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sabato 26 aprile 2014

Il mondo com'è (171)

astolfo

Bosman . La decisione di Bruxelles che il 15 dicembre 1995 che liberalizzò il mercato dei calciatori ha prodotto un fortissimo oligopolio del calcio – e ne ha minato irreparabilmente il carattere popolare e ludico. Uno degli equivoci del liberismo, che dichiara una cosa mentre fa l’opposto. La Corte di Giustizia europea dichiarò nullo il regolamento dell Uefa che limitava a tre il numero degli atleti stranieri che un club poteva tesserare. Nel nome della libertà di movimento, dell’antirazzisimo, etc. L’esito è stato di avere club superricchi, con due e anche tre organici di qualità, a volte tutti stranieri, come l’Inter di Moratti, a volte spesati a debito, come la stessa Inter, oppure ricomprate da ricchi uomini di finanza per calcoli fiscali o d’immagine in nessun modo legati alle squadre stesse, oligarchi russi, o gli arabi del petrolio. In tutti i campionati giocano da allora sempre le stesse due o tre squadre – che peraltro periodicamente trattano come fare un “campionato europeo” di eccellenze, del tutto sradicato cioè dalle realtà territoriali, ora anche nazionali.

Destra-sinistra – In larga misura i due fronti si sono rovesciati. È a destra (lepenista, grillina, anche leghista, e in Inghilterra gli antieuropeisti) la massa dei poveri e degli incapienti: disoccupati, giovani, pensionati sociali e al minimo, fiscalizzati). È a sinistra la massa degli abbienti, per reddito o formazione, il “borghese che si crede”: il pubblico bene dei suoi innumerevoli talk-show, e la stessa politica del talk-show, del salotto, di tutti belli con qualche giullare, senza mai contatti coi brutti e sporchi là fuori.

Globalizzazione – Se ne può legare la nascita a Tienanmen, alla decisione americana di non interferire in Cina con la sanguinosa repressione della protesta di piazza a Pechino. L’America povera già da tempo si riforniva a buon mercato grazie alle produzioni cinesi, e da allora la Cina non ebbe più remore (contingenti, tariffe) nei mercati occidentali, le regole restrittive della Wto furono d’improvviso allargate a tutto l’ex Terzo mondo. Nel nome di una rivoluzione, quale in effetti anche era, e un atto dovuto verso le economie dei paesi più poveri.

È stata introdotta venticinque anni fa, dalle presidenze Bush e Clinton, sulla falsariga delle preoccupazioni della Trilaterale. Come una forma di integrazione mondiale, e quindi di diminuzione delle tensioni. Ma ottenendo così d’un colpo la remissione di tutto ciò che la Trilatera temeva e denunciava.
Le problematiche di ribellismo e disobbedienza che la Trilaterale registrava con preoccupazione da un quindicennio, dalla sua formazione a opera di David Rockefeller nel 1973, come forme di protesta incontrollabili sempre più vaste, sono state cortocircuitate con la semplice, democratica, immissione del Resto del Mondo al mercato. Anche se azionata per motivi non morali. Rapidissima, in meno di un quarto di secolo,è stata l’erosionem anzi la cancellazione, di tutto ciò che la Trilateral paventava o lamentava, per arrivare ala flessibilità, la disoccupazione di massa, la mobilità, professionale e territoriale, la delocalizzazione, la contrattazione libera, l’insicurezza del posto e della previdenza come fattori di mobilitazione permanente, il contenimento degli ammortizzatori sociali, se non il loro smantellamento, la riduzione dell’assistenza sanitaria e sociale.

