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venerdì 20 marzo 2009

Un secolo di critici senza autori

spock 

Il caso letterario della critica letteraria in questi anni Duemila, che stanno ormai per entrare nel secondo decale, riguarda dunque Asor Rosa, un altro critico, peraltro dell’Ottocento. Di questo caso non si può farne colpa ai critici, è Einaudi che ripropone Asor Rosa in ben tre volumi, con un titolo di fantasia, “Storia europea della letteratura italiana”. Nella quale peraltro mancano gli scrittori italiani più europei, a parte Pirandello: Papini, Malaparte, Silone, Marinetti e compagni, Alvaro - che vi ricorre in mezza pagina come “popolare e provinciale”, mentre Malaparte è solo nazionalista e fascista. Oltre ai critici, tutti notevolissimi, con l’eccezione di De Sanctis. Ma per il resto è paradigmatico - dello spettegüless, che altro? Mentre gli editori concorrenti pubblicano come nuovo Harold Bloom, di trent’anni fa, e ancora i grandi novecentisti, Steiner, Citati, Magris, Pedullà, Garboli. Il fatto è che il secolo che si voleva tanto breve non si è ancora concluso: il Novecento è invadente. O solo persistente, in mancanza di meglio, eco di echi, nostalgia. E si è chiuso tra le maledizioni: vent’anni fa, nel 1992, Asor Rosa decretava la fine della letteratura italiana. Nel 1993 Walter Pedullà decretava la fine dell’ironia – di chi? Un decimo del nuovo millennio è così passato e non se ne vede traccia, neppure in traduzione. Anche se non si è mai letto tanto come in questi giorni. E roba letteraria, non usa e getta, o almeno presentata con sfoggio di critica. Se non è proprio questo il problema. Di notevole resterà in questa prima parte del millennio la creazione del blockbuster. Non un libro di autore ma un fatto di genere, del tutto industriale. Non speciale, ma impilato come i cubetti del lego, e venduto subito, in due settimane, a milioni. Anche se lo schema è trito (blockbuster, spiega Wikipedia, è termine usato dal 1975 per i film a immediato grande successo, quale fu in quell'anno "lo Squalo"), e tutto basato sul marketing: l’arruolamento di un critico, la prevendita in massa alle catene librarie, gli echi di stampa, l’appiglio della cronaca. E il presupposto che nessuno legga il libro - se qualcuno, avendolo letto, lo critica, si fa capire che è invidioso, o rincoglionito. Vita intensa dei libri: la poetica del blockbuster Non è una cattiva novità. L'editore studia il mercato, inventa la clientela, impone il prodotto – si fanno investimenti nella promozione dei libri che a volte eguagliano quelle dei film. Le librerie sono affollate come i supermercati. I libri si vendono a milioni - anche se non è possibile, non è vero, che tutti abbiamo a casa Faletti, Ammanniti, Brown, Saviano, e un Camilleri al mese. Il mass market non è male, uno, neppure se critico, non saprebbe dolersene. Se non che, come si sa, ogni volta la cattiva moneta scaccia la buona. I libri vanno di fretta. Muoiono quindici giorni dopo essere nati, devono avere vita intensa, e dunque si anticipano, si illustrano, con foto anche arrapanti e comunque d’autore, si magnificano, si estraggono, si classificano, anche in cinque e sei modi diversi, occupando tutte le piazze Internet del momento, con chat, forum, premesse e promesse strabilianti, lungamente si intervistano gli autori, se ne celebrano le feste, le fiere, i festival, le rassegne e i premi, e si danno per letti. Il genere intervista è specialmente esilarante, di solito scritta da appositi uffici, in genere a sconosciuti, che non hanno nulla da dire, se non parlare di se stessi, della nonna, del papà, del gatto, e quasi sempre brutti, malgrado le pose lusinghiere e i tagli di luce, né spiritosi o ispiranti, per libri che non verranno letti, dell’Irlanda o del New Hampshire, su una pagina intera e perfino due pagine di giornale, anche più di una volta a settimana, un confessore inorridirebbe. Tutto vi è eccezionale, ma in questo senso: tradurre, stampare e vendere, in un caso anche tremila pagine, in milioni di copie, subito, prima che se ne accorgano, l'impegno dev’essere enorme. Cui la critica non si