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lunedì 23 novembre 2009

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (48)

Giuseppe Leuzzi

Napoli
Napoli, il Merditerraneo di Mozart. Avrebbe potuto essere una capitale della cultura, chissà della musica, ancora adesso in Cina e Giappone si commuovono alle romanze napoletane, ma le piace farla in pubblico. Di sotto e di sopra, guaisce e lacrima come piscia.

Nel 1820, dice Stendhal nella “Vita di Rossini”, per procurare una vera gioia agli abitanti di Napoli, non è tanto la costituzione di Spagna che si dovrebbe dargli quanto togliergli d’attorno la signorina Colbrand. Non è snobismo: la futura signora Rossini, ormai in perdita di voce ma stabilmente primadonna al San Carlo, era un vero tormento per i napoletani.
Che forse sono superficiali, ma non sono mutati.

Sicilia
Nel racconto “Filologia” (ne “Il mare colore del vino”), Sciascia fa dire al mafioso intelligente - curiosa personificazione un mafioso, seppure colto, per l’autore. “Questa è una terra… in cui nella stessa faccia… un occhio odia l’altro occhio”.
Non è sbagliato. Ma giusto se gli Sciascia sono coinvolti, i siciliani spregiatori della Sicilia. Non odiatori forse, ma capaci per una battuta di dire puttana la propria madre. La lezione del”Gattopardo” è esemplare a questo proposito: non è un principe decaduto e un memorialista disincantato, incapace, cinico, nulla di parodistico nella sua filosofia della storia, è la verità incontestata, che si narra come tale e anzi si celebra ed è celebrata. È Epimenide cretese che si diverte a sostenere come tutti i cretesi sono bugiardi.

Nel primo anno di applicazione della legge Cossiga sui pentiti e sul fermo di polizia (il decreto legge 15 dicembre 1979, convertito in legge il 6 febbraio 1980), ci fu un solo fermo a Palermo, contro 115 a Brescia – Palermo era città di 650 mila abitanti, Brescia di 190 mila.

“Muto e silenzioso\il cuor mio si rinvigorì”, è il motto del paese di Sciascia, Racalmuto. È virtù romana ma potrebbe essere il motto della mafia. Nel 1979, quando Sciascia si candidò alla Camera, a Racalmuto raccolte 636 voti, su oltre seimila votanti.

Si sono fatte nell’antichità numerose rivolte di schiavi in Sicilia. Ma perché l’isola era piena di schiavi.

È il sicilianissimo Empedocle a spiegare che il falso è straordinariamente congiunto al vero.

Nella “Guerra del Peloponneso” Alcibiade spiega agli ateniesi perché la Sicilia non è “una grande potenza”: non ha “il culto della patria”, è un miscuglio di varie razze, è facile per loro cambiare cittadinanza. Oggi si direbbe: non ha identità. Ma non senza conseguenze, dice sempre Tucidide-Alcibiade: “Ognuno si preoccupa di procurarsi a spese dell’erario, o con la facondia, o con la politica, ciò che ritiene sufficiente per poter, in caso d’insuccesso, garantirsi comunque un futuro. Né c’è da pensare che questa accozzaglia si metta insieme sotto un capo, con unità di intenti. Ben presto si allineeranno con noi”, con i vincitori.
E tuttavia la Sicilia, più di Sparta, fiaccò Atene. Tucidide è ateniese perfido e può aver esagerato, ma non inventato: la spedizione contro la Sicilia, scrive, “rimase famosa non meno per la meravigliosa baldanza dei suoi componenti e lo splendido spettacolo offerto, che per la superiorità d’armamento su nemici che si accingevano ad attaccare”.

Quella fu l’ultima vittoria dei siciliani, 2.400 anni fa dunque. Anche con argomenti speciali: Segesta si propose di confondere gli osservatori ateniesi sfoggiando grandi ricchezze, e ci riuscì. Banchetti a ripetizione dove le stoviglie si moltiplicano girando, e lo sterminato tesoro di Afrodite Ericina, di poco valore ma molto luccicante.

Che la Sicilia sia sottosviluppata è stupefacente. Ha probabilmente la più alta concentrazione al mondo di beni culturali, la più diversificata, la meglio intrattenuta. È stata regno e vice-regno, e ha una “classe dirigente” – che negli anni 1950-60 era anche probabilmente la più cosmopolita d’Italia, anzi la sola. Ha avuto un’agricoltura europea, di grano, agrumi e vini, ben prima delle riforme di Cavour in Piemonte, e ce l’ha tuttora, con l’aggiunta degli ortaggi e delle primizie, nella zona – Vittoria-Comiso - forse più desertica d’Italia. È vero che la parte pubblica è dolente e in regresso: sanità, scuola, giustizia. È questo il punto debole dell’Italia, specialmente nel Sud - in Sicilia è attenuato localmente, per i beni culturali, superprotetti e superaccuditi, e la sanità. Il ritardo è dovuto proprio a quella parte pubblica che, in teoria, nella Repubblica, ha fatto del Sud il suo punto di riferimento politico.

Il discredito della Sicilia è applicazione costante dei siciliani, anche dei sicilianisti. Si parla di abusivismo edilizio? Il siciliano non porterà mai ad esempio Genova ma Agrigento. Di abusivismo che deturpa le coste? Il siciliano non porterà mai ad esempio Santa Margherita Ligure ma Cefalù, che è invece un gioiello. Di abusivismo contro i beni culturali? Di nuovo Agrigento, la cui zona archeologica è la meglio preservata al mondo, e non Aquileia. Di autostrade che deturpano l’ambiente? Di nuovo i due o tre viadotti delle due o tre, brevi, autostrade siciliane. Magari solo per voglia di protagonismo.

leuzzi@antiit.eu

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