Cerca nel blog

martedì 17 novembre 2015

Il libro dell’erranza

La partenza è fulminante, nell’avvertenza alla raccolta e nel saggio iniziale, “Geoantropologia di una terra mobile”: “Non si parte fino in fondo, non si torna mai fino alla fine e non si resta mai del tutto”. Tutto memorabile. La partenza dell’emigrante organizzata e vissuta come una morte\resurrezione. La partenza come una persistenza. La mobilità degli immobili. La mobilità naturale. Con alcuni limiti.
Teti epitomizza i lavori che più gli stanno forse a cuore, sui luoghi della memoria. Con dettagliate descrizioni e ricostruzioni – a futura memoria ? – dei riti religiosi in numerose località, per le più diverse occasioni, la Settimana Santa, le Madonne, i santi patroni. Notevole, a più riprese, la rivendicazione di Polsi, nel quadro della rivalutazione della pietà popolare – ma molto dell’evidenza resta ancora da scoprire, anche se ne abbiamo scritto nel “National Geographic” e su questo sito già nel 2007,
http://www.antiit.com/2007/09/polsi-il-luogo-di-culto-con-pi.html
e successivamente su “Calabria Sconosciuta” n. 127, la cultura accademica ha il suo passo, lento (molto resta peraltro da dire di mlolto semplice, contro la criminalizzazione assurda del santuario nel quadro del “tutto mafia”). 
Sono le feste che più prendono l’attenzione dello studioso. Con quache pausa. Imbattendosi nell’“inchino” della Madonna al mafioso di Tresilico, Teti si limita a elencare una trentina di firme che stigmatizzano la passività di fronte alla mafia – di passività di fronte alla mafia può dire chi non vive in Calabria, o vuole andare sui giornali, ma l’antropologo? Senza nulla accertare del fatto, che è l’invenzione dell’inchino e non l’inchino. E poi, perché trenta mentre i prefichi sono stati trecento, tremila, forse tre milioni? Lo studioso si lascia sfuggire la conformazione dell’opinione oggi, “in rete”, in video, peraltro opportunamente angolato e illuminato, tutti in rete siamo anche registi. Salvo, qualche pagina dopo, ricordare orgoglioso, della Madonna della Consolazione a Reggio, che “nel 1952 i portantini passavano davanti alla sede della Camera del Lavoro, fermavano la «vara» e salutavano col pugno chiuso”.
Teti è di proposito attento ai riti religiosi come riti della permanenza, in subordine all’emigrazione, interna  ed esterna, il fulcro della sua ricerca, con vari casi sul terreno. Sottitendendo una critica alla “distruzione della tradizione”, con l’“aggiornamento” voluto da  Giovanni Paolo II. Una malintesa modernizzazione dei riti, ben prima delle processioni “mafiose”. Contraria alla pietà popolare, è da aggiungere, ma a opera di vescovi e sacerdoti che vengono dal popolo più che di estrazione borghese – è una delle asimmetrie della modernizzazione, da parte di un’istituzione che è sempre stata il maggiore veicolo di democrazia.
Emigrazione-morte - con resurrezione
Il terreno principale di ricerca è l’emigrazione. Fenomeno “positivo” malgrado tutto, nellequiparazione geniale emigrazione-morte – morte-resurrezione, bisogna aggiungere. Nei cerimoniali, della partenza e del ritorno, nella corrispondenza, quasi semrpe per interposta persona-medium, nei tempi lunghi e quasi biblici. Una “ideologia popolare dell’emigrazione” delineando in Calabria “sul modello dell’ideologia arcaica della morte”. Quasi a “fondare la possibilità di abolire il tempo e l’evento, di negare il distacco, la frattura”. Nei ritrovamenti, “che avvengono nella comunità di origine generalmente in occasioni rituali, la separazione è come se non fosse mai avvenuta. Il distacco viene ricomposto. Passato e presente non esistono… Tutto è come prima”. Non del tutto, ma è come se. Da bambino, ricorda Teti, quando il padre tornava “per portarci tutti in Canada”, “immaginavo che Toronto fose una prosecuzione del mio paese!”, e poi avrebbe visto che il paese è “rimasto un centro, un punto di riferimento per i tanti abitanti di Toronto”. Ora forse meno. Ma è vero che la memoria persiste, per due, anche per tre, generazioni.
