intellettuale”. Non è stato ipocrita Cesare Cases, interrogato per i suoi ottantanni da Antonio Gnoli su “Repubblica” (30 gennaio 2000). Studiava in Germania orientale nel 1956, “e assistetti a tutto”, dice: “L'ultima cosa che vidi come testimone fu la seduta del partito (Comunista) in cui si scomunicò Ernst Bloch”. Si poteva scomunicare un Ernst Bloch.
Cases rimase iscritto al partito Comunista fino al 1959, “poi ne uscii”. Ma non se ne allontanò. Non si può farne una colpa allo spiritoso Cases. Ma la fedeltà si nutriva di ostracismi. Alcuni:
Carlo Coccioli
Curzio Malaparte
Dino Buzzati
Mario Soldati
Salvatore Satta
Guido Morselli
Aldo Palazzeschi
Primo Levi, uno dei capisaldi del secondo Novecento
Giovanni Arpino
Carlo Cassola, che ne soffrì molto
Vitaliano Brancati
Paolo Monelli
Guido Piovene
Ercole Patti
perfino Landolfi
e lo stesso Arbasino.
Espunti dagli studi e le critiche, e dalle biblioteche, specie dalle comunali, dove si fanno il vero prestito e la lettura. Espunti o in castigo nei cataloghi e nellelibrerie. Grazie alle case editrici di Partito, di proprietà o in graziosa gestione, Milano sempre fiuta il vento, i critici di Partito, gli intellettuali. Perfino i classici e gli autori di lontano si valutavano, e si valutano, sulla base del centralismo democratico, le direttive del Capo: tutti insieme a esecrare Céline, oppure ad annetterselo, idem per Pound o Carl Schmitt, o Tasso, o Petrarca.
Poche le persone libere e non censurate, Debenedetti (che però non poté avere la cattedra, e fu precario per una vita), Contini (che però ha fatto tanti danni, dal Dante pietroso a Pasolini sopravvalutato).

Plurilinguismo – È sempre insidioso: gli accenti, le torniture, le cadenze, l’appropriatezza, il contesto. Anche quando l’uso si certifica filologicamente, come Pasolini usava – alla sua maniera, di maestro elementare con consulente di borgata. Eccetto che a fini sperimentali o parodistici, abbiamo una sola lingua. Che è quella della “Commedia” più che del “Canzoniere”: la lingua si vuole ardita e mobile.
La lingua va nel contesto del testo, essendo la cifra della esposizione. La lingua va nel contesto della lingua. Gadda, per esempio, quando fa parlare i milanesi. L’equivoco nasce con Manzoni, che i lombardi fa parlare toscano. Ma quella è un’operazione politica. Di alta, forse, politica. Con l’applicazione di uomo del dovere, se non di studioso.
La Svizzera mistilingue, a lungo obbligata a parlare le lingue degli altri, ne è subito uscita appena ha potuto adottare l’inglese come lingua comune. Il negoziante tedesco a Zurigo o a Davos non si obbliga a imparare l’italiano e il francese ma opta per l’inglese: la lingua è una cosa, la comunicazione un’altra.

Sciascia - È ottimo scrittore, persuasivo. Ma usa in maniera errata la chiave del “diverso”, del “noi e loro”, e più per la sua sensibilità politica e l’abilità retorica. Questo nei tre quarti della sua opera, quella dichiaratamente politica. Tutto è negativo nella visione che egli ha della sicilianità, e questo non è possibile. Fa eccezione per la vecchia mafia, il vecchio fascismo, e magari le vecchie zolfare, e questo è ancora peggio.
L’eccessiva dilatazione del conclamato pessimismo è confermata e conformata dalla chiave positiva che egli sempre usa per le realtà a confronto, Milano o Parigi o la Spagna. Contraddicendo la presunta caratterialità del pessimismo, e tanto più per il razionalismo residuale, al modo del Pascal della scommessa. È un colonizzato o un assimilato. Ottimo scrittore, ma uno che introietta gioiosamente la propria “dipendenza”, la rinuncia cioè al diverso, a una parte cospicua di se stesso.

Contestando Manlio Sgalambro, che aveva dato l’“addio” a Sciascia (“Corriere della sera” dell’11 febbraio 2005), Manuel Vàsquez Montalbàn dà la vera ragione del “difetto” di Sciascia, alla passione civile di aver dato un ruolo monopolistico, riducendola peraltro alla mafia (“la Sicilia come metafora”). “In un mondo in cui tutto cospira per farci accettare una verità unica”, scrive Vàsquez Montalbàn, “un mercato unico e un esercito unico, la copertura ideologica che si sta costruendo al servizio di questa congiura è fatta su misura per la capacità di analisi e di smascheramento di Leonardo Sciascia”. È invece il contrario: è parte di essa. Se non della congiura, del servizio della congiura.
La capacità di rifiuto si esclude nel momento in cui si combatte sul terreno dell’avversario, anche se non si aderisce alla sua ideologia, e per quanto vivacemente la si contrasti. Si dice no al pensiero unico, al mercato, all’economicismo, pensando, vivendo e proponendo una realtà altra. Altrimenti se ne è complici, per quanto critici, poiché si opera, o si pensa, all’interno del suo linguaggio, e quindi del suo sistema di giudizio. La mafia che diventa la Sicilia, e la Sicilia che diventa l’Italia e il mondo, sono parte integrante della cospirazione: hanno la funzione di demoralizzare chi (i più, la quasi totalità) ne è fuori e vive o vorrebbe vivere un’altra vita. Il monopolismo dell’antimafia fa parte della mafia, si reggono a vicenda.

Luigi Malerba insiste, sul “Corriere della sera” del 31 maggio 2005, che Sciascia ha fatto solo un piacere ai mafiosi, che lo leggeranno, dice, con diletto. Malerba sbaglia, i mafiosi non leggono, ma è Sciascia che gli ha dato questa idea – Malerba, parmigiano di Orvieto, può non sapere che la mafia è ignorante e anzi analfabeta. Ma è Sciascia l’Autore della Mafia, il suo creatore: questo vedere mafia dappertutto da una parte, e dall’altra la sua ipostatizzazione-intronizzazione, nei saggi più che nei racconti (dove invece la Sicilia è diversa, come è).

Sciascia ha una componente forte – nei saggi e anche nei romanzi – di teismo, o spiritualismo, esoterico. Non alla maniera dei fratelli Piccolo, che si può ridurre a mania senile o esoterica, di cui sorridere con divertimento, come faceva il loro cugino Giuseppe Tomasi, ma nel senso proprio, massonico. Si vede nella propensione a rivoltare la storia, al misterico, al complottistico, e finisce nella magnificazione della mafia – viene sovrapposta alla Sicilia come un macigno una manica di brutti ceffi - e in alcuni riferimenti simbolici. È un laicismo sterile, col culto ridicolo del “com’eravamo”, che è un passato più spesso abominevole.
Sterile è il laicismo nell’isola perché massonico: la chiave è sempre quel riempirsi la bocca della Riforma, che l’Italia non avrebbe fatto. È uno spiritualismo sterile ai fini pedagogici e democratici: inevitabile sconfina nella misantropia, che oggi denomina società civile, il disprezzo del volgo, e si chiude nel vecchio notabilato, che in regime democratico non è più produttivo. Ci sono in letteratura più Sicilie, quella della prima lirica italiana, quella del popolo di Guastella e Buttitta, quella di Tomasi di Lampedusa, Vittorini, Brancati, Verga e il primo Pirandello, e c’è quest’altra, che per essere “francese” e “rivoluzionaria” è – si potrebbe dire alla Sciascia - ineffettuale.

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