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lunedì 17 aprile 2017

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (323)

Giuseppe Leuzzi

“Sgravi al Sud, perché costano tanto e fanno anche danni”, è la perorazione di Alberto Brambilla sul “Corriere della sera Economia”. Che lo presenta come “Presidente Itinerari Previdenziali”, istituzione inesistente, evitando di dire che è stato al governo, sottosegretario o vice-ministro, con la Lega.
L’argomento che è gli sgravi contributivi – di questo si tratta – vanno bene al Nord ma non al Sud.

L’ulivo “sogno della marina” dice Gadda (“I nuovi borghi della Sicilia rurale”, 1941, ora in “I Littoriali del Lavoro”).

“L’umiltà è una virtù per la quale il Sud non brilla”, Flannery O’Connor (“Sola a presidiare la fortezza”, 108).

È il Sud condizione e modo di essere a tutte le latitudini?
In un articolo giornalistico, il futuro semiologo Marshall McLuhan dei “mezzi del comunicare” (de “il mezzo è il messaggio”) trova nel febbraio 1954 che al Sud degli Stati Uniti “le convenzioni  diventano una condizione per la sopravvivenza”. La scrittrice georgiana Flannery O’Connor è colpita da questa osservazione, “per quanto è vera”. Ma ormai, dice, è “fuori contesto”: “Ormai al Sud quel poco che rimane delle convenzioni è morto e sepolto”.
Rimane il colore. Ma “il colore locale è veleno”.

Si va al Nord nella polvere, nel romanzo di guerra Lernet-Holenia “Marte in Ariete”. Il reggimento muove da Vienna per invadere la Polonia nel settembre 1939, e la sola nota rimarchevole è questa: “Qui cominciava la regione della polvere. Da qui si estendeva fino all’Ungheria e, attraverso la Polonia e l’immensa Russia”, fino “all’altro capo dell’Asia, dove la terra si rituffa nel mare”.
L’Asia finisce alle Alpi (e al Reno?).

Gadda in Sicilia
Gadda, mandato in Sicilia dalla “Nuova Antologia” e “Le Vie d’Italia”  a gennaio del 1941 per celebrare le bonifiche, di cui il regime andava fiero, vi rifà in breve e con acume la teoria del feudo e dell’abbandono, legandola come’è più giusto ai territori desertici e non al cattivo feudatario (la sua analisi si può leggere nella raccolta di testi giornalistici recuperati dalla filologa Manuela Bertone in “I Littoriali del Lavoro”): “Vasti pianori assolati, privi di corsi d’acqua e scarsi di circolazione idrica subumale”, e per di più insalubri, da cui il contadino rifugge, ritirandosi nel villaggio, e più distante meglio.
“In realtà il latifondo di Sicilia è legato a una fattispecie complessa. E devesi anzitutto individuare, entro il raduno delle cause, la natura dei terreni che andarono a costituir feudo”. E giù in una sola pagine tutti gli estremi della complessità, quale non si trovavano e non si troveranno negli scrittori siciliani che volevano conoscere la loro terra, Pirandello, Tomasi di Lampedusa, lo stesso Sciascia che ci abitava.
I terreni sono argillosi, “d’argille di molto più compatte e fosforiche di quel che non risulti alla marra ed al seme la duna quaternaria dell’agro pometino o dei calanchi appenninici fra Toscana e Romagna”. Per metà. “Per l’altra metà sono terreni di medio impasto, atti quindi alle semine e alle colture cerealicole”. Non intensive cioè. Questo è solo l’inizio del “raduno delle cause”. Nove, paragrafate, annotazioni spiegano come, su questi terreni, la colture si sono impoverite. E come si sono organate attorno al gabelloto, l’intermediario “che affitta dal principe a conto proprio per subaffittare ai coloni o talvolta per cedere a lavoro”.
Il feudo è il deserto
Non un sistema feudale – non nel senso del feudo inteso come sfruttamento. Ma una divisione della povertà, tra una proprietà remota e di pochi mezzi, una campagna di poveri e poverissimi, fittavoli, coloni, bracciati, e il gabelloto. Una figura che giusto Gadda vede nella sua “complessità”: “Il disinteresse del principe lontano, la pazienza dei poveri sembra abbia consentito alla specie «gabelloto»  configurarsi in alcune dimensioni non del tutto o non sempre encomiabili nelle distrette di una contingenza assai ardua. Del resto sono uomini esperti del vivere e figli in certo modo della durezza, dotati molte volte di capacità direttive, conoscitori della terra, pratici del mestiere (mestieraccio) nonché dell’ambiente, che portano su di sé la rampogna dei pochi e assenti, e la rancuna dei molti e presenti, e affaticati, in un’economia affaticata”. Anche molto ben scritto, malgrado ristrette e rancune: esatto.
En passant, testimone di un’altra civiltà pubblica, benché fascista. “Otto borghi sono stati costruiti in un anno”. E: “In un anno di lavoro 2507 case coloniche sono state costruite e si aprono oggi a ricevere i lavoratori della terra. Trecento sono in costruzione”. Negli “otto borghi rurali”, creati in “ognuna delle otto (ma erano già nove, n.d.r.) province di Sicilia”, sorgono “la chiesa parrocchiale con l’abitazione del parroco; la scuola con le abitazioni delle maestre;  la delegazione della podesteria per i servizi di Stato civile; la sede del Fascio e delle organizzazioni dipendenti; la collettoria postale, con telegrafo e telefono; la stazione dei Reali carabinieri con gli alloggi; la Casa di sanità, ove avranno a risiedere il medico chirurgo, la levatrice, un assistente sanitario; dov’è allogata la farmacia, dov’è un posto di medicazione, e alcune camere di degenza; una locanda con alloggi, una rivendita di generi vari; e botteghe per artigiani e relativi quartieri: e ancora gli uffici dell’Ente per la colonizzazione con la Casa del personale”.
Il tutto commissionato ad architetti siciliani: Mendolia, Caracciolo, Marino, Marletta, Baratta, Manetti-Cusa, Gramignani, Epifanio. “Perché i nuovi aspetti dell’edilizia rustica aderissero «ab auctore» al clima, al colore, al genio dell’isola, pur nei modi e nelle forme onde suole estrinsecarsi il disegno «funzionalistico» del nostro tempo”. Con risultati encomiabili - non era ancora tempo di leghismo, l’apprezzamento di Gadda, ripetuto più volte, qui fila sincero - “in forme che segnano un «optimum : delle possibilità scenografica e pittorica, come presso la cubale Trapani, a Borgo Fazio, di Epifanio, o nel montano Borgo Giuliano, di Baratta, in provincia di Messina”. Un pezzo vivo, “antico e nuovo”, di “storia mediterranea”: “Davvero le forme han corrisposto, per felicità intera e nativa, all’aspettazione ed alla fede. Ho veduto  i raduni bianchi dei cubi nella immensità della terra, quasi gregge portatovi da Geometria: e una limpida disciplina di masse, riquadri, diedri, gradi; e li avviva una grazia semplice, un’opportunità dell’atto, una speranza. E mi parvero già custoditi dal senno: non nati dall’arbitrio tetro, come può accadere a chi ha matita tra mano da fare i rettangoli, e soltanto matita. E vi erano brevi, puri portici: tinti alla calce i volti, i pilastri: e a sfondo il sereno. Archi a sesto, campiti di turchese…”. E le ombre nel cortile, “come ore”.