L’emigrazione Teti analizza da tre punti di vista. Il viaggio (interno), la fuga (emigrazione), i ritorni (nuovi arrivi, ritorni in senso stretto) - ”la nostalgia dei locali incrocia altre nostalgie”. Da sempre, “senza soste”: “Fin dall’antichità la Calabria è stata il frutto di mobilità e di una continua re-impaginazione dei luoghi, senza ignorare una storia di passaggi, arrivi, invasioni”, i coloni greci, i romani, i bizantini, i normanni, gli arabi, i francesi, gli spagnoli.  “Da fuori arrivano” anche “i santi, che segnano culti, riti, fondazioni”.
Sembrerebbe un’analisi datata, storica. Anche perché un altro tassello Teti aggiunge al complesso del pregiudizio: l’emigrazione come violenza, subita e inferta - anche questo un pregiudizio ritornante, oggi sui barconi, a opera di eminenti sociologi. E invece no: l’emigrazione Teti inscrive in un tema più vasto, “il motivo della mobilità”, in Calabria e nel Meridione - ma nelle pianure venete, le montagne friulane, l’Appennino ligure-piemontese, non dev’essere stato dissimile. Non solo nell’emigrazione: “L’emigrazione non ha fatto che moltiplicare gli effetti di questa declinazione inquieta del motivo della mobilità”. Molto peraltro è cambiato, e molto no. Come dato di fatto, senza bisogno di letture. Il contadino di Rossano che dice a Nitti nel 1910: “Qui abbiamo un Dio che quando piove ci porta a mare, e quando non piove secca il mondo”, potrebbe averglielo detto due settimane fa, per l’ultima alluvione.
La patria di periferia
Il fondale è la Calabria. Terra di montagna e di mare. Come le isole, Sardegna, Sicilia. E, come la Sardegna, con un rapporto difficoltoso col mare, anche se, con i suoi 780 km. di costa, è quasi un quinto del perimetro costiero della penisola. Ma una regione fuori di sé. Plurima per linguaggi e mentalità, anche se “le Calabrie” è stata denominazione presto disusata, a differenza che per gli Abruzzi e le Puglie. Di grande mobilità – friabilità, fragilità – per frane, alluvioni e terremoti: centinaia di paesi abbandonati, rifondati altrove, delocalizzati. Nei soli terremoti del 1783 scomparvero 150 villaggi: 183 furono distrutti, 33 furono ricostruiti. È tuttavia un territorio e una popolazione che caparbiamente si ritrovano, nella parentela, nella compaesanità, e nella rete di fiere, feste, riti.
È la scoperta di Teti, della socialità diffusa e delle radici inestirpabili. In rapporto al presupposto – che è anche suo, del ricercatore – di una Calabria anarcoide e introversa che è però ricca di socialità, familiare e non – per alcuni, bisogna dire, perfino eccessiva, estendendosi ai comparaggi, le clientele, la paesanità. Fortissima questa nelle aree di emigrazione, che si fa per concentrazione, punti di agglomerazione-riproduzione delle comunità di partenza: paesi che si riproducono a Perth, a Melbourne, a Halifax, a Toronto, meno popolosi che all’origine ma più condensati.
