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giovedì 1 settembre 2016

Quella tarantella è un rito

“U sonu”, o “sonu a ballu”, sta per tarantella. Per la tarantella dell’Aspromonte, del sud dell’Aspromonte, dell’area grecanica. Castagna parte da una curiosa inversione, di un ballo sicuramente popolare e di gruppo, sociale (ritmo, stumenti, ruota, maestro da ballo, mimica e significati del ballo), ingentilito nel primo Ottocento nella musica colta e borghese, come allora usava di tutti gli usi popolari, che sarebbe ritonato come ballo gentilizio, finto popolare: “L'invenzone della tarantella” è il capitolo iniziale.
Il musicologo sostiene l’assurdo: che la tarantella sia quella di Chopin, Rossini, Liszt, Bizet, Mendelssohn, e i tanti altri compositori del filone romantico, fino a Ciaikovskij - dopo le “pastorellerie”? Dopodiché dice inventata la tarantella come ballo popolare. A opera dei gruppi folkloristici in voga tra le due guerre. E del fascismo? Ma certo, Castagna non se lo lascia scappare. E dunque la tarantella è ballo alto, e fascista. E di più quella aspromontana, un posto che non ha né nobiltà né musica colta, e i cui intellettuali ne rifuggivano fino a poco fa con disprezzo.
Subito dopo peraltro richiamando le “pastorellerie” sei-settecentesche, col Re Sole che si fa ritrarre con la cornamusa in mano: la musica colta ha le mode, come i potenti. E facendo differenza tra la Scozia, dove la cornamusa diventa “simbolo nazionale”, e il Sud Italia, dove resta strumento di pastori e cafoni – così come l’organetto, e il tamburello, e la chitarra battente.
Passato il furore iconoclasta, il “suono” però si ricompone: è un monumento che Castaga erige ai suonatori di Cardeto, alla zampogna. Alla loro musica coreutica, sonu a ballu: se non si balla, “si perdi u sonu”. A un sentimento e un bisogno che vengono da lontano. La danza, “deposito sedimentato”, e quindi il “sonu a ballu”, insomma la tarantella, ha “una spiccata caratterizzazione in senso rituale”.
Il ballo (“u sonu”) in piazza, col maestro da ballo, la ruota, la coppia, che si forma e si riforma, a intervalli brevi, di un minuto, un minuto e mezzo, per consentire la partecipazione singola di tutti i convenuti, non è uno spettacolo. È un rito. Civile, in casa, per una ricorrenza, sia pure un invito agli amici – Castagna attesta che a Cardeto era costume fino a qualche anno fa, e tuttora non infrequente, essere invitati a ballare dopo il pranzo di cui si è stati ospiti. È una danza rituale nel senso religioso, davanti al tempio: “Fra gli elementi di arcaicità che legano u sonu dell’Aspromonte sincronicamente ad altre danze del Sud Italia e diacronicamente alle danze sacre dell’antichità greco-romana vi è l’aspetto devozionale. Infatti la rota si carica di ulteriore senso sacralizzante nel caso del ballo votivo. Si balla alle principali feste religiose, si balla fuori dai santuari”.
Si può aggiungere per esperienza che a Polsi si ballava anche dentro il tempio, almeno fino a qualche anno fa, allo stesso modo come si ballava nel recinto sacro nelle cerimonie religiose dell’antica Grecia – una persistenza come quella della vittima, una giovenca, da immolare, infiorettata di nastri. E che si ballava in campagna, al suono della zampogna, l’inverno, finita alle quatttro la giornata di lavoro.
Con un nutrito inserto fotografico, di contadini e montanari, suonatori e danzatori.
Ettore Castagna, U sonu. La danza nella Calabria Greca, Squilibri, pp. 181, ill., con cd € 18

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