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mercoledì 26 novembre 2014

La strega di Wittgenstein

Nel 1948 C.S. Lewis, filosofo a Oxford, presidente del Socratic Club, lascia d’improvviso la filosofia e si butta nella fantasy, con le sette storie delle “Cronache di Narnia”, l’Harry Potter degli anni 1950, la prima delle quali intitola “Il leone, la strega e l’armadio”. Secondo il biografo di Lewis, Andrew Norman Wilson, l’abbandono e la fantasy oiginarono dalla sfida di Elizabeth Anscombe al suo impegnativo e meditato “Miracoli”, il trattatello anti-scientista: uno scontro da cui Lewis uscì come un bambino, a cui l’interlocutrice sarebbe apparsa come una strega, lui cinquantenne professore, lei ventottenne giovane promessa.
In realtà non è così. Lewis, grande amico di Tolkien, già si dilettava di fantasy. E di “Miracoli” aveva discusso, e in parte concordato, con l’altra sua grande amica Dorothy Sayers, coetanea e oxoniense, che era a sua volta giallista oltre che filosofa – autrice di un “The Mind of the Maker”, in cui il processo creativo suddivide in tre stadi: l’idea, l’energia (la carica creativa), e il potere (la capacità di modellare). Insomma, aveva pratica promiscua. Mentre Elizabeth Anscombe, benché giovane, bella e combattiva, non era una strega, ma un’argomentatrice fine. Delle sue osservazioni Lewis terrà conto rifacendo il capitolo incriminato: l’obiezione di Anscombe verteva sulla “determinazione del determinismo”, o della selezione naturale come processo formativo della mente (“Causalità e determinismo” sarà la sua lezione inaugurale a Cambridge nel 1971, che fece epoca) – le differenze si possono leggere in questo repertorio, Elisa Grimi accosta le due versioni in colonna.
Gertrude Elizabeth Margaret Anscombe, che sarà filosofa in cattedra a Oxford fino al 1969, per poi trasferirsi a Cambrige, aveva studiato a Cambridge con Wittgenstein. Allieva perspicace e applicata, ne era diventata confidente e sparring partner nelle sue solitarie riflessioni ad alta voce. Ma, se non strega, dragon lady senza inibizioni e senza complessi resterà per tutta la vita e ora nel ricordo. Gli annali privilegiandola come personaggio. Un assaggio: cattolica convertita, col marito anche lui filosofo, Peter Geach, col quale fece sette figli, in lite spesso con Graham Greene, altro convertito, cavallerizza, trekker fanatica e provetta scalatrice, fumatrice di sigaro, “bellissima voce”, costantemente in pantaloni fin dagli anni di studio, pratica allora scandalosa, di più a Oxford, allora bigotta, peraltro stinti e sformati, prima e radicale contestatrice dell’uso dell’atomica a Hiroshima, antiabortista agli arresti per manifestazione sediziosa. Per caso ma non per nulla nata a Limerick, l’anno dopo la fine della prima guerra. Professoressa e donna piena di allieve e allievi ammirati, e amiche e amici che, seppure filosofi, ne hanno immortalato l’aneddotica, soprattutto dopo la morte, a Cambridge, nel 2001. Elisa Grimi ne ha raccolto qui varie testimonianza. Smise di fumare in voto per la guarigione di un figlio molto malato, ma un anno dopo “si rese conto di avere promesso di smettere le sigarette ma non i sigari”, ricorda Jonathan Jacobs, “così cominciò a fumarli”. In un ristorante italiano elegante nei paesi baschi il cameriere le obietta che non può entrare in pantaloni, ricorda Alejandro Llano Cifuentes: “Se insisti me li tolgo”, ribatte lei.
Protagonista naturalmente di vasta aneddotica anche wittgensteiniana, ma non inutile. Dal “vecchio mio” con cui lui la interpellava, al celebre “grazie a Dio , ci siamo finalmente liberati delle donne”, a lei rivolto a un corso a cui altre donne non partecipavano. Iris Murdoch, altra allieva, si sa che rifiutò Wittgenstein, e forse già allora la stessa filosofia, dopo essere stata a lezione di lui “un paio di volte” – “una persona che mi agitava e mi intimoriva” (lasciò la filosofia dopo un notevolissimo studio di Sartre, della filosofia dei suoi racconti)..