Con molti debiti verso Alvaro: “Corrado Alvaro è il grande testimone e il commosso cantore della fine della civiltà dei contadini e dei pastori calabresi”. Che è vero, anche questo, ma senza la commozione e senza il canto: non c’è compiacimento né nostalgia in Alvaro - a differenza di Josef Roth, cui Teti lo appaia. La guerra invece, la sua guerra del romanzo autobiografico “”Vent’anni”, e dei racconti raccolti da Anne-Christine Faitrop-Porta sotto il titolo “Memoria del cuore”, Alvaro la vede come Teti dice, come uno spartiacque, e in certo senso come una vindicatio: di onestà, di purezza di cuore, che sono in fondo tutto il coraggio. Di un sacrificio senza corrispettivo e senza doglianza.
Un girovagare, questo volumone, approfondito a volte, per la “patria”. Un luogo che non può esere la regione, entità amministrativa, ma una condizione che quel nome evoca. A cui lo studioso tenta di reagire, e più spesso di porre rimedio, essendo la “Calabria”, come il “Sud”, una condizione carceraria, anche per colpe non commesse – il pregiudizio, lo stereotipo (di cui al nostro “Fuori l’Italia dal Sud”, 1993, coetaneo curiosamente di “La razza maledetta” dello stesso Teti).  Da Alvaro spaziando in letture più o meno congrue, Pasquale Rossi o Michelstaedter, ma più letterarie che antropologiche. Con l’ansia infine, purtroppo, della resurrezione in veste di turismo. Con i suoi interlocutori, con i migliori, i più illuminati, Teti si aspetta la resurrezione, il ripopolamento, la rinascita dei borghi abbandonati in grazia di feste, festival e ospitalità diffusa. Utopia, che maschera l’incostanza e la superficialità, causa ed effetto dell’abbandono – la partenza è anche una fuga, un desiderio di tagliare la corda, molto prosaicamente.
Il turismo, giusto come esempio, significa accoglienza. Accoglienza organizzata, semplice, “spontanea”, che si costruisce sul lungo termine, con la perseveranza e i piccoli passi, per la quale la “regione” non è portata, arrivata per ultima e vivendola all’ora del tutto subito. Il turismo del tutto subito è fatto per grandi numeri con forti investimenti, quelli che la “regione” rifiuta, mentre l’accoglienza è sedimentazione di lunga lena, non s’improvvisa.
Senza storia
La storia resta ancora da fare – la Calabria è curiosamente senza storia, un tempo perché non aveva università, ma ora ne ha tante: le poche che ci sono, di Placanica, di Bevilacqua, sono esercitazioni politiche. Ma anche l’antropologia, di una regione periferica, che non riesce a farsi centrale a se stessa – come la Sardegna per dire, o la Basilicata accanto. E più da alcuni decenni corrotta dalla sua stessa incapacità, che è divisione. Periferica a se stessa. In fuga costante, ma più smarrita che progettuale – l’emigrazione era, è, ben un progetto, e di che forza, la periferia è invece introversa e confusa. Un mondo di tutti contro tutti, o dell’acquiescenza supina alle “tradizioni” – “ma non ci so stare più di due giorni”, la nostalgia della nostalgia… Cioè contro se stessi.
Il nodo è la storia che manca – in questo senso Alvaro diceva la Calabria “la grande silenziosa”. Senza la quale anche l’antropologia resta di superficie. Una regione che ha di vivo solo il pregiudizio. Sconosciuta a se stessa, e per di più sprofondata in un “Sud” che, come Teti ben sa che lo ha esplorato, è un bastonatura ininterrotta senza misericordia.
Teti è un antropologo culturale curiosamente fermo al classismo - in realtà al partitismo, una sorta di giapponese in una giungla desertica. Di un’antropologia che si può dire di superficie. Ma ben raccontata. Con molte prelibatezze. Molte persone, oltre ai luoghi: Wenders, riservato, Sandro Onofri, sindaci, amici, familiari, allieve. Con molte foto, di Ugo Mulas (inedite), Salvatore Piermarini, Mario Dondero, Wim Wenders, e dell’autore.
Vito Teti, Terra inquieta, Rubbettino, pp. 486, ill., € 18

Nessun commento: