Cerca nel blog

lunedì 15 dicembre 2014

La scoperta dell’antipolitica

astolfo

È tema invernale, verrebbe da dire risalendo alla periodicità dell’antipolitica su questo sito. Ma è ben reale, non una metereopatia. “La politica di questi tempi non c’è”, dice Benigni sbarcando a Roma per “I dieci comandamenti”, ma anche questo non è vero.
Il presidente Napolitano la fa risalire a “Mani Pulite”, l’aggressione dei giudici alla politica: scrivendo al “Corriere della sera” oggi, in risposta ai rilievi di Galli della Loggia ieri, richiama – come già in precedenti suoi scritti – la lettera a lui indirizzata dal deputato socialista Moroni , che con essa prendeva congedo dalla vita. Con l’insofferenza all’aggressione, senza peraltro difesa possibile.
“Mani Pulite” certamente c’entra, la campagna del duo Borrelli-Di Pietro, con la complicità di molti  giudici milanesi, Tarantola in testa. Ma c’entra anche la presidenza della Repubblica, di Scalfaro e dello stesso Napolitano, coi loro governi del presidente, più spesso di origine extraparlamentare, i ministri graditi – tutti più o meno fallimentari - e quelli sgraditi, gli scioglimenti a piacere delle Camere, i moniti a ripetizione, i gradimenti, i veti, le consultazioni chilometriche, i preincarichi, gli incarichi esplorativi. L’apice di questa connivenza se ne può dire il falso avviso di reato fatto recapitare nel 1994 a Berlusconi da Borrelli e Scalfaro, sul giornale di Milano, il “Corriere della sera”, per bloccare la riforma delle pensioni - che sarà fatta vent’anni, quasi, più tardi, a costi ormai proibitivi, su impulso e per volontà di un altro presidente, Napolitano.
Dopodiché, lantipolitica non si può restringere alla lettera del povero Moroni. È anzi pratica costante e diversificata. A opera dei corpi politici elitistici, non elettivi: i media e i loro padroni, gli interessi costituiti, le istituzioni non elettive. Tra esse il Quirinale settennale, un’anomalia nel panorama costituzionale mondiale - che nessuna riforma si propone di correggere. Una buona legge dev’essere buona politica, prima che proceduralmente corretta. Il Quirinale e la Corte Costituzionale, la cui composizione peraltro – e quindi il suo orientamento – è quirinalizia, si surrogano un potere che la Costituzione non dà loro, se si sovrappongono al legislatore.
Come l’antimafia
Come lantimafia, l’antipolitica è specchio del suo oggetto. Deformante, anche se sembra impossibile: è la passione eccessiva, invadente, opportunistica, violenta, applicata alla politica. È una politica, deteriore.
S’intende per antipolitica l’insoddisfazione verso la politica, la disaffezione, e perfino la lotta contro. Ma in questa chiave è una forma della politica. Questo è in Italia evidente nei movimenti più antipolitici, quello di Di Pietro, del comico Grillo, e della giustizia politica – il “partito” dei giudici. È invece, propriamente, un aspetto della più generale concezione della politica come guerra civile, di tutti contro tutti. Che fu delle ideologie escatologiche e permane come arma politica.
Moralmente – psicologicamente – è una forma di misantropia, di narcisismo deviato: tutto è marcio non per un criterio di legge ma all’“infuori di me”. Politicamente è antidemocratica. La politica, per quanto corrotta, per quanto totalitaria, passione esclusiva, è sempre democratica  – purché non tirannica. Ma  sempre è anche un aggiustamento, la scelta del male minore, al meglio una riparazione. Sia essa la guerra, che può essere necessaria, come dice Orwell, “ma non può essere né buona né sensata”, o l’appalto delle fognature. Per questo l’antipolitica è sospetta. La politica è debole e arrendevole all’antipolitica per effetto della democrazia. Forse malintesa, ma è la democrazia che ha indebolito la funzione principale della politica, di coagulo rispetto al dissenso – la capacità di scelta e di leadership. Sia perché la politica è ideologica (massimalista, assolutista), e sia perché è riduttiva (minimalista), sfiancandosi nell’assorbimento di ogni forma di dissenso. Che naturalmente è sempre di massa, anche se marginale: in democrazia ogni fenomeno è di massa.
