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mercoledì 16 febbraio 2011

Il mondo com'è - 56

astolfo

Corruzione– Come quantità non ce n’è probabilmente più in Italia che in Francia o Gran Bretagna, paesi di eguale popolazione, e sicuramente meno che in Germania. Ma in quei paesi è tradizionale, legata al potere, mentre in Italia è un’insorgenza democratica: raccomandazioni, licenze, sussidi. In quella forma è produttiva: si spende di più per lavorare più rapidamente, e si vede dalle opere pubbliche, dai loro tempi, i costi, la tenuta. Nella forma italiana è dissipatrice.
C’è un limite alla funzione democratica della corruzione spicciola, oltre il quale essa diventa accumulo sperequativo (di cariche, retribuzioni, pensioni, sussidi), o amplia i disservizi in misura tale che anche il beneficio particolare ne è eroso. Per esempio per ferroviere che abbia bisogno di spostarsi in città, o ricoverarsi in ospedale. Come per l’infermiere con doppia occupazione che debba fare il pendolare. La sperequazione viene corretta, è subito materia di denuncia. Il disservizio invece no: è superiore all’interesse particolare. È come il crimine, ha bisogno di un esercizio superiore della legge, e prima ancora di una legge che lo punisca.

Democrazia - È bella e miserabile. Rapace anche.
Non ha contenuti. A meno di non imporle delle regole. Ma allora l’incessante movimento di emersione – alla luce, alla libertà, alla dignità – della melma umana, che è la sua caratteristica, rischia d’incepparsi.

È estenuata quando è apparente o totale: i benefici particolari sono sommersi dal danno generale. È muscolare se funziona all’opposto, per un benessere generale, anche contro un danno per molti. Benefici. Tipico il caso della Gran Bretagna, dove Margaret Thatcher, invisa a gran parte del suo partito, ha governato per dieci anni con solide maggioranze, imponendo un ordine faticoso, irto di sofferenze reali, disoccupazione, emigrazione, vincoli ai consumi, e perfino una guerra per alcuni scogli remoti. Thatcher ha finito per rimettere in sella i privilegiati e i potenti, ma quasi contro il loro volere, e comunque col supporto determinante del ceto medio, che fa le maggioranze, e che il disordine precedente aveva annichilito. È anche riuscita a domare le bestie feroci degli stadi, gli animals, dove oggi anche le mamme, i nonni e i bambini possono divertirsi in allegria.
Si dice in questi casi che la maggioranza ha ceduto a una minoranza, ma ha ceduto in realtà a una ragione e a un beneficio, anche se indiretti. La democrazia è un scelta costante.

È bella (funziona) perché è mutevole. La rappresentanza popolare, la divisione dei poteri, la mediazione incessante sono poca cosa rispetto al ricambio. Morfologicamente è un caleidoscopio, lento, di gruppi di ogni colore sociale che entrano nel potere, ne comprendono i meccanismi, se ne avvantaggiano, e lo rivitalizzano. È il meccanismo della speranza rinnovata.
Le democrazie bloccate – quella italiana, quella giapponese – possono produrre più guasti, pur restando in un ordinamento democratico (elezioni periodiche, libertà di organizzazione e espressione), di un regime totalitario. Per esempio, in Italia, l’enorme numero di morti politici, la corruttela elevata a criterio d’ordine (la spartizione o lottizzazione), l’inefficienza e gli altissimi costi delle opere e dei servizi pubblici. In una tale situazione il sistema dei controlli (checks-and-balances) è d’altronde regolarmente inceppato. Mentre le istituzioni democratiche fatalmente derivano all’inconsistenza: sono simulacri la Rai e i media della libertà di opinione, o il Csm della divisione dei poteri, e più spesso costruiscono una ragnatela impenetrabile nei congegni della democrazia.
Mutevolezza non è incostanza: ogni esperienza democratica deve potersi realizzare. Ma si completa solo se poi si mette da parte, si completa democraticamente. Un governo interessato a una gestione ferrea del territorio cederà il posto a un governo spontaneista, che a sua volta favorirà un governo unicamente interessato al sociale, eccetera. Un potere democratico si compie nel momento in cui cede il passo.

Il cambiamento è necessario per mantenere aperta e diffusa l’opinione pubblica, dandole una funzione di controllo realmente popolare, invece che, come è, di parte,e più per gli interessi costituiti e opachi. Solo così si dà un senso democratico alla cultura di massa, che altrimenti è niente più di un mercato di consumo.

