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martedì 29 dicembre 2009

Il suicidio di Khamenei

Non è la fine degli ayatollah, ma di Khamenei sì. Non subito, ma inevitabilmente. Con inevitabile indebolimento dello stesso regime religioso, se non in favore di un’alternativa laica che non esiste, la nuova borghesia essendo legata alla moschea. Ci sono delle costanti, nelle società consolidate e integrate, qual è quella iraniana, e l’uso perdente della forza è una di esse. Le morti di Teheran riaprono la spirale, con la serie di lutti che il rito sciita prevede e prescrive, che agiteranno la piazza a tempo indeterminato.
L’opinione internazionale non ne sembra cosciente. Si fa anzi l’esempio della durezza costante del potere centrale nella storia dell’Iran. Fino ancora a Reza Khan, il padre dell’ultimo scià Mohammed Reza, deposto da Khomeini nel 1979. Ma tra il padre, morto nel 1944, e il figlio si era creato un abisso, con l’occupazione americana, ideologica se non militare: le masse urbane alfabetizzate del paese, che sono quelle che contano, sono definitivamente democratiche. Gli ayatollah lo sanno bene, che ne hanno fatto il loro punto di forza contro Mohammed Reza. E lo sapeva lo stesso scià, che però non ha avuto la forza di liberarsi del regime di corruzione che lo attorniava.
Di questo tuttavia sembra ben cosciente Obama: il dipartimento di Stato ha sempre avuto sull’Iran migliori informazioni e valutazioni di tutti gli altri centri diplomatici e mediatici. Khamenei del resto, facendo sparare sulla folla, ha manifestato la sua incapacità a reagire altrimenti. Potrebbe proprio essere un caso da manuale del brocardo notarile “il morto si prende il vivo”: morendo, l’ayatollah Montazeri, di cui Khamenei è stato per molti aspetti l’usurpatore, ne segna la fine. Minacciare di morte i suoi oppositori è solo un modo per accelerarla.

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