Ma antidemocratica è sempre l’antipolitica: intellettuale, elitaria o professionale - il governo dei tecnici. È sempre stata la leva dell’assolutismo in politica: è giudice insindacabile. Emerge tra Cinque e Seicento con l’uso di Tacito (moralista si spera sincero e ineccepibile) contro Machiavelli, da parte di gesuiti e protestanti insieme, risolvendo la politica nel potere e stroncando per lungo tempo l’autonomia del politico (diritti di libertà, diritti di possesso, patti).
Con la Repubblica, l’antipolitica è diventata una specialità italiana. Dapprima in ceti ristretti, liberalradicali, poi come protesta di massa. L’Italia liberale non ha mai amato i partiti politici, ma più nella Repubblica. Sempre a opera degli stessi, i liberali, che al fondo sono anarchici – talvolta “repubblicani”, cioè del Pri, un partito, a volte radicali, e da ultimo, come sembra, Democratici. I liberali “non esistono” in Italia, ma per questo si pretendono “assolutisti”: non si è mai abbastanza liberali né liberi. Da qui l’invocazione del “tecnico” della politica. Un equivoco, che si trasforma in fucina dell’antipartito, dell’antipolitica, dell’antidemocrazia.
Il tecnico platonico
È lo stesso equivoco della “società civile”, quella dell’“Italia paese di merda”. Che non ha alcun titolo per dirlo, volendosi essa ammanicata e superiore. Avida. In piccolo certo, ma diffusamente. L’inchiesta romana individua solo un rivolo in un mare. E caratteristicamente si vuole restringere a due imprenditori ex carcerati, mentre ne è pregna la società civile, del partito degli appalti, gravido di architetti e ingegneri, dei dottori, commercialisti e medici, delle segreterie degli stessi censori pontifica tori, delle loro fondazioni, delle loro onlus.
Il tecnico è la personificazione del governo platonico degli intellettuali. E dell’insofferenza di una storia senza stacchi. Senza cambiamento. Senza nemmeno processi o tagli netti nella guerra civile che pure c’è stata, solo vendette. Del trasformismo fin dall’inizio con Rattazzi. Di una liberazione che fu solo militare, opera degli Alleati. Di una Resistenza che fu politica e non militare, un adattamento alla sconfitta e all’8 settembre, e anzi accentuò i caratteri perversi, la vendetta, la faida, la violenza sregolata.
L’antipolitica è una politica. La politica dell’antipolitica è già in Salvemini, in “Cocò all’università di Napoli o la scuola della mala vita”, il saggio satirico col quale inaugurò la collaborazione a “La Voce “di Papini e Prezzolini il 31 dicembre 1908 (ma i temi della satira sono già tutti nelle “Lettere meridionali” di Pasquale Villari del 1862). “L’azione politica degli spostati ha una grandissima importanza nella società moderne, perché, non avendo nulla da fare, fanno per tutto il giorno della politica: sono giornalisti, libellisti, galoppini  elettorali, conferenzieri, propagandisti”. E, sempre non avendo nulla da fare, fanno subito carriera, ci tentano, atteggiandosi a “capipopolo” e “guardiani dei segreti”. Gli “spostati”, termine che avrebbe fatto fortuna nella redazione americana, “misfits”, Salvemini dice “il cosiddetto proletariato dell’intelligenza”, e intende quelli che vogliono tutto subito ma non sanno che.
Quando Napolitano reagì infastidito a Della Valle, che faceva una campagna pubblicitaria contro i politici, disse una cosa giusta: “Si impreca contro la politica ma la politica siamo tutti noi”. L’antipolitica è una politica, estremamente insidiosa. La più brutta perché perversa: si finge infatti perseguitata mentre è la politica dei padroni: imprenditori, mercanti, professori, vescovi.
La decadenza, l'ignoranza
Guardando oltralpe, è anche il segno dell’epoca, perlomeno in Europa. È il segno dell’Europa, in Germania, in Olanda, in Gran Bretagna, Francia, della sua “decadenza”. È una deriva anzi di un dibattito ormai vecchio di quarant’anni, nel seno della Trilaterale del capitale. Della democrazia ingovernabile e della ricostituzione del potere – questione peraltro inafferrabile: la politica non è il potere, il potere è una sua espressione, sempre labile.