Democrazia Cristiana – Tre punti sono assodati nella storia, che non si fa, della Democrazia Cristiana: 1) l’Italia è “democristiana” anche nelle regioni comuniste, dove è comune il solidarismo, le amicizie cioè e i favori, in ragione del bisogno, invece dei diritti; 2) la Repubblica è il vero Risorgimento, con l’ingresso di tutti nella vita pubblica; 3) la Repubblica democristiana è la vera rivoluzione capitalistica, e quindi liberale, italiana: consumi, lavoro, risparmio, mobilità, nel quadro di un reddito che si moltiplica e si diffonde, grazie alla scelta dell’atlantismo e dell’europeismo. Anzi quattro: il quarto è l'eversione delle istituzioni, la giustizia in primo luogo, la burocrazia, la Rai e gli enti pubblici, a uso di partito e quasi privato. Ma questo è noto e studiato, anche perché nel frattempo ha backfired.
L’Italia più ricca è la più cattolica: Lombardia, Triveneto e, in parte, l’Emilia. È l’Italia dei Borromeo, della Controriforma: del “lavorerio”. Secondo Max Weber, “Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo”, il secondo dei grandi saggi sul captale in ambito cristiano, il pietsimo, che si lega alla vecchia ascesi medievale, contribuisce al ricuito risparmio-investimento. Anche Loyola, col suo “uomo nuovo”. I Popolari, e poi la Dc, si propongono anti-capitalisti, ma per un rigurgito di anti-Risorgimento laico, non anti-affari.
Il Kingdom of influences è migliore del Kingdom of prerogatives, dice Weber hobbesianamente, “Sulla Russia”, a proposito della democrazia. Certo, solo in Italia, fra i paesi più ricchi, il cesarismo del voto (Weber, “Le sette protestanti”), o patrocinio, è così diffuso. Ma (id.) è perché il cattolicesimo resta il più possibilista: si può sbagliare, pentirsi, ricominciare, perdersi, e salvarsi. L’apprezzata flessibilità italiana, dei modi di produzione, della finanza, degli stili di vita, si deve a questo possibilismo.

Federalismo – Se non assortito da un principio di responsabilità (fiscale, di spesa), sarà la grande piaga italiana. Poiché già lo è. Si decentra nel presupposto che,l a distanza rappresentativa ravvicinata, la pluralità degli interessi sia più viva,e e meglio tutelata, che non dalla rappresentanza politica nazionale. Si decentra anche in omaggio alla democrazia, contro lo statalismo vorace e un potere “assente”. In teoria è così: ogni entità bada meglio ai propri interessi, e la democrazia mette più salde radici. Ma non in Italia, dove vige l’intreccio famiglia-gruppo-fazione, e l’omertà e la protezione sono rispettati e anzi ambiti. Inoltre, il decentramento arriva senza che ci sia stata una fase accentratrice, quella che impone le regole del gioco – insegna i “fondamentali”.
Si prenda l’urbanistica, da tempo localizzata, e espressione del massimo disordine. Non si pianta un albero o una pietra, non si apre una strada, una piazza, un parco, una piscina, una palestra, un parcheggio, se non dopo avere accontentato i comitati di quartiere, i verdi, i condomini, tutti i partiti, e le fazioni dei partiti, i comitati tecnici e di valutazione ambientale, e ancora, aver vinto tutti i ricorsi amministrativi e aver spuntato, con attese di anni, le denunce penali. Al di sotto di questi checks disordinati, il paese va avanti nell’improvvisazione (abusivismo, occupazioni, condoni, indulti,).

Europa – Il tema “De eversione Europae” è remoto e ricorrente. Il primo mito europeo, anzi, il ratto di Europa, è eversivo. E l’Europa, forse perché è il posto dove la storia scritta più ha contato, più continuativamente, e politicamente, ha tenuto fede a questo destino movimentista: Celti, Dori, Parti, Daci, eccetera, i Romani, i mille anni di barbari fino ai mongoli, l’islam, la rivoluzione dell’ ’89, il nazionalismo, il colonialismo, la rivoluzione del ’17, il nazismo.

Fede – Disse Pertini di Moro (in Scalfari, “La sera andavamo in via Veneto”, 368): “Si umiliò davanti ai brigatisti perché credeva in Dio”. No, Moro non aveva fede – se non in un Dio lagnoso, invocazione di comodo nella disgrazia (esicasmo): la fede porta al martirio, religioso o laico, perché è la prima forma di rispetto verso se stessi. Poi viene la convenienza.

Governo – “Oggi, la volontà di non governare”, registra D.H.Lawrence (“Apocalissi”, 59). Non in Italia né altrove i politici governano: possono favorire o rallentare (sottogovernare), ma non decidere. Altre forze, altri interessi scelgono. Prima che da Marx, questo è stato detto dai liberali, A. Smith, Tocqueville. Dice Tocqueville (“Souvenirs”, 9-10): per una strana coincidenza sono i comunisti che portano all’equivoco della politica-fa-tutto, della grande macchina partitica, della burocrazia onnipotente, con gli ambigui concetti di avanguardia e di massa. E poi, successivamente, con una superficiale lettura di Lenin, ridotto a piccolo giacobino, o al giacobinismo dell’adolescenza – Rousseau confuso con l’illuminismo.

astolfo@antiit.eu

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