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lunedì 7 luglio 2014

L’incostanza costante della redattrice del nulla

“«Ortega ci dice che il compito della filosofia», spiegava il professore alle matricole indifferenti, «è scardinare metafore morte»”. Mentre “il cammello  sta passando”, già negli anni 1960, seppure “con grande difficoltà, per la cruna dell’ago”. Con le bombe e contro le bombe. Cronache vecchie, di prima del Sessantotto, redatte e pubblicate subito dopo, e ancora nuove, in questa che vuole essere una “riscoperta”. Una scorribanda cosmopolita sul niente. Sulle abitudini, i linguaggi, gli amori e le amicizie, il lavoro, le conoscenze, i detti, memorabili e no, e “l’ha da passa’ ‘a nuttata”. Un libro delle inquietudini. Senza risparmiarsi.
Cosmopolita obbligata, via da Milano appena nata perché quel genio di Mussolini non ci voleva gli ebrei, nemmeno a metà, Adler si ritrova incostante ovunque, benché col sorriso. A scuola, da studente e da discente, al giornale, a casa, in città, in campagna, a scuola di volo, di cucina, di tennis, di equitazione, di vita e quant’altro, le persone sole fanno sempre corsi, in vacanza nelle isole, anche in Sardegna, e perfino da tiratrice - scelta: centra col fucile “scatole di fiammiferi e lattine”. Un libo di malinconie, aggraziate. Molti eventi sparsi, in mezzo a tante figure di donne che saranno il modello del nostro femminismo, sperdute, tutte, senza spessore. In stile “New Yorker”, d cui Adler è stata redattrice e columnist: paradossale e di superficie, insomma snob. Ma bisogna farsi perdonare quando non si sta bene dove si sta.
Dopo quasi mezzo secolo, del resto, la raccolta scorre come un freccia, diretta e rapida. Da giornalista, si schermisce l’autrice, non sa fare le interviste: non sa chiedere. Ma sa rispondersi. Non disinvolta né superficiale: in un paio di centinaia di reportages brevi e brevissimi fa una condizione umana. Di una vita giovane (giovanile, curiosa) nella metropoli, isole lontane incluse e paesi di provincia, in incostanza costante, di condizione, di desideri, e anche di giudizio. Di un’epoca in cui nulla cambia, sotto un baluginio vertiginoso di novità. Di propositi. Di impegni. “Io so” si dice già nelle riunioni di gruppo degli anni 1960, dei morti alla Kent State University, di altre magagne. Negli stessi anni il college femminile aveva “docenti prestigiosi in tutte le materie, con alloggi a Nuoro e Micene” – perché costavano poco? Prendendosi, lasciandosi, senza ragione, nemmeno per caso – per ubriachezza, per stanchezza, anche controvoglia - “Quando mi chiedo cosa stiamo facendo – in questo palazzo, in questo isolato, con questo giornale – la verità è che probabilmente stiamo lottando per sopravvivere”. Con alcune pagine da antologia. L’innominata Sardegna, benché con cattiveria, la donna sola con l’amante immaginario, la “vanità morale” del giudice.  
Una testimonianza del tempo vuoto – forse svuotato dall’ironia, che è inattaccabilmente corrosiva. “Al di fuori dell’umorismo c’è solo l’imbarazzo puro”, sarà la conclusione, “Ahimé”. La noia. Lo stereotipo. La stupidità. Renata Adler non si annoia e non si imbarazza.
Renata Adler, Mai ci eravamo annoiati, Mondadori, pp. 191 € 17,50

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