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domenica 6 luglio 2014

La Germania “signora dei trattati”

In “questo spirito dell’epoca normativamente in disarmo, totalmente succube degli imperativi del mercato e dell’autosfruttamento”, che futuro abbiamo, l’Europa ha? Questa scelta degli ultimi saggi di Habermas, dal vol. XII degli scritti politici d’occasione (discorsi, articoli, recensioni, polemiche), centrata sulla crisi dell’Europa, lo vede sempre combattivo. Ma solo perché “indietro non si può tornare”, non proprio fiducioso. Le sue proposte rispecchiano altrettante mancanze, di cui non hanno la cogenza, né la forza di persuasione.
Nella raccolta Leonardo Ceppa, che l’ha curata, ha voluto inserire uno scritto fuori tema, un saggio su Heine. Che però potrebbe esserne il cuore. Il filosofo vuole recuperare Heine alla Germania, dirlo finalmente accettato. Dire cioè che la Germania è il “paese normale”, che pensa democratico, da Heine vagheggiato. Che per un secolo e oltre per questo l’ha però osteggiato. E la cosa fa senso: un poeta, uno scrittore che ha innovato la lingua e a cui la lingua si conforma, che è rifiutato per un secolo e oltre perché sinceramente, tranquillamente, democratico.
Ci vuole più Europa, più politica, è l’appello del primo intervento con cui Ceppa fa esordire Habermas. L’euro ne ha bisogno, poiché non si può più dissolvere, e quindi ogni paese europeo. Sottintesa la Germania.
“Tre ragioni per «più Europa»” dà il filosofo in questo primo intervento: 1) la Germania in Europa e non la Germania per sé; 2) il ritorno alla politica – “non era ancora mai successo che governi eletti dal popolo venissero sostituti senza esitazione da persone direttamente portavoce dei mercati: si pensi a Mario Monti o a Loukas Papademos”; 3) il salto indifferibile dell’euro a una politica monetaria (sovranità) comune. Contrariamente all’opinione dominante in Italia sullo stato attuale della Germania, dei governi Merkel e dell’opinione che esso conforma, Habermas non si fa illusioni. La sentenza della Corte Costituzionale del 12 settembre 2012 sull’Esm lo lascia sconcertato: essa oppone il “principio democratico”, art. 20, 2 dello Statuto costituzionale, al vincolo europeo, art.23, 1, e lo rafforza con i concetti di “sovranità” e “identità nazionale”, su cui però lo Statuto “non spende una parola”. “Una politica delle cose” che si è data “rango di Costituzione”, preciserà Habermas recensendo Streeck, “Tempo guadagnato” - di cui non condivide l’assunto che siamo fuori della democrazia ma dandogli ragione nella critica.
Il presupposto dell’impasse è semplice e evidente: l’euro non ha neutralizzato, come voleva il progetto “ordoliberale” alla sua origine, “le differenze di competitività esistenti nelle varie economie nazionali”. Anzi, le ha aggravate: “Le diseguaglianze strutturali delle varie economie hanno finito per aggravarsi; e continueranno ancora ad aggravarsi, finché la politica europea non la farà finita con il principio per cui ogni Stato nazionale deve decidere sovranamente da solo – senza guardare agli altri Stati associati – nelle questioni di politica fiscale, di bilancio ed economica”. L’ottica è  rimasta sempre quella, che gli Stati nazionali sono i “signori dei trattati”. Tra essi, “è il governo tedesco ad avere in mano le chiavi del destino europeo”, Habermas conclude, non ottimista.
Ceppa dà in ultimo un’utile sintesi dell’utopia europea di Habermas, nei termini della filosofia del diritto invece che della passione politica che sottende a prima lettura la raccolta. Habermas intende – e in un intervento successivo a questa raccolta, ancora in via di pubblicazione, lo espliciterebbe - che “il processo dell’unificazione europea rappresenti, nella storia della teoria democratica, un nuovo modello di progetto costituzionale. La sua caratteristica è di non sfociare più in uno Stato centrale unitario (come la Rivoluzione francese), né in uno Stato federale (come la federazione Usa dei «Federalist Papers»), bensì in una forma transnazionale, eterarchica e post-statale  di democrazia”. Ma deve dirlo “un idealistico polemista contro il disfattismo della ragione”.
Habermas si occupa ormai solo dell’Europa, da un quarto di secolo, a partire dalla caduta del Muro con “Dopo l’utopia”, 1991 – sottotitolo “La vecchia Germania nella nuova Europa?” Sempre con lucidità. Sul nuovo ciclo del debito, per esempio, oltre che sulla recessione indotta dall’euro, o sul nazionalismo risorgente: “Nel controllo politico che si volle dare alla globalizzazione economica finì per prevalere la dottrina della Scuola di Chicago, già messa in atto da Reagan e Thatcher. La politica dell’inflazione controllata fu sostituita da un forzato indebitamento pubblico, in quanto non si voleva lasciar travolgere lo stato sociale a causa dei mercati scatenati… L’onda lunga del crescente indebitamento statale può essere letta come l’altra faccia delle restrizioni che il neoliberismo ha imposto alla libertà d’azione degli Stati nazionali”. Ma con sempre minore convinzione, il suo idealismo copre una mancanza. Forse ingestibile. Non con le idee – la solidarietà è fuori luogo, la guerra invece sì. Non cruenta ma sempre rapace.
Jǔrgen Habermas, Nella spirale tecnocratica, Laterza, pp. 113 € 15

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