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giovedì 21 febbraio 2019

I nevrotici anni di Pansa a sinistra

Pansa confessa la sua rabbia per le vicende che, a ridosso de “Il sangue dei vinti”, 2003, la ricerca sulle vendette seguite alla Liberazione contro i fascisti, lo hanno visto scomunicato come fascista di complemento: “Non sono più stato ritenuto un rosso come credevo di essere, bensì un nero”. E a tutti gli effetti messo all’indice: “Venni aggredito e messo all'indice da parrocchie politiche che prima stravedevano per me e volevano eleggermi in Parlamento”, come indipendente nelle liste del Pci, a Strasburgo.
Ma molto in realtà Pansa parla delle sue vicissitudini di giornalista. Da Grande Firma, con una solida formazione da storico – una poderosissima tesi, oggi si direbbe da dottorato di ricerca, sulla Resistenza nel Monferrato, il suo paese. Delle “parrocchie” dove ha prestato il suo lavoro, prima e dopo la scomunica. Di quelle romane - non si parla de “La Stampa” né del “Giorno” o del “Corriere della sera”. Con un omaggio speciale a Claudio Rinaldi, che lo volle columnist – rubrichista – a “Panorama” e a “L’Espresso”, col “Bestiario”. 
Pansa spiega che “I vinti” non fu una trovata giornalistica, per un successo di scandalo. Con molte pezze d’appoggio. Per la sua tesi, “Guerra partigiana tra Genova e il Po”, era stato invitato dal sindaco di Tortona Mario Silla, un capo partigiano, a occuparsi anche dei vinti. Con quell’invito in mente, a un convegno sulla Resistenza cui partecipavano personaggi di spessore, Ferruccio Parri e gli storici Gabriele De Rosa e Roberto Battaglia, ne fece proposta, da studente infervorato. Fu rimbrottato, ma non da tutti: Parri gli regalò un assegno di 25 mila lire, tipo borsa per i suoi studi. E nel 1969 debuttava da storico proprio con “L’esercito di Salò”, un saggio che fu apprezzato anche a sinistra – dopo varie edizioni ripubblicato come “Il gladio e l’alloro”.. Del resto anche “Guerra partigiana” diventerà un saggio storico per il grande pubblico, oltre 600 pagine, nella collana accademica di storia Laterza, vent’anni fa – cinque prima dello scandalo.
Un racconto di amarezze. Anche semplice nell’argomentazione: Pansa non propone una revisione della storia, solo dice che i “vinti” ci sono stati. Molti anche in buona fede, traditi dall’entusiasmo  e dalla gioventù. Nonché da un certo senso dell’onore – al centro peraltro dell’ultimo Camilleri, come dire di Pci patentato, visto in tv, l’altro ieri. Un racconto amaro.
Uno sfogo. Anche polemico. Ma misurato, se non autocensurato – involontariamente? Nella parte forse più interessante per i lettori, della sua esperienza di giornalista. Vice-direttore senza poteri a “la Repubblica”, se non per un brevissimo periodo nell’estate del 1980 – quando non trovava nessuno da mandare a Bologna per la strage, nessuno dei cronisti e inviati si faceva vivo né rispondeva ai recapiti d’obbligo… Non ricorda come il gruppo lo abbia messo in disparte, a “la Repubblica” dopo “L’Espresso” di Rinaldi, e a “L’Espresso” dopo “la Repubblica”, confinato, quando ancora era nel pieno delle forze, all’elzeviro settimanale del “Bestiario”.
Malgrado la rabbia che esterna, Pansa non dice che fu “messo all’indice” dal gruppo la Repubblica-l’Espresso, che riteneva la sua casa. E che lui in questo gruppo, controllato giuridicamente dalla famiglia De Benedetti, e editorialmente dal Pci e i suoi derivati, è sempre stato considerato un corpo estraneo. Molto prima de “I vinti”, e anzi da subito. Chiamato da Scalfari e apprezzato per la sua enorme e brillante dedizione al lavoro – sul “pezzo” dall’alba. Col titolo, dovendolo strappare al “Corriere della sera”, di vice-direttore. Ma senza mai voce in capitolo, il “gruppo dirigente” - come Scalfari lo chiamava non gradendolo, quasi ne fosse prigioniero – o struttura redazionale in accomandita al Pci, allora coordinata da Veltroni, osteggiandolo come corpo estraneo. Per sospetto non si sapeva bene di che cosa, ma comunque non “in linea”.   
Completa il memoir una scelta delle lettere ricevute a seguito de “I vinti”, di ringraziamento o esecrazione. A completare quello che Pansa vuole “un ritratto del mondo di oggi”, dei “nevrotici anni Duemila”. Da storico mancato probabilmente sapendo, ma non lo dice, che è da cosa che nasce cosa – la faziosità che oggi i bennati esecrano è stata a lungo virtù riverita, con pochi spazi esenti nei settanta e passa anni della Repubblica.

Giampaolo Pansa, Quel fascista di Pansa, Rizzoli, pp. 235, ril. € 20

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