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venerdì 31 gennaio 2014

La fine delle cose e i limiti della ragione

“Perché gli uomini si aspettano in generale una fine del mondo? E, quand’anche si conceda loro questo, perché proprio una fine accompagnata (per la gran parte del genere umano) dal terrore?” Due problemini di Kant, non dei minori. Se la fine non ci fosse, sarebbe un dramma (teatro) senza senso. Il terrore che accompagna questa certezza viene dall’opinione che la storia sia essa stessa senza senso. Una conclusione che verrà ripresa da insigni ermeneuti letterari del Novecento – il curatore la rintraccia in Ricoeur, Northrop Frye, Kermode. Ma  necessita una spiegazione.
La fine è in tedesco “giovane”: der jüngste Tag è il giorno della morte, del Giudizio,  der jüngste Gericht il giudizio finale - il Giudizio Universale. Ma Kant non fa sconti. Si dice, per morire, “passare dal tempo all’eternità”. Non “un tempo che si protrae all’infinito”, nel qual caso “l’uomo non uscirebbe mai dal tempo”. Bensì “nel senso di una fine di ogni tempo, in cui, tuttavia, l’uomo continua a permanere”. Un limite – non un confine, un limite – “orribile” e “attraente”, “terrificante e sublime”: “Esso conduce sull’orlo di un abisso da cui non è possibile alcun ritorno per colui che vi precipitasse”, eppure “non si può smettere di volgere sempre nuovamente in quella direzione lo sguardo”.
Beninteso – e pascalianamente, anche se Kant non conosceva Pascal - “qui abbiamo a che fare (o ci trastulliamo) solo con idee che è la ragione stessa a produrre, i cui oggetti  (se esse ne hanno) trascendono del tutto l’orizzonte di ciò che possiamo vedere”. Non senza ragione, però: “Tali idee, per quanto eccedenti la conoscenza speculativa, non devono essere ritenute vuote da tutti i punti di vista, ma ci vengono messe a disposizione con un intento pratico dalla stessa ragione”.
Kant, insomma, si diverte, anche lui – il vecchio filosofo lo si vedrebbe figurare in un talk-show, anche meglio di Odifreddi.  Lo stesso Andrea Tagliapietra – lo studioso che cura l’edizione Bollati Borighieri, 2006, con generose coordinate, tematiche e autoriali, per inquadrare il breve testo e il suo problema.- vede nel saggio “un cenno d’ironia nei confronti della stultifera navis  degli apocalittici vecchi e nuovi, che invece, col loro tono da gran signori si prendono troppo sul serio”. Il “tono da signori” rimandando all’omonimo scritto di Kant contro i filosofi del suo tempo che indulgevano alla Schwärmerei, la trasognatezza-trasandatezza - un misto, spiega Tagliapietra, di fanatismo superstizioso”, “effervescente entusiasmo”, “furioso fantasticare”. Ma Kant  i fatti di religione tratta serio – al punto che questo scritto gli meriterà la censura del governo prussiano, come non in linea con l’ortodossia luterana.
La fine è sempre terribile. Si può anche sperare il contrario, avrebbe la stessa valenza logica. Ma “questa fede eroica nella virtù non sembra abbia ancora, soggettivamente, un influsso universalmente efficace sugli animi, in grado di convertirli, come ha, invece, quell’apparizione accompagnata dal terrore che si immagina precedere le ultime cose”. Sperare è difficile. Il cristianesimo Kant vuole rispettabile perché prospetta qualcosa di “amabile”. Per “il sentimento della libertà nella scelta dello scopo finale”. Il cristianesimo apportatore della libertà, dunque – l’Europa, la chiesa, i papi, i moderni, se lo sono dimenticati dai tempi di Erasmo e Lutero.
La riflessione è un tardo, aureo, commento all’“Apocalisse” di Giovanni evangelista. E una critica anticipata della modernità. Con una vertiginosa “sistemazione”, in mezza paginetta, meno, della mistica: “l’enormità espressa nel sistema di Lao Tze, per cui il sommo bene consisterebbe nel Nulla”, il panteismo, lo spinozismo, “sublimazione metafisica del panteismo”, e “l’antichissimo sistema dell’emanazione, che fa discendere tutte le anime umane dalla divinità (in cui, poi, esse verranno riassorbite)”. Il tutto in anticipazione “della pace eterna, in cui credono consista la fine beata di tutte le cose”. Mentre, in realtà, “l’intelletto li abbandona e finisce anche ogni pensiero”. Mistica essendo “la dimensione in cui la ragione non comprende più se stessa, né ciò che vuole ma preferisce vaneggiare”. Pur avendo piena coscienza, nel pieno del Settecento, dei limiti (limiti, non confini) della ragione: “La ragione, non contentandosi facilmente del proprio uso immanente, ossia pratico, ma osando volentieri avventurarsi un poco nel trascendente, ha anche i suoi misteri”.
Immanuel Kant (a cura e con un saggio di Andrea Tagliapietra), La fine di tutte le cose, Bollati Boringhieri, pp. 125 € 10

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