Partite Iva– Calvino, Carlo Levi, Pasolini, lo stesso Moravia, i “pellegrini politici” italiani nel “paradiso sovietico”, in Cina, o a Cuba, tutti furono attratti dalla presunta semplicità della vita quotidiana, che vissero come un benefico ritorno all’indietro, a un arcaismo intriso di stabilità, tradizione, ordinarietà anche, di contro alla mercificazione, alienazione e incomunicabilità delle società metropolitane di cui l’Italia era entrata a fare parte. Erano – sono – viaggiatori di sinistra non marxisti. Che si dichiaravano magari marxisti, ma non condividevano l’assunto cardine di Marx, della storia come freccia, e quindi del macchinismo, del “grandismo”, monopolismo comopreso, e della produttività sempre più esplosiva. In termini contemporanei si potrebbe dire che saltavano la modernizzazione, o la cortocircuitavano, saldando il paleo col postindustriale, o i limiti “naturali” alla crescita – un richiamo comunque alla “natura”.
Di Marx però condividevano – condividono – la condanna del ceto medio. “Le classi medie”, dice il “Manifesto comunista”, “piccoli fabbricanti, dettaglianti, artigiani, contadini, tutti combattono la borghesia perché essa è una minaccia alla loro esistenza in quanto classi medie. Esse non sono dunque rivoluzionarie ma conservatrici: peggio, sono reazionarie: cercano di far girare all’invevrso la ruota della storia. Se sono rivoluzionarie, è in ragione del loro passaggio imminente al proletariato…”
Il ceto medio è ora di sinistra – vota a sinistra, volendosi illuminato. Tanto più per essere”precario” nel mercato del lavoro, e al meglio una partita Iva. Ma la condanna marxista è ancora attiva. Meno nell’opinione, ma forte ancora nella normazione. Col disprezzo anti-borghese, che lo stesso Marx
coltivava, anche se senza ragione, come un peccato originale, contro chi si fa da sé – senza essere un robber baron, naturalmente, o un capitano d’industria.
Ciò può spiegare perché l’intellettualità è sterile in Italia, confusa cioè, contraddittoria. E nell’essenza piccolo borghese – quello cioè del voglio ma non posso, o del voglio ma non so che (che non è il ceto medio di Marx, quello lavorava). La partita Iva dovrebbe cumulare per i sensitivi sociali l’inventiva, l’iniziativa, la modernità, la produttività esasperata , il Progresso insomma. Ma non è established (dominante), e quindi è una disgrazia e forse una colpa.

Populismo - È difficile acculare le partite Iva -  grillini – al populismo. La categoria mostra rutta la sua pressappochezza, da sopracciò della filosofia e della sociologia politica – del resto demandate, la filosofia e la sociologia, ai professionisti della provocazione, giornalisti polemisti. È anche impossibile, le partite Iva, grilline a non, essendo molto più sgamate, anche dialetticamente, dei loro superiori censori.
 
Sinistra – Si caratterizza ovunque per essere progressista. Anche in Italia, ma qui su un fondo misoneista. O pessimista. La poesia è pessimista, con limitati intervalli, la letteratura politica è agitatoria ma a sommatoria conservatrice, e perfino reazionaria.  Di più lo è, lo è stata, la letteratura politica del Pci. Sul lavoro per esempio, in agricoltura, domestico, e perfino in fabbrica. Conservatrice forse con riserva, per calmare i sospetti di eversione. Ma in nessun caso, mai, innovativa.
L’Italia, per dire, ha una tradizione repubblicana, cioè democratica, cioè di sinistra, ineguagliata nel secolo e mezzo di storia  moderna, unitaria e costituzionale – ma già due secoli fa per fare quella storia, della tradizione repubblicana, c’è voluto uno svizzero, Sismondi.

È temine equivoco, nell’apparente schematismo. Fu sinistra a lungo, per tutto l’Ottocento, la borghesia. Compresa la grande borghesia industriale e finanziaria (Cavour sarebbe stato a sinistra? sì), con quella media delle professioni e dell’imprenditoria, e la piccola borghesia di tradizione giacobina e quindi radicale. I partiti socialisti, a mano a mano che si radicavano, se ne vollero a lungo distinguersi.

astolfo@antiit.eu

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