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giovedì 16 ottobre 2014

I “figli dei boschi” e la violenza dell’Italia

Un romanzo extralarge. Relegato dal film che ne è stato tratto alla Calabria di maniera, abusiva e assassina, l’originale è invece sovrabbondante: Criaco si è preso delle belle soddisfazioni. Da socialista anarcoide quale si professa - quale era possibile fino a ieri - in veste di narratore, un “altro parere” si permette a profusione sulle delinquenze, le mafie, le droghe, le Milano e i Carabinieri che ci governano. Sulle tremende energie che solo nella violenza trovano sbocco – la strage di Duisburg s’immagina all’origine, o come stimolo. E non per essere gravati dalla Montagna incombente, che invece è liberatoria – il luogo è l’Aspromonte. Meno che meno dai “vecchi piccoloborghesi del passato”, dai “piccoli padroni rurali… chiusi nei loro salotti demodé a sputare veleno e meditare vendetta”. No, dall’Italia che conta.  
Se le è prese, bisogna aggiungere, da calabrese. Con quella vena esagerata sempre e beffarda che distingue la narratività locale, il linguaggio della narrazione. Alla scuola probabilmente di Delfino e Zappone, ma senza le loro buone maniere, con impeto esplosivo non edulcorato, anche cattivo. Esagerato anche nel gusto dello sberleffo. Trasandato nella scrittura (incongruenze, errori, anche grammaticali, contraddizioni), ma senza dare fastidio, anzi, come a dare più corpo al suo vero inverosimile. Alla lettura non implausibile – anche per l’eco inevitabile di tanta genialità violenta, in prosa e in poesia, ancora vicino a noi, di Pound, Céline, Hamsun. Ma anche alla riflessione.
Una solenne presa in giro, dunque – anche se drammatica: questo sì, non si salva nessuno. A p. 61 lo scrittore di Africo, “figlio di pastori” educato a Milano, costruisce un’etologie della vacche tanto assurda quanto circostanziata, in cui fa sentire echi di Borges (il cerchio, il labirinto), Bachofen (il matriarcato), e naturalmente Lorenz (gerarchie, linguaggi): le vacche non parlano ma è come se. Altri racconti salaci (“I salatori” è uno, il capo dei capi impotente, i tanti agguati fantasiosi ai capi dei capi) dissemina qua e là. Quando non sono panzane: otto miliardi di eroina ceduti a credito dalla mafia turca, il figlio dell’ipermafioso che si ritrova capitano dei CC in carriera, il rapito che si fa amico fraterno e socio del rapitore. Ma con l’effetto di dare corpo alla ribellione dell’energia repressa, e insieme a dirne l’inanità. Con analoga improntitudine si annette le due Milano della droga, la bruna e la bianca, il desiderio di morte e il desiderio. Un azzeramento, una difesa infine in forma di aggressione. La stessa biografia, del figlio di pastori educato a Milano, è extralarge e non implausibile: questi miracoli avvenivano, e ancora avvengono, grazie alla chiesa – il mondo è vario, anche il Sud.
La storia è dell’energia giovanile, e dell’amicizia. Che implodono e esplodono in una sorta di panoptico del crimine, in forme diverse, ma come in contemporanea: i furti e le rapine, i sequestri di persona, l’eroina, la cocaina, le vendette. Il contesto è più importante. Criaco vuole un’antropologia della società pastorale certamente non fondata eppure persuasiva: di un mondo “costretto” alla violenza. La storia vera, lunga e dolorosa, riassumendo in poche righe. Di un mondo che non aggredì mai nessuno, attento solo ai suoi armenti, e sempre fu aggredito, sui lidi, sulle pendici della montagna, e fin sulla montagna stessa, dai greci ai Savoia – “solo l’esercito di Dio venne in pace con le facce di solitari e pii monaci basiliani”. Magna Grecia? No, un manipolo di “oscuri” osci, sempre perseguitati. Nota e ignota anche la storia recente: “Venne a cercarci il Borbone per imporci dazi e regole. Si inventò l’esercito dei pungiuti per piegarci dal nostro interno. Gli succedettero i civili Savoia, mantennero l’armata dei pungiuti, introdussero nuovi dazi e nuove regole…”. I pungiuti sono la ‘ndrangheta di cui si favoleggia, a opera di giudici e mestatori, con giuramenti, formule, iniziazioni, abracadabra, immaginette (sacre), processioni, per coprire un esercito di informatori, confidenti, pentiti, tragediatori, tutti irresponsabili, a immunità garantita e anzi premiata per tenere sotto bastone i “figli dei boschi”, gli uomini liberi.
Vennero poi le Camicie Nere, poi la Repubblica, sempre coi “pungiuti” al centro, infine la rivoluzione milanese. Che i “figli dei boschi” scacciò a favore di slavi, albanesi, nigeriani, sudamericani: “Milano da questa rivoluzione non ne avrebbe certo tratto vantaggi: noi non eravamo dei santi, ma a modo nostro avevamo un certa etica”. I soldi non girarono più, il valore aggiunto venendo esportato nei paesi di origine, e “la gente iniziò ad aver paura di uscire...Per le strade iniziarono a violentare, scippare, rapinare, ammazzare per nulla”. Ma Milano godeva, della disgrazia altrui: “Il popolo, serrato in casa, vedeva migliaia di figli dei boschi in manette, potentissimi politici sudare e biascicare davanti ai novelli tribuni, e godeva contento”.
Il lettore ci troverà un inno alla natura, una pastorale di forza beethoveniana, e all’amicizia.
Il sociologo della letteratura ci troverà ottimi temi – oggi non discutibili, ma a termine sì, poiché sono la realtà, non c’è chi non ne sappia la verità.
Gioacchino Criaco, Anime nere, Rubbettino, pp. 213 € 14

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