sottrae. L’ultimo romanzo Garzanti, quello di Andrea Vitali, ha avuto in cadenza prima dell’uscita una serie di recensioni mozzafiato: «Giù il cappello! È il miglior Vitali della nostra vita», Antonio D'Orrico, con link pdf; «I romanzi di Vitali sembrano scritti per un lettore che cede al solo ed esclusivo piacere della lettura», Antonio Gnoli, «la Repubblica»; «Andrea Vitali, giostraio esimio di robe, animali, atmosfere», Bruno Quaranta, «ttL – La Stampa». Roba da Guinness dei primati, o da storia della letteratura? Questi promo, infatti, sono utilizzati usualmente, Vitali non c’entra, in forma di pubblicità ma anche di recensione. E la recensione, spiega Massimo Onofri che ne è il teorico (da ultimo in “Recensire. Istruzioni per l’uso”, Donzelli, pp. 152, € 15), “rivela, in profondità, la verità dell'atto critico in quanto tale”. Il mercato librario è insomma la critica. Che si può dire anche così: non c’è il Libro, e non c’è l’Autore, ma c’è la critica. La morte dell’autore Com’è allora che la critica non c’è, o si lamenta? Berardinelli, scrivendo male sul “Sole 24 Ore” di Asor Rosa e della sua “Storia europea”, ricorda che “De Sanctis aveva (e stimava) Foscolo, Manzoni, Mazzini, Leopardi, Hegel, Byron”. Niente di simile per il De Sanctis di oggi, che quindi non ci può essere. Bisogna andare indietro di sessant’anni per avere un Pasolini poeta felibrista scoperto, mentre l’Italia perdeva rovinosamente la guerra, da Contini. Di cinquanta per avere Pasolini romanziere scoperto da De Robertis. E del resto sono già quarant’anni che Barthes scrisse il piccolo saggio “La morte dell’Autore”, su cui si fonda – si fondava già prima che Barthes lo dicesse – la semiologia. Come dire che possiamo considerare Eco morto, se non Barthes stesso, grande autore. Muoiono in tanti dopo Nietzsche e Dio. L’autore, il romanzo più volte, e la letteratura, che la scrittura sostituisce, cioè la critica. Ma di che? Nonché il testo, lo stile, una storia, un personaggio, che incida e si ricordi, non c’è l’autore. Non c’è insomma materia per i contemporaneisti, ecco che. Se non, ancora, il Novecento. Quando già un decimo del nuovo secolo è trascorso senza traccia. Senza contare che il Novecento s’è fermato al 1980 o poco più – al primo Tondelli, all’ultimo Tabucchi prima che entrasse nella clandestinità antiberlusconiana. Ci sono molti libri finalmente nei giornali, anche nei supplementi pubblicitari, ma non ci sono autori o libri per i critici. La morte dell’autore, annunciata da Barthes, Foucault e altri cloni, si realizza per partenogenesi, il morto si moltiplica. Per frammentazione: come un vaso di coccio, l’autore è andato in frantumi, e in ogni coccio pretende di ritrovarsi. Mentre ce ne vorrebbe uno, ce ne vorrebbero un paio, che raccordassero la critica con il mercato, la letteratura con i reality. Un arcangelo che innamori di sé la madre, e se la faccia, banghizzi (banging) il figlio, sodomizzi il padre, peraltro cancerizzato terminale, squarti la figlia… Che è storia nota, il vecchio”Teorema” che Pasolini non ardì scrivere, se non sottotraccia al film. Bisognerebbe osare. Ma, certo, sapendo che non c’è autore senza il suo critico, c’è da chiedersi: e se non ci fossero critici? Si rischia di oltraggiare il nulla. La critica soprammobile Nelle pagine culturali dei giornali, tutte ora molto leggibili, dopo quasi mezzo secolo di “storie dell’antico Egitto”, l’eterno cocktail di fantasia, esoterismo, religione, storia, seguita alla crisi della Terza Pagina, non c’è peraltro posto per la recensione critica. Di cui forse per questo Onofri, uno dei “giovani” critici in cerca d’autore, fa la teoria e l’esemplificazione, una sorta di epicedio. Presentazioni, anticipazioni, estratti, interviste, testimonianze fanno il libro, la critica è quasi assente, e se è presente è d’uso, confinata allo strillo, la frase fulminante, con valore esornativo, come un bel soprammobile. Si dice: i giornali devono venire incontro ai lettori, sono lo specchio di ciò che avviene. Per ciò che avviene intendendosi pure le parole. Con il sottinteso, essendo gli editori che fanno le parole, che se un editore