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venerdì 16 novembre 2012

Letture - 117

letterautore

Citazione – È tutto, ed è una trappola. Nell’Io claustromane di Thomas Bernhard: “Siamo chiusi in un mondo che cita continuamente tutto, rinchiusi in una citazione continua che è il mondo” (“Perturbamento”). O: “In fondo tutto ciò che viene detto è citato” (“Camminare”). E in “Correzione”: “Tutto il resto è correzione della correzione della correzione”. Siamo murati, come nella casa di correzione, un carcere.
Parliamo per citazioni, tutto ciò che diciamo è stato detto, infinite volte. O il miracolo è che si possa dire di nuovo, come se non fosse stato detto?
La citazione, anche quella che non c’è nell’originale, tiene caldo. È una forma di originalità: il filosofo cinese di Brecht, Ciuang-ze, scrisse un libro di centomila parole formato per nove decimi da citazioni. È un dialogo, diceva Thomas Mann, il modo di dialogare di chi riflette, con l’introduzione di personaggi e esperienze. E lo ripete nel  letteratissimo avvio del trattato impolitico, che Furio Jesi promuove a “spettacoloso romanzo”, quello dove azzarda che i tedeschi sono più russi che latini: è vero che con le citazioni si fanno errori. Possono anche essere false, sostiene Debord, se avulse dal contesto e dall’epoca. Ma, in quanto dialogo, introducono concetti sublimi, o autorevoli, o generali, che non usa dire in conversazione, per quanto eletta. E fanno risparmiare: perché dire con saccenteria quello che con spirito di novità è stato detto prima? Sono anche buone compagne, non soltanto nella solitudine. Ingeborg Bachmann dice che sono cose: le usa non perché belle o significative ma in quanto sono.

A volte la solitudine fa bene. È una forma di riposo, come il sonno. A condizione d’indirizzare i pensieri su grati percorsi. E questa è la funzione della lettura, della letteratura. Quand’anche sprofondata nell’inferno sconfinato, la buona letteratura ha effetto corroborante. Nel senso che produce idee. A lungo nei secoli se ne sono ricavati centoni, accumuli cioè di saggezza, e repertori, ghiommeri, frottole. A volte produce storia. Che il linguaggio è oggi lo stesso del fascismo, per esempio, locuzione per locuzione, il linguaggio di massa che il futurismo inventò quale segno dell’avvenire e il Duce fece suo, con la grafica squadrata, affermativa. Giusto perché non diceva nulla.
Buona filosofia se ne potrebbe ri-cavare, del genere del sorite, la storia del mucchio argomentata da Zenone, o da Eubulide, per cui, non essendoci salto tra il singolo e il molteplice, non c’è il vero e non c’è il falso. Qualcuno ne ha ricavato un “Libro degli amici”, facendone a sua volta letteratura. Senza elevarsi a tanto, chi avesse cominciato a raccogliere questi “amici” da ragazzo, nelle agendine di scuola, potrebbe dire i pensierini una consolazione. Non del genere sapienziale, chi se ne frega. Sono una rassicurazione. Eco talvolta indistinta, sintonia, consonanza, se non identificazione, con un personaggio o il suo autore. Una scoperta anche, molto sa di ritrovarsi. Tra amici solidi.

Confessione - Voltaire, che scrisse brevissime Memorie, in realtà un ritratto fuori ordinanza di Federico di Prussia, si vergognava “al ridicolo di scrivere di me stesso”.

O non è ogni narrazione di sé? In termini manageriali una strategia si direbbe un romanzo, la tattica un racconto. Ma le storie in realtà non hanno protagonista, il protagonista è una finzione. Perché ci vuole un protagonista in ogni narrazione? Per specchiare l’ego del narratore. La narrazione è per questo forma espressiva in voga, a dispetto di Quindici, Eco e il Gruppo 63 che decretavano la fine del romanzo: rispecchia l’epoca dell’ego diffuso. Senza arroganza, bisogna darsene uno. Il progetto, anche aziendale, è parola, il capitale è letteratura.

