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sabato 18 novembre 2017

Joyce scrittore italiano

Joyce voleva diventare italiano. Ci ha provato con insistenza. Fece l’abilitazione per l’insegnamento nelle scuole, scrisse in italiano, per “Il Piccolo della sera”, il quotidiano di Trieste (si era offerto come inviato in Irlanda, in una delle tante crisi nazionaliste per l’indipendenza da Londra, al “Corriere della sera”….), tenne lezioni e confereze in italiano. Prese lezioni di canto al Conservatorio di Trieste, cantò all’opera Wagner, “I maestri cantori di Norimberga”. Ma la burocrazia fu più forte di lui.
In Italia da fine 1904 per dieci anni, ha letto a amava D’Annunzio, i romanzi, “Il fuoco” in particolare, il più dannunziano. Ma, di più, si era fatto dantista: Dante è stato per lui una rivelazione. Oculatamente il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione gli impedì nel 1911 di “trasferirsi nel Paese la cui lingua usa ogni giorno, avendola scelta deliberatamente come madrelingua per i suoi figli Giorgio e Lucia”, come scrisse nella domanda per un posto di supplente. Per cinque anni scrisse prevalentemente in italiano. Ma, benché cultore di Dante, Joyce non poteva essere di lingua italiana. Oltre che della cittadinanza, l’Italia è gelosa pure della lingua. Allo scoppio della guerra, Trieste essendo asburgica, dovette lasciare la città e l’Italia.
Non se ne parla, e anche questo è un segno - come se l’Italia non ci fosse nemmeno stata nella vita e l’opera di Joyce. Che invece ancora in “Finnegans Wake” parla e pensa italiano, con Anna Livia Plurabella e altre strutture linguistiche. Gli anni da lui passati in Italia furono fertilissimi. Fra Trieste e Roma, con la prima convivenza in matrimonio con Nora, e la nascita dei sue figli, Lucia e Giorgio (tre con una terza nascita abortita), si ambientò ovunque senza problemi. È qui che si precisa, in alcuni scritti italiani non ricompresi nell’antologia, eversore della lingua e restauratore del pensiero – contro il Rinascimento, secondo la tradizione medievistica di una parte del cattolicesimo (con cui Umberto Eco si troverà in sintonia), contro l’illuminismo e ogni dottrina di progresso.
Silvana Panza – che per linkedin persegue gli stessi meandri joyciani nella scuola secondaria italiana… - riesuma qui alcuni degli scritti della prima antologia, “Scritti italiani”, curata nel 1979 da Gianfranco Corsini, Giorgio Melchiorri, Nino Franck e Jacqueline Risset. Sono scritti informati, anche quelli letterari (Dickens, Defoe, Blake). Segnati dal ghigno anticonformista della “Gente di Dublino”, i racconti che andava scrivendo in inglese, e poi in “Dedalus” o “Ritratto dell’artista da giovane”. Joyce aveva debuttato parnassiano, ricercato, nelle poesie raccolte in “Musica da camera”, 1907: l’impronta è evidente, benché non programmatica. Joyce, studente di lingue moderne all’University College, era stato appassionato dell’Ottocento francese, prima che di Dante e l’italiano. Anche i primi racconti, coevi, si possono rileggere accostandoli a Gautier, Banville, Louÿs. Franco Marucci, nello studio forse più circostanziato sul Joyce italiano (“Joyce”), ritraccia l’Italia anche nelle lettere, e ipotizza nell’esperienza triestina incontri condizionanti con Svevo e, tramite Svevo, con la psicoanalisi.
La neo lingua non gli era d’ostacolo, e anzi sembra incentivarne la verve. Specie se rapportata – fatto di grande rilievo che però viene anch’esso rimosso – allo stato comatoso dell’inglese poetico e letterario dell’epoca, il decennio prima della Grande Guerra. Gianfranco Folena è giunto a ipotizzare con buoni argomenti che il plurilinguismo di “Finnegans” Joyce ha derivato dal suo amato italo-veneto. Anche in quanto scrittore delle prime, impressionanti, parolacce, è da ipotizzare che si sia “liberato” nella parlata vernacolare di Roma e Trieste.
A Trieste, fra i tanti grandi eventi di Joyce, vi fu l’incontro con Ezra Pound, l’eversore dichiarato dell’inglese di maniera, che gli pubblicò “Dedalus” e sarà influenza decisiva per la scrittura joyciana, a cominciare dallo stesso “Ulisse”. Il primo effetto dell’incontro fu sul “Giacomo Joyce”, il poemetto lasciato calligrafo incompiuto, sull’amore di una maliarda a Trieste.
James Joyce, L’Irlanda alla sbarra e atri scritti in italiano, Ripostes, pp. 120 € 16

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