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venerdì 16 ottobre 2020

Senza speranza alla guerra di Spagna

Il 20 luglio “il cannone colpiva regolarmente come il cuore di tutta quella folla, al di sopra dei deboli colpi di fucile che partivano da tutte le finestre e da tutte le porte, al di sopra delle grida, dell’odore di pietra cada e di bitume che montava da Madrid”. Un soldato ha disertato lasciando la caserma. Al bar gli chiedono ansiosi della caserma. Lui spiega che il comandante ha detto: “Bisogna salvare… la Repubblica”. “La Repubblica?” “Sì. Visto che è caduta nelle mani dei bolsecvichi… degli ebrei e degli anarchici”. È il terzo capitolo del racconto epico, da parte repubblicana, della guerra civile appena avviata in Spagna. Il racconto di un Malraux non più giovane volontario non è ironico, se non involontariamente: la resistenza al bar, la diserzione di un solo soldato accasermato, le ragioni del colonnello, anche lui ben repubblicano.
Questa prima parte s’intitola “L’illusione lirica”. È solo l’inizio della guerra ma non sarà diversa dopo: il titolo “La speranza” sembra antifrastico. Anche se titola l’ultima parte, la battaglia di Guadalajara, dove le truppe repubblicane si difenderanno dall’attacco italiano. E anche se i miliziani saranno infine inquadrati,  e se ne tenterà perfino l’addestramento formale, a muoversi organizzati e disciplinati, e impegnati a fare qualcosa piuttosto che niente, dividersi per partito, contarsi, ricontarsi. Più che l’entusiasmo, contano in guerra i mezzi e l’organizzazione: Malraux lo fa spiegare alla fine dell’“Illusione lirica” dal capo dei servizi di sicurezza, che chiama Garcia. Mentre “le rivoluzioni sono le vacanze della vita. C’è sempre un po’ di teatro all’inizio di ogni rivoluzione”.
Di curiosità sterminata, Malraux è dannunziano il giusto. Impegnatissimo da giovane contro le ingiustizie del colonialismo, antifascista in prima linea, “Saint-Just dell’antifascismo”, già autore rivoluzionario itinerante di due romanzi subito famosi, “I conquistatori” e “La condizione umana”, organizzatore e comandante in Spagna a luglio del 1936, a trentacinque anni, col grado di colonnello e divisa di Lanvin, di una squadriglia internazionale nella guerra di Spagna, “Escadrilla España” o “Escadrilla Malraux”, per la quale mobilita risorse private, volontarie (stanti le reticenze del governo socialcomunista francese, il Fronte Popolare di Léon Blum, malgrado il coinvolgimento dichiarato di Germania e Italia), resistente successivamente in Francia contro l’occupazione, anche se non dalla prima ora, anzi tardi, nel 1944 – senza negare l’amicizia con Drieu La Rochelle, suicida sotto processo per collaborazionismo. Il vero romanzo è di Malraux stesso, uno scrittore, anche uno riflessivo, con la febbre dell’attivismo. Ministro della Cultura di De Gaulle, ripulirà le facciate di Parigi, avviando una gigantesca opera in tutta Europa di recupero urbano e restauro. Qui racconta la guerra di Spagna. In tempo reale, si può dire: avvia nella primavera del 1937 - fermi o abbattuti i suoi velivoli, già oggetto di manutenzione radicale e recuperi fortunosi - il racconto e lo pubblica a ottobre.  Spesso fuori quadro, agitato più che efficiente, nel romanzo come nella propria mitografia. Ma sapiente, fin dalle prime battute, sui connotati reali e gli sviluppi della guerra. E dolente: rassegnato anche se combattivo, per il dover essere.
C’è già pure la terminologia sclerotica, sovietica, o di cliché, non si quanto partecipe o critica, che avrebbe dominato per decenni: il “volontario”, il “militante di base”, il “compagno di strada”, l’“attivista”. Gli uomini si salutano col pugno, gridando “Salud!”, come “un coro costante e fraterno” – “la più grande forza della rivoluzione è la speranza”. Hanno facce giovani e allegre. E per qualche verso bizzarri nella narrazione. Nell’entusiasmo sempre divisi, anche ostili gli uni agli altri, per fazioni politiche e per sottosezioni, gruppi, squadre dello stesso orientamento o partito, sindacalisti, anarchici, socialisti di destra, socialisti di sinistra, pacifisti - tutti eccetto i comunisti - da subito, subito dopo i primi giorni del “sollevamento”.