Più robusta in realtà come filosofa, morale e logica. Una delle poche se non la sola che riuscì a navigare tra Cambridge (Wittgenstein) e Oxford. Coautrice, nelle edizioni inglesi di Wittegenstein, di quasi tutte le sue opere. Praticamente ignota nel continente, trascurata forse perché cattolica. E dai cattolici per voler essere aggiornati. O confinata all’agiografia, quasi di sacrestia, per esempio in Italia. La traduzione dei “Collected Papers” per i Classici Bompiani del Pensiero Occidentale si fa attendere, e forse è perenta, preceduta dal “pensiero” di Togliatti e altri pezzi grossi – ne era sostenitore Giovanni Reale, che ora non è più. Un solo convegno in Italia si ricorda, alla romana pontificia università di Santa Croce, di studi ecclesiastici, e questa riproposta di Elisa Grimi esce in una collana “Come se Dio fosse”. Ma il repertorio che la studiosa mette assieme è una pietra solida – anche se purtroppo parafrasa i testi che propone invece di presentarli e antologizzarli.
Dopo Wittgenstein san Tommaso
Già “Intenzione”, l’unico testo tradotto di Anscombe, si era manifestato robusto, di logica aristotelica e scolastica. Oxford, dove allora insegnava, era la roccaforte dell’aristotelismo. L’approdo sarà poi per lei inevitabile al tomismo. Ma ora in buona compagnia: è l’approccio dominante nella filosofia anglosassone successiva, di Scruton, Nussbaum e altri - la stessa Arendt già ne era attratta. Ed è ora il filone in voga negli studi continentali dell’ultima generazione, affrancata dalla filosofia tedesca - “dopo Wittgenstein san Tommaso”. Su “Intenzione” peraltro, sulla distinzione tra le cause e le ragioni di un’azione,  la curatrice soprattutto si sofferma. Con cenni al suo tomismo analitico, e la disamina di altre tre testi: la querelle con C.S. Lewis; “Mr Truman’s Degree”, 1956, la laurea honoris causa di Oxford contestata a Truman, il presidente della “bomba”; “Modern Moral Philosophy”, uno sviluppo dello stesso. La verità c’è, il dovere morale no, è uno pseudo-concetto di forza solo emotiva. La nozione di dovere non può essere inferita da un decalogo esterno. Si può fare filosofia morale in assenza di una filosofia della psicologia? E cos’è questa, la psicologia e la filosofia della psicologia? 
A Oxford, da studente, Elizabeth Anscombe aveva avviato nel 1937-38 lo studio del “Tractatus” di Wittgenstein, insieme con Ayer, suo quasi coetaneo ma già autore, nel 1936, a ventiquattro anni, di “Linguaggio, verità e logica”, la bibbia dell’ateismo – i rapporti tra i due presto si guasteranno. Dopo la laurea nel 1941 fu a Cambridge con una borsa di studio, e avviò un contatto personale poi indissolubile con Wittgenstein. Di cui sarà collaboratrice fidata e interprete, e con Rhees e von Wright curatrice del lascito, compito per il quale imparò il tedesco. Vicino a lui è anche sepolta, nel cimitero di St.Giles a Londra.
Il dio flipper
La bibliografia delle riflessioni di Anscombe su Wittgenstein è costante per cinquant’anni, dal 1952 in poi, e nutrita, prende cinque pagine. Autrice, tra l’altro, di “From Plato to Wittgenstein”, sul problema della conoscenza. E di “An Introduction to Wittgenstein’s «Tractatus»” (“È un libro che riesce ad affascinare la nostra mente, pur presentandosi in molte parti eccessivamente oscuro”), dove elucida la prima filosofia del linguaggio di Wittgenstein in relazione a Frege, Ramsey e Russell – e a Schopenhauer. Col caso del “solipsismo”, per le cose che si mostrano e sono (sono vere) ma non possono essere dette. Con l’affermazione che la logica è “trascendentale” – le proposizioni della logica, nella sintesi di Elisa Grimi, “come tutte le altre proposizioni, mostrano qualcosa che prevede tutto il dicibile, e che è a sua volta indicibile”. E col “misticismo” peculiare di Wittgenstein, che lo riprese da Russell, adattandolo, per una volta con chiarezza, spiega Anscombe, in questo passaggio del “Tractatus”: “Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto delle risposte, i nostri problemi vitali non sono neppure ancora stati sfiorati. Certo, allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta”. Detto altrimenti nella nota proposizione: “Il senso del mondo dev’essere fuori di esso”.
Nella querelle con C.S.Lewis sul determinismo e successivamente, nelle riflessioni sulla causalità, utili al rapporto tra scienza e determinismo, Anscombe la assomigliava al flipper: la pallina si muove sempre “approssimativamente” secondo certi percorsi.
Elisa Grimi, G.E.E. Anscombe, The Dragon Lady, Cantagalli, pp. 525 € 23

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