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venerdì 15 febbraio 2019

Il mondo com'è (367)

astolfo


Kappler – Willy Brandt, il cancelliere socialista tedesco tenace oppositore di Hitler, in esilio fin dal 1933, che s’immortalò a Varsavia il 7 dicembre 1970 chiedendo perdono in ginocchio nel ghetto, si adoperò insistentemente per la grazia a Kappler, il boia delle Fosse Ardeatine. Tonia Mastrobuoni lo spiega sulla “Repubblica”, sulla base di un libro in uscita del giornalista e storico Felix Bohr, “Die Kriegsverbrecher Lobby”, la lobby dei criminali di guerra. Un assunto forte, ma provato.
Due settimane prima di Varsavia, Brandt ha voluto un colloquio con Emilio Colombo, presidente del consiglio, appositamente per chiedere, “con insistenza”, la grazia per Kappler. Che per lui è un “condannato” e non un “criminale”. Non fu la sua prima mossa a favore dei “condannati di guerra” Non molti peraltro, cinque in tutto, e anche questo incuriosisce: “i quattro di Breda”, condannati in Olanda e detenuti a Breda fino al 1989, e Kappler. E non sarà l’ultima. “La sua insistenza nella questione dei criminali di guerra”, Mastrobuoni cita Bohr, “superò quella di tutti i suoi predecessori e i suoi successori”. Non dirà Kappler “criminale” neanche nelle memorie, quando da tempo era fuori dalla politica e non aveva bisogno di popolarità.
A Kappler Brandt si era interessato da subito, all’inizio della carriera politica, da sindaco di Berlino. Nel 1963 scrisse all’ambasciatore tedesco a Roma per sensibilizzarlo a favore di Kappler. Da cancelliere fu il suo unico motivo di interesse per l’Italia. In un’intervista a “Stern” nel 1973, ancora cancelliere, si vanterà di avere “sfinito di parole” gli interlocutori italiani “per liberare un uomo dal carcere” – suscitando questa volta reazioni polemiche, sia in Italia che in Germania. “Il libro di Bohr”, scrive Mastrobuoni, “dimostra inequivocabilmente che Brandt usò persino il Nobel per la pace che gli fu assegnato nel 1971 per aumentare le pressioni sul caso”. Mandò a Roma Leo Bauer, un giornalista ebreo ex comunista, reduce dai gulag in Siberia, per sondare il Pci sulla grazia – ricevendone un rifiuto.
Bohr non si spiega l’insistenza di Brandt. Cioè, se la spiega, ma male. Brandt voleva fare il capopopolo. Ma allora contro ogni possibilità, un socialista non avrebbe mai avuto il voto dei reduci nazisti. Oppure perché, dice,  “in Germania quasi nessuno conosce quell’episodio”, le Fosse Ardeatine. Che però non è vero.
L’eccidio fu specialmente crudele, “omicidio continuato”, per il quale Kappler il 18 luglio 1948 era stato condannato all’ergastolo dal Tribunale militare di Roma. Con una pena accessoria di quindici anni per “requisizione arbitraria” di 59 kg. di oro alla comunità ebraica romana. Era ufficialmente una rappresaglia contro l’attentato di via Rasella, nel quale erano periti 33 soldati tedeschi. Ma fu operata con modalità crudeli e non regolamentari: i rastrellati furono uccisi uno per uno, ed erano stati scelti con criteri non chiari. Dei morti identificati, 322 su 335, è accertato che 39 erano militari della Resistenza, tra essi il capo, Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, 52 del partito d’Azione, 68 di Bandiera Rossa, 75 ebrei. Gli altri furono presi tra i detenuti comuni. I gappisti di via Rasella, gli autori dell’attentato all’origine dell’eccidio, tutti del Pci, la fecero franca, e con loro ogni altro detenuto del Partito. Cinque ostaggi in più dei 330 richiesti, portati alle cave per errore, furono uccisi per evitare testimoni.
C’è anche da dire che i tedeschi non propagandavano le rappresaglie, che pure sono atti esemplari. Forse sapevano di essere nel torto. Sicuramente agivano per astio. Sparare a 335 persone, a una a una, la cosa prese ventidue ore, ne richiede molto. Alla mattanza volle partecipare un pilota SS, il capitano Priebke, che aveva deportato i Ciano in Germania, ai comandi dell’aereo che doveva portarli in esilio in Spagna – i tedeschi, che si vogliono ligi alle leggi, sono soliti tradire.
  