Anche la storia si fa nel segno dell’antipolitica. Quella dell’Italia nel centocinquantenario, per esempio, tre anni fa. O del Sud da due o tre decenni. O della Libia, per dire, e degli altri paesi confinanti. L’antipolitica è anche l’esito di un’incultura, e di un analfabetismo di ritorno, specie nei media. Non sappiamo più cosa succede nemmeno a Chiasso o a Capodistria – e a Passariano del Friuli non sanno più nulla di Roma. Non siamo interessati, una forma d’ignoranza caratteristica delle fasi depressive: la chiusura in se stessi, una chiusura confusa in un se stesso confuso. Neppure alle guerre di sterminio dei nostri vicini arabi. Nulla sappiamo di come sono arrivati dalla Libia 50 mila clandestini quest’anno, e nula naturalmente dei 3.600 morti sui gommoni (i morti noti). Niente sembra interessre a nessuno, se non dosi sempre più massicce di indiscrezioni, scandali, intercettazioni r buchi della serratura. Succede alla “Domenica Sportiva” come alle cronache giudiziarie, alla cronaca nera, alla cronaca rosa, mentre altre cronache, gli esteri, la cultura, sono cancellate. Analogamente con la cronaca politica, che un solo modulo ha: abbattere Craxi, abbattere Berlsuconi, abbattere Prodi, ora abbattere Renzi - e anche Grillo, a favore di Salvini…
All’ignoranza conduce anche la prova del nove: il rifiuto impolitico della politica non è “intelligente”, nemmeno nella forma dell’opportunismo. Neppure nel nome dell’umanitarismo, della giustizia, e delle tante innovazioni che si vorrebbero beneauguranti (eu-) e sono assassine: eugenetica, eutanasia, eunomia, e l’eucrasia chimica. È l’incapacità d’immedesimarsi, di suscitare identità, legami. E l’inutilità intellettuale – dell’opinione comune (pubblica) e dei maîtres-à-penser. La sterilità: del saperne di più, della perfezione, dell’albagia.
È la trovata migliore – più vasta, più furba – del disusato totalitarismo. I capi sono capetti, e tuttavia ancora maestri, guide, padroni. E fuori del potere nulla, solo buoni sentimenti e buona coscienza.
La politica di scorta
Ma più propriamente parliamo dell’Italia. L’antipolitica è la politica dell’Italia da circa vent’anni: gestita da interessi più o meno dichiarati contro la politica classica dei partiti che fa riferimento alle elezioni periodiche. Gestita da molti magistrati e dai grandi giornali, padronali. E da una sinistra confusa (autolesionista): “organizzare” cinque o sei cortei a Roma attorno al Parlamento attorno ai voti di fiducia, portandovi come massa d’urto i disoccupati napoletani, o i veterosindacalisti in gita premio a Roma, è un disegno, anche se controproducente.
In nessun paese al mondo, Afghanistan  escluso, e forse l’Iraq, la politica necessita di tante scorte al suo personale, anche minore, anche non più attivo. Qualunque ministro o ex ministro, o sottosegretario, o parlamentare, e molti ex parlamentari, i presidenti di Regione e delle Province, i sindaci, gli assessori, molte spesso anche solo ex, si aggirano tra guardie pubbliche e private. Senza nessuna minaccia terroristica organizzata, giusto per la diffusa ostilità alla politica che la Rai, l’Ansa, i giornali, i telegiornali e i talk show diffondono a dosi ogni giorno massicce, costanti.
Fuori tempo
E se l’antipolitica avesse fatto il suo tempo? Tutto lo indica, dopo vent’anni inconcludenti. E del resto, se molte politiche sono deboli, altre sono forti, dei cristiano-democratici merkeliani per esempio, o della Russia di Putin. Se era il segno di un’epoca, del mercato (il consumismo, la disattenzione, il marketing) ha fallito. O allora l’epoca non è del mercato. Ma lo è, il consumismo è ben vivo e durevole, è l’antipolitica italiana che non è niente.
Fa ancora senso rivedere nella memoria gli streaming di Bersani, segretario e leader del Pd, vittorioso alle elezioni, che contratta il governo con una Lombardi per conto di Grillo. Non con Grillo, che si rifiutava. Con una che rideva, il cui unico precedente in carriera era il neo fascismo - il genere fasciocomunista che tanto piace agli (ex) Pci, ma questo è un altro argomento. Fa senso per Bersani, onest’uomo, ma più per Grillo. Che poteva fare il Reagan della situazione, il centromediano e il centravanti, e forse anche l’arbitro: un comico che in un’elezione diventa il secondo partito e a cui subito la presidenza della Repubblica e il presidente del consiglio incaricato offrono il governo. E si rifiuta – destinandosi allo sgonfiamento. Un’antipolitica che, se non ha fatto il suo tempo, è solo un pernacchio.