Malraux sarà con questo romanzo un “utile idiota” a Parigi dell’apparato propagandistico di Stalin, di Willi Müntzenberg, mobilitato per testimoniare l’internazionalismo, contro il “Ritorno dall’Urss”, deluso e acrimonioso, che Gide pubblicava in contemporanea con “La speranza”. Ma ha qui, a saperlo leggere, tra le tante divisioni e leggerezze del fronte repubblicano, un’anticipazione dello stalinismo feroce che stava per prendere il sopravvento, la grande disfattista novità della guerra civile in Spagna. Con un occhio già misericordioso, quasi presciente della loro sorte sotto i colpi dei comunisti, per gli anarchici - “E Cristo? Un anarchico che ce l’ha fatta”.
Il racconto in sé è poca cosa. Organizzato, a capitoli alterni, tra le vicissitudini della squadriglia, che si chiama España ma per la quale Malraux utilizza soprattutto i volontari italiani (tre essi “Scali”, uno dei personaggi principali, bombardiere e intellettuale raffinato, un po’ Chiaromonte un po’ lo stesso Malraux) e quelle dei gruppi di ferrovieri, sindacalisti, operai, contadini, giovani borghesi, etc., nella guerra di terra, tiene alla lettura per il ritmo che Malraux sa mantenere equilibrato, fra la concitazione e l’aneddoto liberatorio. Ma niente resta, nessun vero personaggio, nessuna impresa. Lo stesso Malraux si frantuma in più personaggi o spicchi di personaggi, Magnin, Manuel, Scali, et al. Solo emerge una indomabile confusione, o allegria dell’agitazione, volontaria, volontariamente disorganizzata.
Resta anche, stranamente per un racconto prolisso e da instant book, e forse contro le intenzioni dell’autore, l’analisi delle forze in campo: delle motivazioni, gli obiettivi, le risorse. Molte storie della guerra di Spagna sono state scritte, ma il romanzo di Malraux sembra più nuovo e più vero.
Il franchismo viene tuttora analizzato negli effetti e non nelle cause – come il fascismo in Italia del resto (le esercitazioni sulle cause del fascismo sono vecchie di almeno mezzo secolo). In una prospettiva ancora politica invece che storica – che aiuterebbe di più. Ma di una politica squilibrata, velleitaria, che si propone fini, per buoni o cattivi che siano, per cui non ha i mezzi – i mezzi intellettuali, evaporato il sovietismo.
Con un quadro, all’ultimo capitolo della “Illusione lirica”, che anticipa in breve, in due pagine, la storia vera della fine della Repubblica in Spagna che la storiografia, anche qui, ancora non recepisce – non capisce? non vuole? Malraux se lo fa spiegare, anche questo, dal solito Garcia: ci sono stati due colpi di Stato contro la Repubblica, uno è il pronunciamento, dei generali e le “vecchie famiglie”, ed è fallito, l’altro (siamo ancora ad agosto-settembre del 1936 ma “Garcia” ci vede chiaro), “è degli “Stati fascisti”, di “organizzazione italo-tedesca, aviazione italo-tedesca”. E non tanto tedesca quanto italiana, di Mussolini “spada dell’Islam”, che organizza i Mori in Marocco, e a difetto manderà in Spagna gli italiani – i Mori in Marocco, il Tercio, la Legione Straniera spagnola, è il corpo che Franco legittimamente comandava prima della guerra civile, ma Mussolini ha avuto un ruolo, che va indagato.  
Un’epopea curiosamente rassegnata quando ancora c’era entusiasmo. Benché da un punto di vista repubblicano a oltranza. Di un volontarismo tanto entusiasta quanto imbelle. E maschile: non ci sono donne in questo lungo, particolareggiato racconto di guerra: “La speranza” è all male – il nome Ibarruri ricorre un paio di volte, ma bisogna sapere in proprio che era una donna. Al racconto della resistenza al bar segue un quadretto tragicomico: le squadre d’assalto repubblicane hanno rimediato un cannone e lo usano come un pistola, o una catapulta: non sanno puntare, non sanno che l’affusto va ancorato, le granate vanno dove capita.
La grafia dei nomi è rispettata, un miracolo per uno scrittore francese – eccetto che per l’eroe italiano della squadriglia, uno che ha lanciato i volantini su Milano dopo De Bosis, è stato abbattuto dall’aviazione di Balbo, è stato condannato a sei anni di confino a Lipari, da cui è evaso per portarsi in Spagna, e morirà in Spagna in azione, ma si chiama Marcelino, con una sola l.
Si legge oggi come un  trattamentone da film - che seguirà due anni dopo - più che un romanzo, di personaggi e intreccio. I dialoghi sono continui, frantumati, una sorta di sceneggiatura.
Nuova traduzione di Giovanni Pacchiano, con la vecchia introduzione di Enzo Golino.
André Malraux, La speranza, Bompiani, pp. 480 € 16




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