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lunedì 19 aprile 2021

Il cancellatore solitario dei classici

“Un lungo articolo” dedicato a Dan-el Padilla Peralta dal “New York Times”, “(forse troppo lungo)”, spinge Bettini a interrogarsi sul senso della denuncia dei classici con cui questo professore di Classics a Princeton da cinque anni s’illustra. E s’arrampica sugli specchi: bisogna capire l’America, è una nazione composta di molte “comunità”, di neri, “asiatici di ogni provenienza, «Latinos» che di latino hanno solo il nome”, in Italia è diverso, “noi i classici ce li abbiamo in casa”, e “soprattuto, però, da noi gli «altri», le comunità, non ci sono”.
Ma che vuol dire, che c’entrano gli studi classici? Bettini s’acquieta nel peggiore relativismo, di chi si arrende senza nemmeno essere stato puntato o minacciato, e in cui tutto si equivale, anche l’improntitudine e l’arroganza.
In America ci sono le “comunità”, vigili, argomentative, combattive, egualitarie, perché ci sono stati e ci sono i classici. Trenta milioni vi hanno cercato rifugio in questi ultimi trenta anni dall’Asia, dal Sud America e dall’Africa perché ai loro paesi non avevano e non potevano pretendere nulla di quanto hanno in America: mezzi di sopravvivenza, per quanto poveri, cure, accudimento, anche legale, istruzione. Per un fondo di civiltà, comunitaria, per quanto “bianca”, e legale, prima che per un fatto di risorse, o di migliore (non tutto sperperato, rubato) uso delle risorse. Per il concetto di pubblico come distinto dal privato, dagli interessi privati e personali. 
Fra tutte le culture “comunitarie” è solo in quelle classiche che si trovano i concetti di libertà, democrazia, uguaglianza. E di interesse pubblico. E di comunità. Non c’è più eroine e femministe della classicità greca e anche romana. Tutte le battaglie per l’uguaglianza, anche afro-americane, da Toussaint L’Ouverture ad Haiti a W.E.B. DuBois e Martin Luther King Jr., si argomentano e si combattono su questi fondamenti. Roma era razzista, dove? L’impero non fu grande e duraturo perché si basava sulla cooptazione allargata e sul libero movimento delle persone?
E l’insegnamento non ha, non lo dice la parola stessa, una funzione pedagogica, educativa? Dei classici come del pleistocene? Che ci sta a fare Padilla Peralta, che ci sta a fare Bettini?
Si argomenta contro i classici denunciandoli come fondamento della “civiltà occidentale”. E questa trasponendo, con non sottile slittamento, malizioso, in “civiltà bianca”. Da cui poi è facile scivolare al “suprematismo bianco”. Ma nei classici, nello studio dei classici, o non nel loro non studio, nel rifiuto dello studio?
Padilla Peralta, “dominicano di nascita cresciuto a New York” nel suo profilo wikipedia, oggi 35 anni, è stato a 29 professore di Latino e Greco alla Columbia e poi a Princeton. A Princeton si era formato, venendo da una delle migliori scuole secondarie di New York, Collegiate. È da qualche anno uno dei più esposti contestatori della “civiltà bianca”. Pur essendo uno dei migliori “prodotti” di questa civiltà: dove altro un bambino immigrato a 4 anni con la mamma, cresciuto fino a nove anni in “rifugi per i senza casa” (case popolari) del comune di New York, avrebbe frequentato le scuole migliori, si sarebbe laureato e addottorato a Princeton, ne sarebbe divenuto professore associato a trent’anni? Pur essendo un illegale, uno “senza documenti” – gli Stati devono reggersi con le leggi, oppure no?  
L’articolo del settimanale del “New York Times” due mesi fa, il 22 febbraio, è molto lungo in effetti, lunghissimo. Ma perché vuole dare una lezione, oltre che dei “teatri” di Padilla Peralta (gli ottanta allievi “schierati” come in un foro romano), che sempre vengono bene sui giornali, fanno colore, di come – ottimamente - i classici hanno lavorato nella “civiltà” americana.
Maurizio Bettini, Se l’ultima tentazione è cancellare i classici, “la Repubblica” 17 aprile
https://www.nytimes.com/2021/02/02/magazine/classics-greece-rome-whiteness.html

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