La vecchia politica si era anchilosata al morso stretto di giganteschi apparati di partito, nazionali e locali (i federali…). I segretari di partito contavano più dei capi di governo, e i segretari di federazione ben più dei parlamentari e dei ministri espressi localmente. L’ha sostituita la politica dei talk show. Un teatrino sorridente, ghignante, beato di sé, sempre dal lato giusto della faccia, ma ripetitivo, inconcludente, e anche insulso, di attori di terz’ordine. Agli ordini di piccoli mattatori di cui il prototipo e il principe è Santoro, che non è il mignolo di un Gassmann o di un Sordi. Tutti peraltro fatti con lo stampino, Fazio, Floris, Santoro, Lerner – mentre Vespa è relegato verso la mezzanotte, e gli altri all’alba. Per non dire dei loro comici, stupefacenti: tutti da centralismo democratico, ma di tipo brezneviano, se la Rai li mandasse al mercato andrebbero a ruba, come il berretto verde con la stella rossa del presidente Mao. Il loro pubblico è lo stesso, che ogni sera trasmigra da un condottiero all’altro: erano quattro-cinque milioni, quanto bastavano a far pesare l’auditel, ora sono dimezzati, e questo è tutto. Sono fra il 5 e il 10 per cento degli elettori, ma non spostano, cioè sono sempre gli stessi – buona parte sono peraltro di destra, stanno lì per indignarsi. E da qualche tempo forse nemmeno votano, giocano agli indignados.
I segni di stanchezza, se non di un rovesciamento, sono numerosi. La legge elettorale che si tenta rimette al centro i partiti. Che però non sanno essere altro che centralismo democratico, malgrado le primarie. Come correttivo si ripropone la preferenza, per salvare qualcosa dell’uninominale, della scelta diretta del rappresentante parlamentare col voto. Ma più potrebbe pesare la rivolta generazionale. Mentre si “vede” sempre più il bluff dell’informazione, in questi anni al di sotto di ogni minima deontologia: si vede nel calo persistente delle vendite prima che della credibilità.    
L’opinione pubblica finita a Milano
L’antipolitica contrabbanda la fine (l’abbattimento) dell’opinione pubblica. È il segno della rivoluzione italiana in corso dal 1992, che è in realtà una controrivoluzione e per molti aspetti (le carcerazioni di massa, la dissoluzione dei Parlamenti) un vero e proprio golpe, in senso tecnico: l’aggiramento, la negazione di ogni spazio alla sfera pubblica della politica. Quello che l’inglese sinteticamente chiama l’opinione pubblica perché sommariamente s’identifica con la libertà di stampa. La libertà di stampa in Italia si applica a circonvenire l’opinione. A deviarla, a comprimerla, a svuotarla quando si fosse formata, nel nome di niente – una falsa questione morale, una agitata cioè da uomini di potere oscuri, editori, giudici, sbirri. Che si attegiano a destra pura, e a sinistra altrettanto pura - il fasciocomunismo non è una invenzione.
Senza reazione, bisogna dire: né di massa né d’élite. La classe dirigente c’è, è anzi troppo solida in italia, ma non si agita per non avere voce – ce l’ha a suo modo, prescindendo dall’opinione. Oppure si può dire l’opinione all’ora di Milano. Dove l’antipolitica è nata e si radica. Nacque con la Lega, col patrocinio di Milano 1, la crema della nazione, ed è forse il proprio della borghesia, la sua inclinazione naturale. L’opinione pubblica è nata ed è borghese, ma non in Italia, dove presto ha tralignato. Sotto le vesti dell’antipartitismo: l’antipolitica viene dalla cultura liberale, laica (azionista, repubblicana), degli anni Cinquanta e Sessanta, man mano che, restando fortemente minoritaria, fu esclusa dalla politica nazionale. Un rifiuto di cui già il “Corriere” di Panfilo Gentile e Libero Lenti era il veicolo, fino alla direzione dello stesso appassionato politico Spadolini a fine anni Sessanta: l’esecrazione della politica è comune alla borghesia lombarda.
Il potere politico (democratico) è un nucleo impermeabile alla cultura europea del Novecento, alla cultura liberale. Non alla migliore cultura liberale: a Einaudi, andando a ritroso, Tocqueville, Montesquieu, Grozio, Hobbes, Machiavelli. Ma sì, totalmente impervio, ai laici italiani, da Salvemini a Scalfari, e al “Corriere della sera”. Che è quanto di più estraneo al liberalismo.
(continua)

Nessun commento: