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martedì 18 aprile 2017

La mistica ecclesiastica del corpo

Un repertorio, l’unico ancora esistente, di una letteratura vivacissima. Rimosso perché la chiesa, che ne è depositaria, e più sarebbe interessata a valorizzarlo, è ancora infognata nel moralismo sessuale,  delle mutande e delle tendine alle finestre. Il miglior sequenziario della raccolta ha un monaco Godeschalk, un monaco dell’anno Mille, pieno di tenerezza per la Maddalena. “Tu l’ami”, dice Godeschalk al Figlio della Vergine che non sdegna le carezze della peccatrice, “affinché essa sia bella”. I sequenziari, che Tommaso da Kempis sublimerà, erano peptalk di sacrestia, di chi, ragazzi e monaci, non ricordava le parole ma ne traeva coraggio.
È un repertorio odiernamente a volte scabroso. “Oh virga ac diadema\purpure Regis”, invoca la santa Ildegarda per la Madonna, o verga e corona\ purpurea del Re. L’Hortus Deliciarum della badessa Herrade si bea di vermi, rospi e serpenti. In una vita perennemente pubblica, cui gli stessi imperatori e i vescovi erano soggetti, penitenze incluse per ogni sorta di reato, che così si dichiarava, comprese la pedicazione e l’irrumatio.
La troppa bellezza allarga il campo fino a renderlo inafferrabile. Roba da “Pange, lingua, gloriosi corporis mysterium”, piangere il mistero del corpo glorioso, se non fosse sacrilegio. O cantarne le lodi con Ulrich Stöcklins di Rottach: “Castitatis in tenorem\ Plasma gignit plasmatorem”, nella castità la forma genera il suo formatore, “haec est virgo non irrigata, sed Dei gratia florigera”, la vergine non irrigata fiorisce per grazia di Dio - secondo i monaci anche Dio desidera la Madonna. L’erotismo è già dell’avvocato bordolese Ausonio, IV secolo, il quale, poeta neoterico maestro di san Paolino di Nola – che è di Bordeaux – e a Treviri di Graziano, il figlio dell’imperatore Valentiniano I, scrisse il verso del mistero cartesiano, “sic et non”, sì e no, carmi nuziali in cui dettaglia come fare la festa alla sposa, cantici alla schiava germanica Bissula, e un poemetto perfino commosso, “Mosella”, dopo un viaggio da Bingen a Treviri – in onore del vino, più robusto che sul Reno o in Franconia.
È un repertorio di poesia transalpina. Senza frontiere, che si traversano ignari: prima degli Stati la vite univa Francia e Germania. L’Europa che non trova radici ne avrebbe due consolidate, per mentalità e linguaggi, l’area del vino e quella della birra. La vite ha prevalso, il vino che accende la lettura: lasciva est nobis pagina, vita proba”, canta Ausonio, il poeta bordolese della Mosella. La Mosella è la Germania più romanizzata - col Sud Tirolo ora italiano: ci facevano il vino. Si fa poesia col vino, si filosofa con la birra? Vandelberto, abate di Prün, sempre area del vino, versificò il calendario, come Francis Jammes.
Ma è ben tedesca, non si può non dirla tale, la tradizione più fertile, poi soffocata da Lutero e l’antilatinità. La Liebfrauenkirche reca sempre la quartina: “Quum divus Marcus Paschabit\et Antonius pentecostabit\et Iohannis Corpus dabit\totus mundus lacrimabit”. Quando la Pasqua viene per san Marco, che in Italia è la Liberazione, la Pentecoste porta a sant’Antonio, il Corpus Domini a san Giovanni, e al mondo tutto lacrime. Il Medio Evo tedesco è ben di tutti – ed è da primato, quello sì: Alberto Magno e Hildegarda, le cattedrali e i mistici, Adamo di Brema, Ugo di san Vittore, Wolfram di Eschenbach, Cesario di Heisterbach. Cesario scoprì il demone dei refusi, Tivillo. A Zell si coltivava il lattucario, che ha l’effetto dell’oppio. Valfredo Strabone, abate di Fulda, in anni calamitosi si diletta all’elogio della cucurbita scrivendone a Grimaldo, abate di San Gallo. Il gallico Orienzio, vescovo della guascona Auch, consola: “La nostra fine non ammette fine, la morte, che ci fa morire, muore perennemente. Per l’eterno moto l’uomo vivrà in perpetuo”. Il tutto mescolato con un Borgognone septipes, da Gourmot scovato nel repertorio di Sidonio Apollinare, che il Calonghi legge alto sette piedi, cioè smisurato. E altre meraviglie.
La sorpresa maggiore è lo stesso Gourmont. Qui erudito, ma a Parigi nel Fine Secolo protagonista della scena letteraria, con i simbolisti Huysmans e Mallarmé, fondatore di riviste (con Jarry, con Gide) e case editrici (Mercure de France), confidente, consulente letterario e patrono di molte disinibite autrici, come Rachilde, e altre del moderno Lgbt. A Natalie Clifford Barney, amore tardivo impudico, scrisse rinomate “Lettere all’Amazzone”. E si volle autore di una “Fisica dell’amore”, malgrado un lupus deformante lo imbruttisse e lo tenesse al chiuso. Aveva sposato Berthe de Courrière, famosa modella, legataria dello scultore Clésinger, che lo accudì generosa fino alla morte, ispiratrice di “Sixtine”, il romanzo più famoso di Gourmont, destinataria di roventi “Lettere a Sixstine” pubblicate postume.
La riedizione è stata curata dal poeta torinese Roberto Rossi Testa - una delle sue ultime cose. Che la fa seguire da un capitolo di “A ritroso” di Huysmans, nel quale è questione di libri latini della decadenza. Ma Huysmans, il vecchio amico di Gourmont che fece professione di “decadentismo”, è fuori linea – Gourmont recluso non ne parlerà più bene all’abate Mugnier, il dagospia del primo Novecento.
È il latino di chiesa – di questo si tratta – minato dalla decadenza politica? Gourmont non lo pesa, né lo mette in classifica. Ma ci trova molta ottima storia. Per esempio dietro il “Dies irae” di Tommaso da Celano. E dietro lo “Stabat mater” di Jacopone. Un contributo notevolissimo dando anche alla storia letteraria cisalpina, italiana, nella lunga tradizione che traccia di cui lo sbocco è appunto in Jacopone, e nel frate minore che scrisse le vite di san Francesco e di santa Chiara. Del “Dies irae”, il giorno del terrore di fronte alla morte, trova il motivo nel libro biblico del profeta Sofonia – quello dei “contro”: i Giudei idolatri, i Filistei, Moab e Ammon, l’Etiopia e l’Assiria, e Gerusalemme.  
Rémy de Gourmont, Latino mistico, Aragno, pp. XV + 348 € 18

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