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sabato 23 febbraio 2019

Dante non sapeva di islam più di Brancaleone

Il viaggio di Maometto tra inferno e paradiso viene qui con la traduzione latina a fronte, quella voluta fa Alfonso X il Savio nella seconda metà del Duecento. Così ognuno può vedere che il mi’raj  di Maometto non c’entra nulla con la “Divina Commedia”, anche nel caso, molto ipotetico, che Dante abbia saputo della sua esistenza, forse per sentito dire da Brunetto Latini (ma anche questo è difficile: Asìn Palacios, che ha messo in circolo l’ipotesi del rifacimento, dice Brunetto Latini attivo a Toledo al tempo della traduzione, ambasciatore di Firenze presso il Savio, ma non ne sa di più): un ammasso informe di immagini imaginifiche, accatastato, poco legato e conseguente, l’aldilà è solo meraviglia e spropositi. 
Il saggio di Maria Corti, “Dante e la cultura islamica”, 1999, che la curatrice Anna Longoni recupera per questa edizione, si segnala per le sue pretestuosità. Rileggendolo, solo si pensa che lei stessa, che “ha voluto per prima questa edizione”, in chiave di dialogo con l’islam, si sarebbe ricreduta, passata la sbornia per le fonti arabe – per il “di tutta l’erba un fascio”.
I viaggi nell’aldilà sono un genere narrativo, affollato. E tradizionale: nel cristianesimo se ne censiscono da subito, già nel II secolo, e poi nell’islam. Anche variegato: il “Libro della Scala” non parla delle peccatrici, mentre Ibn Abbas, il prototipo dei mi’raj, ne è pieno. Ma, come è delle apologie, con molti passaggi ricorrenti. L’“interdiscorsività” che Corti introduce è un’ovvietà, categoria non diversa o maggiore del senso o sapienza comune. Si comunica tra lingue e fedi o idee diverse, le nozioni volano, i “prestiti”. E si vive in un contesto, in una tessitura di rapporti. Il che vale – dovrebbe – nei due sensi.
Longoni questo lo sa, e lo dice: “Nei racconti dei viaggi nell’aldilà e delle visioni l’intreccio delle tradizioni ebraiche, cristiane e islamiche è così stretto che risulta difficile stabilire i rapporti fra i testi e individuare l’origine degli elementi che risultano comuni”. Ma l’argomento mantiene in piedi: il tema “Dante islamico” svolge come se i trattatisti e narratori arabi non avessero preso niente dai “viaggi” precedenti, cristiani, pieni già di luce e di angeli, Gabriele, Raffaele, cherubini, del primo o del settimo cielo, del Trono, della morte. Perfino il “Credo” è simile nelle due religioni, da dove vogliamo incominciare?
Pesa anche l’uso esteso dell’arabistica senza entrare nel merito dell’arabistica stessa, degli orientamenti, le ideologie, le “tradizioni”. Specie da parte di Anna Longoni nella estesa introduzione – dove pure si cautela con Louis Massignon, con l’ipotesi poligenetica, essendo questi “viaggi” genere frequentatissimo dal primo evo cristiano, e genere letterario, non canonico, di lbere fantasie e immagini. Largo credito facendo persino alle immagini e l’iconografia arabe, che invece sono carenti – e semmai sono islamiche ma persiane o indiane, civiltà curiosamente non esplorate dall’intertestualità. 
“L’esperienza ludica dantesca” (Corti) - il calco, la citazione mascherata - sarebbe stata possibile (significativa) di un testo popolare, altrimenti è un plagio. Ma il mi’raj  in questione non era testo popolare, non se ne conosce una benché minima diffusione, anche se disponibile in tre lingue – è un testo composito, che “raccoglie e fonde varie narrazioni” (Longoni), fatto tradurre dal Savio in un anno imprecisato, attorno o poco dopo il 1260 (la traduzione francese, dal castigliano, è datata 1264). E Dante non mostra conoscenza dell’islam, non più di Brancaleone.
Quello cristiano è l’unico mondo di Dante – è Maometto che, in viaggio, si confronta con ebrei e cristiani. È una mancanza? Ma è scorretto imputargli un non politicamente corretto all’epoca, di uno che conosceva a fondo l’islam e tuttavia lo danna - tanto meno per nascondere un plagio. Non c’erano due mondi, c’era un solo mondo, all’epoca di Dante e dopo – almeno fino alla “guerra del petrolio” e al khomeinismo. È una mancanza? Ma è scorretto imputargli un non politicamente corretto all’epoca, di uno che conosceva a fondo l’islam e tuttavia lo danna - tanto meno per nascondere un plagio.
“La Spagna di Alfonso X (alla corte del quale si reca in ambasceria Brunetto Latini nel 1260), la Bologna di un frate converso che lascia una copia del ‘Liber Scale’ allo Studium domenicano, la Firenze di Ricoldo da Montecroce, la Verona di Fazio degli Uberti: non può non colpire che i luoghi che in Occidente hanno avuto a che fare con il racconto del mi’raj siano, in vario modo, anche legati alla biografia di Dante”. È l’argomento principe di Anna Longoni. In un thriller funzionerebbe.

A.Longoni (a cura di), Il Libro della Scala di Maometto, Bur, pp. LXXIX + 367 € 13

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