avesse dieci autori, o anche uno solo, che si segnalasse per le parole che scrive, quale letterato, i giornali ne parlerebbero. Ma un editore questo autore non solo non ce l’ha, non lo può avere, cioè non lo vuole. L’editore vuole tirature minime di ventimila copie, più le traduzioni obbligate (i diritti di un best-seller comportano altre traduzioni, quelli di un blockbuster pacchetti di diritti) e si occupa di marketing: buone confezioni, buone presentazioni, anticipazioni, promo, e un uso anche ingegnoso degli incentivi alle vendite (concorsi a premi, sconti a termine, buoni sconto, vendite in blocco). Il critico può farne parte, per prefazioni, anticipazioni, presentazioni, con premi e regali, non manca il rispetto anche in questa editoria: il best-seller si adrona ancora del dittico ditirambico di un critico - viene dopo la presentazione ai librai e una settimana prima dell’uscita del libro. Ma niente di memorabile, degli ultimi venti anni, anche trenta, niente resta. “Il nuovo, in letteratura, è dietro di noi”, dice Ficara tranquillo: è il Novecento, arato. Il tema si può esporre così: Garboli nel 1969 elogia Soldati e Maigret, e critica Pasolini dantista, Ficara quarant’anni dopo se ne fa meraviglia. Non si sa, cioè, se con l’autore non è scomparso anche il critico – l’autore è il suo critico, come si sa. La letteratura non avendo più posto nel mercato, il mercato?, argomenta Onofri, “i critici, che preoccupano e interessano sempre meno i potenti di turno, sono forse più liberi, non hanno più niente da perdere”. La felicità è dunque nella tebaide. Inviandosi magari insulti e anatemi da una grotta all’altra. Forse il Duemila non si può scrivere. Non per la morte della letteratura, che essendo viva altrove è ben viva ovunque, ma per la mancanza di pezze d’appoggio, nell’affarismo di poca sostanza che ha invaso l’esistenza, e della società dei belli-e-buoni più che delle masse e del popolo populista. Ma ci può essere un secolo non secolo? O non è questo materia di critica? In Francia, direbbe Berardinelli, quando con Bonaparte finirono le residue illusioni, vennero Stendhal, Balzac eccetera. Nel 2008 si è ripubblicato “Il Canone” di Bloom, mentre Steiner, Citati, Magris, Pedullà hanno raccolto le letture di una vita e il loro Novecento, e perfino le scritture non scritte. Tutti libri sul piacere del testo, con la critica della critica in filigrana. Mentre la giovane critica si attarda, senza oggetto, sulle metodologie e sugli altri critici – per il gusto dominante dello Streit, la polemica. Vivace certo, giornalistica. Ma che cos’è il gusto dominante, di chi, chi domina e perché? Non si può dire che la professione sia sparita, o sia finita in un gulag o al giardino zologico, i critici sono sempre numerosi e militanti, anzi, anch’essi, non sono mai stati tanti e tanto agguerriti, ma confinati alle accademie, dove parlano di Calvino, e si parlano tra di loro, dottamente. Anche se non in modo diretto, per echi e rimandi: Cordelli parla di Ficara, che parla di Berardinelli, che parla di Cesare Garboli. E questo è il modello Internet, il brusio di Internet, i critici giovani sono aggiornati. Ma, poi, il pattern del mercato librario, o della critica che dir si voglia, è palese e modesto: nessuna scoperta, nessuna proposta, nessuna vera lettura se non obbligata. Niente antologie, preferenze, scelte, decisioni, non c’è più l’autonomia del critico – il critico autonomo, che orienta le scelte, invece di recepirle. L’ambizione del critico è il posto all’università, sempre per il Novecento, e una rubrica giornalistica – la finestra. E i giornali lavorano con gli editori, che forniscono storie e personaggi già fatti (letti, biografati, fotografati, intervistati). Il massimo, come si dice a Roma, è il critico che si accapiglia con un autore, o viceversa, magari sullo stesso giornale di cui entrambi siano vedettes, insomma il reality della letteratura - ancora si ricorda il celebre Streit su “Repubblica” tra Baricco e Citati, autore e (non)critico, la baruffa tra le prime donne del giornale. La critica mercato Questa critica che è mercato sembra una limitazione ma è