Lo scrittore del Sud
“Mi irrita sempre mortalmente la gente che del Sud” non sa niente, “e forte di tanta ignoranza consiglia agli scrittori del Sud di andarsene e di dimenticare il mito. Ma quale mito?”, protesta Flannery O’Connor, la scrittrice americana della Georgia, con la sua amica di penna “A.” (le lettere sono raccolte in “Sola a presidiare la fortezza”, l’angustia si propone alla p. 169 ). “Se sei uno scrittore”, continua, “ed è il Sud che conosci, è di quello che scrivi, giudicando a seconda di come giudichi te stesso. Forse è un bene e una necessità allontanarsi fisicamente per un po’,  ma questo non significa assolutamente fuggire”. Non ce n’è bisogno, e niente lo impone.
Non senza giudizio: “Questo non vuol dire che quanto il Sud ti offre sia sufficiente, o che abbia un’importanza altro che pratica: fornisce un contesto, un idioma e così via”. Il resto, cioè tutto, però bisogna mettercelo. “Si potrebbe discutere all’infinito dei vantaggi e degli svantaggi  di essere uno scrittore del Sud, ma resta il fatto che se lo sei, lo sei”.
Il Sud come mondo a parte, ovunque.
È anche vero, la stessa O’Connor ha già scritto ad altro corrispondente, che “la gente del Sud non conosce minimamente la propria letteratura a meno di non aver frequentato un’università del Nord”. E perciò vittima di cliché, malgrado la sua alterità.
Flannery O’Connor detesta Tennessee Williams e Carson McCullers, due degli scrittori del Sud più in auge ai suoi anni, perché addebita loro un Sud di maniera – “intellettuale”. Il suo è in effetti più reale, ancorato: l’abbandono (triturazione) della tradizione, l’erosione a catena di un mondo, che, comico e tragico, mite e violento, ne prepara uno più debole, e un rapporto col Nord di reciproca estraneità, quando non è di volonteroso asservimento.  

leuzzi@antiit.eu

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