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sabato 24 ottobre 2015

Magris processa la storia

Titolo procedurale, più forte nella formula tedesca da cui Magris è partito, per tanti delitti nazisti, Im Sinne der Anklage, unschuldig”, ai sensi dell’accusa non colpevole, per un atto d’accusa alla storia. Che emerge strada facendo. Attorno alla costituzione di un Museo Ares per Irene, della guerra per la pace. Che un collezionista di reperti di guerra ha lasciato da costituire, essendo morto prematuramente nell’incendio di uno dei padiglioni che ospitavano la collezione. Indagine, come Magris ci ha abituati a leggere, “Illazioni su una sciabole”, “Danubio”, “Microcosmi”, e non romanzo. Benché si passi di continuo dalla terza alla prima persona, come usa al cinema. Alla ricerca della verità, una ricerca. Con un non luogo a procedere anche per la storia – per la verità. L’amore ne supera la limitatezza, forse – se non finisce con il bacio di Rilke, che “distrugge l’incanto”.
Una storia di storie, una satura. Il romanzo del Museo si articola in due filoni: l’ordinamento della mostra, ogni reperto  una storia a sé, con una didascalia che è un racconto, e i diari del collezionista-fondatore, collaborazionista, che naturalmente si nega. In parallelo, fa da rete  la “Storia di Luisa”, che è l’architetto incaricato di ordinare il Museo, ebrea e mulatta. La sua storia è quella della madre Anna, scampata alla Risiera di San Sabba, il campo di sterminio triestino, dov’era finita denunciata benché si fosse ben cautelata, forse dall’ebreo Grini, che con la moglie ne aveva denunciato molti. Anna, che nello sfollamento in casa della vecchia balia croata  aveva appreso il croato, lavorerà come interprete di croato all’amministrazione alleata di Trieste, trovandosi a dover  frequentare anche il colonnello Ernst Lerch, “boia in capo alla Risiera”, a cui nessuno chiede conto di nulla, e anzi è ospite del maggiore Preston, che dirige l’amministrazione alleata. Anna ha concepito Luisa con un sergente nero della Us Army, poi perito in un incidente ad Aviano - causato da un velivolo difettoso della Zanussi, che aveva diritto d’uso della pista di Aviano.
Una dichiarazione d’amore per Trieste, in tutti i suoi angoli, e per il suo mare. E una cornucopia di storie singolari, personaggi, popoli, eventi, che il filologo curioso e paziente ha indagato, di ordinarietà straordinaria, cui Magris ci ha avvezzi.  I Bodoli del Quarnaro, gli Huzuli di Galizia, o la geografia impoverita dall’omologazione, e dallo stesso nazionalismo. L’arte della guerra: Sun Tzu, Vergerio, Montecuccoli, Clausewitz.  Il T-34, il carro armato  con cui Stalin sconfisse Hitler. Il podestà Enrico Paolo Salem, “il miglior sindaco della città”, la teneva pulita, “circonciso battezzato e fascista antemarcia”. Un omaggio del germanista a Praga, alla resistenza ceca, “Cactus Marcescens Hitler”. Due omaggi, anzi tre. Uno alla “tradizione furtiva e inventiva jiddish”, da studioso alle origini dell’ebraismo orientale, in “Un Chamacoco a Praga”, la storia dell’indio del Chaco Čerwuiš portato a Praga dal “grande botanista” Vojtěch  Frič insieme con i cactus per risparmiarlo alla guerra tra Paragay e Bolivia, che è invenzione di Karel Krejčí, animatore del “vagabondo teatro jiddish” in città. Raddoppiato con Červiček, avventuroso praghese nel Chaco durante la stessa guerra. Il buon “Soldato Schimek”, austriaco giustiziato dalla Wehrmacht perché “s’era rifiutato di sparare sulla popolazione civile polacca”. La liberazione di Trieste, di tutti contro tutti. Lo “s’ciaveto, l’antico rito glagolitico della Messa”. La storia di “Luisa de Navarrete”. Le responsabilità e complicità, da ultimo, della Risiera di San Sabba, il campo di sterminio forse più ingiurioso, aperto in città, a Trieste, che dopo la guerra si vollero cancellate – nazisti e fascisti servivano contro il comunismo.
