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venerdì 22 febbraio 2013

Bolaño o la passione inerte, della letteratura

I cinque romanzi di “2666” messi assieme accentuano l’irrealtà: tanto dinamici riga dopo riga, quanto in surplace nell’insieme, e alla fine immemoriali. Uno solo si dice dello scrittore: “Però, che bravo!”.
Gli editori italiani di Bolaño insistono sul fatto che è morto presto e che è un autore cult. Senza più. Lo stesso che si dice, in Italia e anche fuori, di Foster Wallace. Meglio si direbbero apatridi. Anche Murakami. Scrivono di eventi e ambienti che non si sa dove situare poiché si situano dappertutto. Come in Italia fanno Marani e Baricco. E da qualche tempo Umberto Eco, con le innumerevoli pagine vuote, dall’“Isola” a “Baudolino” e “La regina Loana” – ora col “Cimitero di Praga”. Anche quando li localizzano in luoghi precisi, come fa Bolaño.
Si potrebbero dire autori globali, se non fosse derisorio – la globalizzazione non piace. Ma più che altro li caratterizza l’impersonalità: di personaggi anche a lungo e minuziosamente trattati – Bolaño, Foster Wallace, Murakami – e tuttavia freddi. A volte maniaci ma sempre impassibili. Monomaniaci, il loro soggetto-oggetto è la letteratura, ma non si può dire nemmeno un feticcio, è cosa inerte.
Si potrebbero dire autori metafisici, anche se in senso improprio: di passioni e azioni intemporali e illocali, più spesso irrelazionali. O scrittori dei non-luoghi, di città inesistenti come un aeroporto, o l’autostrada, o il centro commerciale. Non alla Ballard, che vi si esercita con rabbia, sempre dal suo buco di Shepperton, censore, crociato, ma da spaesato. Mentre è forse solo una scrittura da scuola di scrittura, brava per essere asettica.
Roberto Bolaño, 2666, Adelphi, pp. 963 € 24.

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