Brandt, bisogna dire, non era solo. La Germania ha fatto molto per identificare i criminali di guerra tedeschi – per quelli attivi in Italia ha fatto più dei tribunali italiani. Ma i tribunali e gli studiosi. Gli eccidi tedeschi in Italia, inclusa Cefalonia, sono stati studiati dai tedeschi: 6.951 fascicoli per strage a carico di SS e militari della Wehrmacht che poi sono stati archiviati in Italia. Solo storici tedeschi si occupano dei soldati italiani deportati in Germania. I politici invece, di ogni partito, hanno sempre insistito per derubricare i reati, i politici tedeschi. È del resto la Germania il paese che ha avuto la più ampia e determinata Resistenza, ma non ha una festa della Liberazione, e non ha il culto delle vittime tedesche di Hitler – nemmeno sotto forma di studi o storie.
La liberazione di Kappler dominò i rapporti Italia-Germania negli anni 1970, specie gli anni di Andreotti e del compromesso storico, e culminò con la sua finta evasione dall’ospedale del Celio, dove peraltro il colonnello delle SS era uomo libero, a Ferragosto del 1977. Un’operazione da servizi segreti, sceneggiata con sufficienza, quasi per dichiararla una “sceneggiata”: Kappler, che aveva 72 anni ed era malato terminale, la notte fra il 14 e il 15 agosto si sarebbe calato dalle “mura”, che il Celio non ha, non è un forte, è un ospedale moderno, con l’aiuto della moglie Anneliese. La quale di anni ne aveva, è vero, solo 52, ed era tenace e combattiva, ma aveva sposato Kappler solo nel 1972, a 47 anni, proprio per darsi questo scopo nella vita – una fanatica.
Il criminale di guerra per eccellenza in Italia, condannato già nel 1947, ha beneficiato in Germania da subito di un sostegno praticamente totale delle forze politiche e dell’opinione pubblica.
Prigioniero di guerra degli inglesi, come tale era stato consegnato all’Italia, e fu giudicato da un tribunale militare. Godendo delle disposizioni di favore della Convenzione internazionale sui prigionieri di guerra. In pratica, l’obbligo a essere trattato come un qualsiasi detenuto italiano.
Prima di Brandt, avevano chiesto la liberazione di Kappler l’associazione tedesca dei reduci, e la lega dei rimpatriati, gli ex prigionieri di guerra. Dopo Brandt, furono i cardinali e i vescovi cattolici tedeschi a sollevare il caso Kappler. Scrivendo nel gennaio 1972 varie missive al presidente della Repubblica, che era Saragat. A Saragat successe Leone, che Andreotti aveva fatto eleggere con i voti della destra neofascista, e le pressioni si intensificarono. Il 12 marzo 1976, presidente del consiglio Moro, Arnaldo Forlani ministro della Difesa dispose il passaggio di Kappler dal carcere militare di Gaeta all’ospedale del Celio, per motivi di salute.
Poi le pressioni a favore di Kappler si mescolarono a quelle politiche, compartite dalla Germania con gli altri grandi occidentali, alla prospettiva dell’ingresso del Pci nel governo. Erano pressioni, scriverà Andreotti, che andavano prese con attenzione, perché la Germania, governata allora da un altro cancelliere socialista, Helmut Schmidt, aveva aiutato e aiutava l’Italia a governare la lira e il debito – col famoso prestito su garanzia dell’oro della Banca d’Italia.
Il provvedimento di Forlani fu firmato alla presenza dell’ambasciatore tedesco a Roma. Il provvedimento era in realtà di sospensione della pena. Il Procuratore Militare emise di conseguenza un provvedimento formale in tal senso, che fece notificare a Kappler al Celio. Dopodiché il colonnello delle SS tornava libero, anche se eleggeva a suo domicilio l’ospedale militare. A novembre il cardinale vicario di Roma, Ugo Poletti, esortò in una pastorale i romani a non accrescere l’odio per la liberazione di Kappler. Nella primavera successiva, 1977, Anneliese Kappler vendeva le memoria che avrebbe scritto dopo la liberazione. Il 27 giugno il senatore Tullio Vinay, pastore valdese eletto come indipendente nelle liste Pci, consegnò ad Andreotti una petizione a favore di Kappler di personalità protestanti tedesche. L’unico problema era come fare arrivare Kappler in Germania, da dove, in quanto cittadino tedesco, in base alla Costituzione, non avrebbe comunque potuto essere estradato. E questo si fece a Ferragosto.
Andreotti fronteggiò alla Andreotti le rimostranze. Della fuga fece responsabile un onorevole pugliese,Vito Lattanzio, che aveva provvidenzialmente nominato alla Difesa. E lo spostò ai Trasporti, con Marina Mercantile, un doppio incarico che a Lattanzio piaceva di più.

Multipolarismo – Non è di oggi, l’America da tempo richiede un impegno maggiore, finanziario e logistico, delle potenze locali, seppure in un disegno concertato “occidentale”, con gli stessi Stati Uniti. La Dottrina Guam o Dottrina Nixon, del 1969, puntava a spostare il peso della guerra in Vietnam sullo stesso Vietnam e altri paesi asiatici. Henry Kissinger, collaboratore e poi segretario di Stato di Nixon, è sempre stato multipolare - la storia si lega alla nemesi, ha insegnato da giovane, da storico della Restaurazione, e questo bisogna ora evitare, in epoca nucleare non c’è ritorno. Ma con un segno distinto di “condivisione”: delle spese e delle responsabilità. Anche verso la “protezione” americana, militare, strategica ed economica: pagando di più, pro quota, l’impegno militare americano, e bilanciando l’ex-import con gli Stati Uniti, motore economico dell’Occidente.
Il mondo multipolare è anch’esso in 1984, diviso in tre, Oceania, Eurasia, Asia Est – Oceania è la Nato.

New York – È stata battezzata come Nouvelle Angoulême, e fu francese, acadica, dei francesi del Canada, prima di diventare New Amsterdam. Il nome francese glielo diede nell’aprile del 1524 l’esploratore fiorentino Giovanni da Verrazzano – lo diede alla baia, non all’abitato che non c’era. Verrazzano navigava per conto della corona di Francia, su una nave chiamata La Dauphine.

Ora italica - Fino al 1800, fino all’avvento dell’“ora francese”, era in vigore in molte parti d’Italia l’ora italica, detta anche ab occasu, che divideva il giorno in ventiquattro ore partendo dal tramonto. La notte era quindi interamente del giorno successivo.
Gli orologi a ora italica segnavano le ore fino al tramonto. L’alba non c’era, l’ora prima si spostava sulla variazione del tramonto nell’arco dell’anno. Lo stesso momento della giornata era individuato a ore diverse: mezzogiorno coincideva con l’ora 19ma in inverno, e con la 16ma in estate.
Tracce di’ora italica sopravvivono in alcuni detti: portare il cappello sulle ventitré significava calato sugli occhi per difendersi dai raggi del sole basso verso il tramonto.

astolfo@antiit.eu

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