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giovedì 26 novembre 2009

Bersani e il Pd di Berlinguer, 1975-2008

Ha cercato il low profile, Bersani, nella nuova squadra dirigente del Pd, e una partenza lenta, che se non altro mantiene vivo l’auspicio. L’auspicio è che Bersani si lasci dietro in questo 2009, seppure dopo una strascicata elezione, gli oltre trent’anni di compromesso storico, che hanno portato sotto il trenta per cento una sinistra che è sempre stata in Italia maggioritaria. Ma ci sono già segnali negativi.
Il primo è sempre l’ipotesi di base del mancato decollo del partito Democratico. L’ipotesi è che esso non “morda” perché è la riedizione del compromesso storico. Limitato e minoritario, e shrinking, ma sempre esclusivo: una dottrina del potere. A partire dal centralismo democratico di quello che pure sembrava il meno berlingueriano dei continuatori, Veltroni. Durissimo peraltro e perfino fazioso nella gestione del collateralismo, Rai, giornali, giustizia, Cgil.
Le analisi dei flussi alle passate elezioni concordano, e tra essi spicca l’Istituto Cattaneo già di Arturo Parisi: che il Pd ha ricompattato nel momento elettorale il voto ex Pci, ma non ha catturato le classi di voto nuove e ha perduto buon parte dei voti ex democristiani. L’insuccesso del Pd viene confrontato peraltro col successo di un fronte che non brilla per iniziativa e compattezza. Nel quale la Lega, reduce dalla caduta verticale di consensi nel 2001, quando fu salvata in Parlamento dall’apparentamento con Forza Italia e An, fa figura di gigante politico, come antiglobal e antimmigrati. Ma sempre amorfo nella forza di maggioranza, l’ex F.I., e inerte nell’ex An, partito di signorini che non hanno idee né più radicamento, avendo abbandonato la componente mussoliniana per un liberalismo dubbio, o l’andreottismo.
Altri segnali negativi vengono per Bersani dai flussi regionali di voto alle primarie, in percentuale di partecipanti rispetto ai votanti delle politiche 2008. Nelle sei regioni del Nord ha partecipato meno del 5 per cento. Un risultato pareggiato dalle regioni meridionali già “bianche”, e quindi berlusconiane, Sicilia, Abruzzi e la stessa Puglia, dove per più segnali Vendola è stato un miracolo. Il Pd quindi non incide ancora nelle aree che fondano il centro-destra.
Segnali negativi – negativi per Bersani – vengono però anche dalla regioni “democratiche”. Al centro la partecipazione è stata elevata nelle regioni ex Pci, Toscana (9,6), Umbria (10,9), Emilia Romagna (11,6). Ma è stata mediocre nelle regioni miste, bianco-rosse, attorno al 7 per cento: Liguria, Marche, Lazio, Campania, Molise: significa che gli ex compagni non amano gli ex amici, e i due gruppi stanno a guardare. Ed è stata elevata nelle regioni a prevalenza ex Dc, Calabria (9,1), Basilicata (13,3), e Sardegna (7,7). Bersani avrà problemi a compattare unitariamente il partito, e a mobilitarlo.
È una veduta malinconica che il neo segretario del Pd presenta, indipendentemente dalla sua faccia bonaria. È l’unica vera figura politica nel teatrino impiantato da Mani Pulite. Tra Berlusconi che ogni giorno s’inventa, seppure con i canoni noti della commedia dell’arte, la sua speculare opposizione, la nota macchietta molisana, Casini che raccoglie i voti di Cuffaro, Rutelli ex bello guaglione, gli orfani ormai invecchiati di Berlinguer, e alcune dolenti donne di chiesa sopravvissute all’aggiornamento delle sacrestie. Più che a una rifondazione del Pd dovrebbe mettere mano a una rifondazione della politica, e questo certo è pretendere troppo. Essere nato, nato alla politica, nel triste monopolio milanese della politica post-1992 (leghista, berlusconiano, morattiano), è un destino che richiederebbe una rivoluzione.

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