I particolari sono precisi, anche se spesso solo allusi. La rappresentazione vuole essere del male. Dell’incertezza del giusto nella storia, che come si sa è fatta dal vincitore. Della vita quindi insensata. Di cui niente può venire a capo, nemmeno l’amore. Luisa, che seguiamo giovanile e immaginifica, vive con un compagno disfatto dalla sclerosi. La stessa Luisa è già “una scia di lumaca”, anche se non lo sa: “I suoi bei capelli ancora scuri nel vento… non sapevano che esisteva quel vento”. I pensieri sono subito tristi attorno al collezionista e all’architetto. Una perorazione a tratti anche in senso tecnico, un’arringa da pubblico ministero. Ma da pm sconfitto: il caleidoscopio è di accoramento costante, quasi una storia personale.
Ogni reperto che viene schedato è una storia: una persona, un fatto, per lo più ignobile, un ricordo. La scrittura è invece “suggestiva”, e veloce, anche se sovraccarica. Ispirata più che flaubertiana – la cifra che caratterizzava Magris. Ricercata, anzi preziosa. Di pensieri. “La morte non esiste, è solo un invertitore”, una macchina che rovescia la vita – come si “rovesciavano” i vestiti. L’amor-te. “La scrittura, pugnale acuminato che va dritto al cuore”. Di lirismi. Di parole (eone, barocco, invertitore, mulvaceo, glagolitico), nel quadro di una “riforma globale del vocabolario”, o Dud, Dizionario universale definitivo, cui il collezionista anche indulgeva. Inventore,  oltre che di parole, di “un sistema scientifico per nutrirsi soltanto d’aria” e altre diavolerie. Ma anche volubile – queste due piste sono dette e abbandonate.
Una summa anche dello scrittore-collezionista, dei suoi metodi di ricerca e scrittura, delle sue fobie e le sue predilezioni. Una storia non veritiera, come quella delle “Illazioni” sul generale-scrittore Piotr Krasnow, e tuttavia vera. L’orchestrazione narrativa “naturale” degli strumenti filologici. E le storie di vita che sfiancano come vagabondaggi erratici, inconcludenti. Da germanista, ma di più scrittore di frontiera – di più frontiere. Con Salvore anche qui, oggi Savudrije, e altri riferimenti minori del suo personale teatro. Di un io che necessariamente vaga se non è pieno di se stesso, fino alla follia di Hitler – l’io interiore che Lutero inventò, agostiniano integrale. Ma con la novità di una prosa “aumentata”.
Un quadro opulento, forse troppo. Come una tonnara piena, di cui all’autore ripugna la mattanza. Di testi vari affastellati.  Anche prose che negli anni è venuto scrivendo sui giornali. Il bacio di Rilke per esempio, esercitazione estiva sul “Corriere della sera” quattro o cinque anni fa – “il bacio distrugge l’incanto”. O la “Storia di Luisa de Navarrete”, lettura goduta e censita a suo tempo delle  “Lettres créoles” di Chamoiseau e Confiant. Lo scrittore come il musicista si riscrive, ma con misura.
Il “maniaco museologo” Magris nomina nel congedo, e sono due pagine che riconciliano: è il professor Diego di Henriquez, personaggio noto a Trieste. La sua storia è in realtà appassionante, quella della storia insensata: il collezionista furioso, che finisce contro l’oggetto della sua passione. Più di quella di Luisa, programmatica – politica - e fredda.
Claudio Magris, Non luogo a procedere, Garzanti, pp. 362 € 20

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