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lunedì 11 febbraio 2019

Speriamo che la Cina non fallisca


Musu, emerito di Economia politica a Ca’ Foscari, è problematico. Prodi, nella prefazione, dà il “miracolo cinese” un po’ troppo per scontato. Partendo dal presupposto che esso è soprattutto “politico” – che invece sembra la sua debolezza: oltre che per lo status di potenza industriale avanzata acquisito in pochi decenni, con “l’entrata massiccia, in certi casi dominante, nelle medie tecnologie”, la Cina “presenta oggi se stessa non come un’anomalia ma come punto di riferimento della politica mondiale”. Ha attriti commerciali con gli Stati Uniti, ma lì potrebbe intervenire l’Europa: l’associazione alla Cina dei 16 paesi dell’Europa orientale, il “16 + 1”, non è amichevole verso la Ue, che però “ha invece un ruolo insostituibile nel tentare di ammorbidire le tensioni” fra i due grandi paesi.
Musu è perplesso, rivedendo quello degli Stati Uniti come altri risentimenti, dei paesi asiatici grandi e piccoli, Giappone e India, Malesia e Filippine, contro la marcia trionfale che la gestione Xi Jinping a Pechino ritiene di poter esercitare sul continente e fino in Africa col programma “Via della Seta”. Ritiene di potersi comprare tutto, e questo non piace, in Asia e perfino, da qualche tempo, in Africa: si parla apertamente di imperialismo.
Ma di più pesa l’incognita politica interna. Non potendosi pensare a un regime dittatoriale e censorio a tempo indefinito. Soprattutto dopo la grande crescita economica e la creazione di un vastissimo ceto medio urbano.
Senza omettere i problemi economici insorgenti. Il “miracolo cinese” non ha mai sperimentato, nei suoi trent’anni, un rallentamento, a cifre più consone ai ritmi di sviluppo mondiali, e ha difficoltà di aggiustarsi a essi. Si discute molto ora a Pechino di abbandonare il tasso di cambio fisso del renminbi sul dollaro, e di abbandonare il vincolo di un disavanzo pubblico di bilancio entro il 3 per cento del pil. Tutto perché il tasso di crescita è sceso dall’8 o il 9 per ceno al 6. Il nervosismo non è indice della fragilità politica del regime?
Musu non pone apertamente il problema. Ma sa che incombe. Fa forte l’elogio di Xi, “da più parti equiparato a Mao Zedong per influenza, carisma e potere” – che non è vero. Dice la Cina “la prima economia del mondo” – che è vero ma in parte. E dà l’Occidente per finito (“sta venendo meno la coesione, e quindi la centralità, dell’Occidente”) – che può essere vero. Ma sa che la Cina “è una potenza complessa”, piena di “contraddizioni”, “non solo sotto l’aspetto economico, ma anche sotto il profilo delle disuguaglianze sociali, dell’autoritarismo politico e dei persistenti squilibri territoriali e ambientali”. Fino a scongiurare quello che non nomina, anche se evidentemente lo pensa, anche lui: “Il peso e il ruolo economico ormai assunto dalla Cina sulla scena internazionale non rendono auspicabile un suo fallimento, perché questo comporterebbe conseguenze disastrose per l’intera economia mondiale”.
Ignazio Musu, Eredi di Mao. Economia, società, politica nella Cina di Xi Jinping, Donzelli, pp. 216 € 15,30

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