Genere - “Tutti i generi sono buoni”, assicura Dumas, “eccetto quelli noiosi”.

Lettura - La storia è tecnica, cioè progresso, diceva Sterne, ma scrivere non è che un sinonimo di chiacchierare. Con interlocutore muto? Il libro è illusione che si perpetua.

Leggere, operazione attiva e non passiva quale il viaggiare, si può solo da fermi.

“Giudicate la Riforma come volete”, irrideva Quinet, “resta che il protestantesimo ha bisogno che il popolo legga”. Questo è vero: la lettura non insegna, un libro raramente rende saggi, ma distende i nervi. La lettura è una dinamo, accumula nella quiete energia e potenziale.

Il libro – il racconto, la poesia - che si scrive da sé era l’ambizione di Ingeborg Bchmann, dall’inizio di “Malina”. Non nel senso della scrittura automatica. Non per una disoggettivizzazione ma per una radicalizzazione della soggettività. Mentre è vero che il libro si ricrea alla lettura – si legge da sé.

Misantropia – Non è più materia letteraria per essere condizione di vita? Dopo Freud, con tutto l’ardore che il dottore ci mise per essere il solo e unico interprete di se stesso – più di un messia. E della principessa Bonaparte tradusse in vecchiaia in tedesco, mentre lasciava Vienna a Hitler, il libello su Topsy, che era il chow-chow della signora defunto. Anch’egli amava il leonino cagnetto cinese, che anima trepido il palmo d’una mano, ne ebbe almeno due, e alla Bonaparte ne magnificò “la simpatia aliena da ogni ambivalenza, il senso di una vita semplice esente dai conflitti difficilmente accettabili con la civiltà, la bellezza di un’esistenza compiuta in sé”.
La misantropia c’è, dopo Freud, dominante e aliena. E tuttavia la sua è passione e non scienza, per la foia che si esalta nella pratica dominante, il tennis – la socievolezza come una partita di tennis.

Nudo – La “Venere dormiente” alla Gemäldegalerie di Dresda è il più bel nudo che si sappia, o inno alla carne, di splendore incorruttibile. Di Giorgione, il cui paesaggio è altrettanto necessario che la figura tizianesca: il posto giusto del corpo è nella natura e non al chiuso, senza i capricci dell’intelligenza, altrettanto vero che la “Lattaia” di Vermeer. Un paesaggio dove l’uomo si muove vivo, non gli spazi aperti del Correggio che saranno del barocco, senza prospettiva né punti di riferimento. Un esterno che è un interno, l’estensione di un interno, un significato, un linguaggio concluso. Correggio che, dice Berenson, “dipinse grazie muliebri quali non se ne sono viste, né avanti né dopo, nell’Europa cristiana”, e neanche negli Usa, ne avrebbe fissato la figura e il carattere in parallelo col gesuitismo pittorico. La “Venere dormiente” viene prima, a un’altra unità ambisce. Il pittore mori-va mentre Ignazio aveva le prime visioni. Sulle quali bisogna intendersi.
È vero che l’immagine del mondo fu fissata nel Cinquecento secondo i canoni del nudo e quelli religiosi, che i gesuiti congiunsero, che “sempre trassero profitto dalla umana fragilità e conciliarono sensualità e fede”. Questo ancora Berenson lo sapeva - ma già le cose cambiavano, il laicismo infettandosi di puritanesimo. Fino al Cinquecento Cristo si rappresentava nudo, mentre gli altri crocefissi, i ladroni per esempio, si dipingevano bardati. Nudo è il mistero dell’incarnazione, anche il Bambino Gesù è spesso nudo. E la Madonna: in Tirolo e Lombardia capita di vederla seminuda, dalla cintola in su. Secondo l’argomento agostiniano “piedi in terra, testa in cielo”, i piedi essendo sineddoche per genitali.

letterautore@antiit.eu

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