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giovedì 28 agosto 2014

L'universo concentrazionario era in Alvaro

Una lettura consigliabile a scuola per i venticinque anni della caduta del Muro, anche se di autore meridionale, e perciò bandito dai programmi ministeriali. “Sotto il potere di mille occhi, di mille volontà, di mille forze che dominavano su ciascuno”, parlarsi era “un fatto come medicarsi e asciugarsi le ferite”. In una città in cui “una folla spenta e informe… camminava a uno a uno”. Larve che vanno per strada “tutti di fianco, come per evadere da un varco troppo stretto”. La socialità estrema, per legge, per forza, senza colloquialità, senza personalità. Per una storia d’amore che evidentemente non ci può essere, fin dalle prime righe, la vita di ognuno gli è stata estratta, e sfugge: “Ognuno era chiuso in una sua idea segreta, e questa idea spesso era futile, ma molto importante, come se fosse passato sul mondo il diluvio”.
Un romanzo claustrofobico. Di violenza sorda, che non si manifesta ma si respira: niente accade, ma c’è, si sa – il verbo è giusto, la violenza è interiorizzata. Un romanzo ancora vivo, vittima alla riedizione nel 1946 della guerra fredda, quasi fosse opera di propaganda antisovietica, e anzi di apologia fascista. Mentre è il romanzo del totalitarismo, dell’orrore – ambientato in Russia da una nota aggiunta su pressione della censura all’uscita nel 1938, spiegherà Alvaro alla riedizione nel dopoguerra (ma Stalin c’è, benché non nominato, alle pp. 70-71, ed è anzi un ritratto notevole, di “un uomo piccolo come un idolo”. È il romanzo del regime carcerario, invisibile e onnipresente, che resterà stigma del Novecento, un  secolo detto breve e invece interminabile. Con code nel Duemila, nel khomeinismo e nel castrismo.
Alvaro lo tratteggia in profondità, nella psicologia – la violenza più radicale. Col merito non minore, in lui ineguagliato seppure sulla traccia di Flaubert, di saper leggere la coppia dal alto di lei, della femmina nei confronti del maschio – oggi eretica, nella conformistica indifferenza dei generi, e perciò forse più sorprendente. Con un altro merito non dirimente ma non da dismettere: dopo Huxley, “Brave New World”, il totalitarismo tecnologico, ma prima di Koestler e Orwell, di quello più propriamente politico. Con l’idea interiorizzata della colpa, come avviene nell’educazione religiosa (“che quando ti sei messa nell’animo l’idea del peccato non te la levi mai più. Ti sembra sempre che qualcuno ti veda e ti giudichi”), che germinerà anch’essa in un genere, del comunismo chiesastico: l’Inquisitore è uscito dal seminario. Con un punto d’osservazione migliore, dell’“estero”. I protagonisti venendo dall’“estero”, possono mettere in quadro meglio la situazione, con quinte e termini di confronto. A beneficio del lettore, oltre che della cosa – il romanzo è “lungo” senza esserlo.
Alvaro avrebbe potuto vantare il primato dell’“Uomo è forte” sul fantapolitico “1984” di Orwell e sulla testimonianza di “Buio a mezzogiorno” di Koestler, dell’“uomo chiuso nel labirinto dei processi” – Kafka . “Non lo fece, per non dare esca all’anticomunismo”, nota Nino Borsellino in una succinta prefazione che è il saggio più penetrante dello “scrittore nel fascismo”, e della personalità di Alvaro. Che non reagì alla richiesta del regime di dire in nota il romanzo ambientato in Russia. Un segno di debolezza: Alvaro era uomo retto ma non un combattente. Un “resistente dell’interno” si direbbe, con la terminologia adottata in Germania sotto Hitler.
Resta comunque il narratore di fine introspezione sempre. Oltre che il “coscienzioso informatore”, come si definiva, dei tanti itinerari di giornalista, a Parigi, in Germana, in Turchia, e nell’Unione Sovietica. “I maestri del diluvio. Viaggio in Russia” sarà l’epitome giornalistica di questa missione, “L’uomo è forte” quella narrativa. Il richiamo a Dostoevskij è d’obbligo, per la figura dell’Inquisitore e per lo scavo nelle psicologie interminabile, ma non rituale: questo universo concentrazionario è di intensità ineguagliata nella pur corposa pubblicistica di genere successiva. Per la paura: la libertà, possibile, fa paura, l’amore fa paura. Per la corruzione sistemica – questo fatto resta inesplorato anche nell’affollatissima pubblicistica sulla Germania nazista: “Abbiamo bisogno di corruttori come di un servizio pubblico”, dice l’Inquisitore amabile.
Anche la breve nota biografica di questa riproposta è pregnante: “Arruolato nel 1915, viene ferito alle braccia e congedato con una decorazione”. Non ne abbiamo saputo mai nulla. Mentre la stessa ferita diventa segno e materia di tutto Céline – il riserbo era un tempo virtù dei calabresi, ora legnosissimi.
Il romanzo “più bello” di Alvaro lo dice Borsellino. Uno dei migliori del Novecento, si può aggiungere a distanza. Cadde stroncato da Giacomo Debenedetti sull’“Unità” - prima che “l’Unità” stroncasse Debenedetti, la sua giusta ambizione a una cattedra: “Il più infelice e il più sbagliato dei romanzi di Alvaro”. Che però, anche a prenderlo come antisovietico, era solo antiveggente. L’universo concentrazionario è stato rimosso ma era con noi appena un quarto di secolo fa. Chiunque sia stato a Mosca ancora negli anni di Breznev, non molto tempo fa, trent’anni, vi si riconosce.

La riedizione si fa nella collana Scrittori di Calabria di Aldo Maria Morace, che mette alla prova “la storia delle marginalità” proposta da Dionisotti in una ideale Biblioteca delle Regioni. Prima del ministero, dunque, lo scrittore meridionale si autoespelle dai “programmi nazionali”. Non è detto che sia un male.
Corrado Alvaro, L’uomo è forte, Ilisso-Rubbettino, pp. 219 € 5,90


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