un’opportunità. Come no? Come i terremoti, lo tsunami, la peste, e ogni altra tabula rasa. Per non dire che consente ottima ermeneutica gramsciana, là dove, in “Letteratura e vita nazionale”, il quesito è posto: “Forse si potrebbe provare che la grande massa della paccottiglia letteraria è dovuta ai burocrati”, aziendali? Dopo l’autore, un Barthes di oggi potrebbe agevolmente censire la morte del critico. Dei tre novecentisti emeriti che hanno segnato il 2008 con le loro raccolte, due, Citati e Magris, coltivano ancora il protagonismo, l’Autore, Pedullà le riviste, “L’Illumista” e “Il Caffè letterario” dopo “Il cavallo di Troia”, anche se senza gruppi di sostegno e senza poetiche. I giovani critici non coltivano niente, se non le reciproche diatribe. Che fanno “pubblicazione” per contemporaneistica. La quale è, anch’essa, in via di sparizione – è materia d’esame fondamentale ma senza peso specifico. Il “Washington Post” del resto non ha chiuso il supplemento libri – continuerà, ma solo su Internet? E il concorrente “New York Times”, nel darne maligno la notizia, non ha commentato: “Un altro segno del fatto che la critica letteraria sta perdendo terreno”? Si sa come vanno le cose, quello che succede oggi in America è il nostro futuro. E dunque sta per diventare la letteratura un cimitero, tutti morti. Le ombre già si vedono, tra l’aria che ci manca per l’ozono o il riscaldamento globale e il sole sporco. Agguerriti, colti, occhiuti, una generazione o due di giovani critici di quaranta e cinquant’anni vaga nel vuoto pneumatico. Non in cerca d’autore, non c’è più il critico lettore di libri. Che comunque devono finire in quindici giorni. Resta un dubbio: se è vero che la critica letteraria l’ha inventata Aristofane, perché i critici non ritornano, in questa vacanza obbligata, all’origine? L’immortalità della letteratura è creazione recente, di Petrarca, anche se per questo ha avuto molteplice figliolanza. Senza contare che anche l’immortalità deperisce e muore. Non ci sono autori, ma nemmeno, a ben guardare, poetiche – il postmodenismo non vuole dire nulla. Ci sarebbero da catalogare l’editoria del best-seller, le librerie supermercato, i libri venduti a milioni, e i corsi di scrittura, che si vendono anche in edicola, a dispense e con dvd. Ma l’ottica dei nuovi critici è rimasta bloccata su quella dei maestri, come in un brutto sogno. Oppure: la novità non è il mercato, è un'altra. Un altro mondo Ci sono sempre stati gli autori di romanzi. Dei cormanzi che si leggono per passatempo, come le parole crociate. Che anno venduto moltissomo. Tutto in poche settimane. Anche perché erano autori da due e anche da tre romanzi l'anno: Guido Milanesi, Mario Mariani, Willy Diase altri, olotre i tanti in traduzione. Senza scandalo. Oggi sono molti di più perché si legge molto di più. La novità non è questa, è che oggi questi scrittori di romanzo sono tutto. Occupano le pagine della cultura, fanno serate ai Fori Imperiali, con band e fuochi d'artificio, vanno da Fazio, e sono le vedettes dei festival letterari, e dei premi. Cioè, nemmeno questa è una grande novità, in fondo ci sono stati i littori. La novità è che i critici non si ribellano, anzi solo di questo di occupano, anche loro. Oggi è curioso, ma ci fu un’epoca, cinquant’anni, quarant’anni fa, in cui il letterato era un ricercatore, senza scandalo, insaziato di esperimenti e scoperte, in Francia, in Germania, negli Usa, in Gran Bretagna, e perfino nell’Unione Sovietica e in Italia, in riviste, mostre, happening, manifestazioni pubbliche e libri, alla ricerca di nuovi moduli, linguaggi, significati. Si innovava ancora di più al cinema, arte popolare per eccellenza, se qualcuno si ricorda ancora i film di Godard, e i primi di Truffaut e Bertolucci. E non sembrano tempi remoti, sono proprio un altro mondo. 
Giorgio Ficara, Stile Novecento, Marsilio, pp 242, € 20 Filippo La Porta, Giuseppe Leonelli, Dizionario della critica militante. Letteratura e mondo contemporaneo, Bompiani, pp. 268, € 11 Massimo Onofri, Recensire. Istruzioni per l’uso, Donzelli, pp. 152, € 15 

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