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mercoledì 18 novembre 2015

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (266)

Giuseppe Leuzzi

“Vai o non vai al Sud, il Sud ti è dentro come una maledizione”, Saverio Strati. In esergo a “Terra inquieta” l’antropologo culturale Vito Teti propone una serie di citazioni tutte memorabili. Strati, però, viveva nei pressi di Firenze, dove ognuno è forestiero – il fiorentino è molto chiuso nella sua unicità, anche con gli altri fiorentini.

Vero è invece Tahar Ben Jelloun: “Coloro che non hanno altra ricchezza che la loro differenza etnica e culturale sono votati all’umiliazione e a ogni forma di razzismo. Danno anche fastidio. La loro presenza è di troppo”.

Si moltiplicano di nuovo i libri di mafia, aggiornati alla ‘ndrangheta. Finito il ribaldo Berlusconi, si vede che la voglia di turpitudine non è e questo cessata, e si torna al genere usato, pronubi Enzo Biagi e invadenti cronisti giudiziari. Sono libri di e su pentiti. La storia fatta dai pentiti, è mai scesa così in basso? E dai Procuratori dei pentiti, certo – ogni pentito ha un Procuratore.

Aspromonte
È il “Luogo dell’Inaccessibile”, l’“ultimo, romantico baluardo dell’’Ignoto”. Ma “quanto sarà grande questo terribile Aspromonte? Mah, più  meno come le Langhe, come la Brianza, come il Friuli, ci risponde chi lo conosce, giusto per darci un’idea. A sorvolarlo in elicottero ci si mette di meno che ad attraversare Milano o Roma in automobile. Beh, ma allora?” La risposta è che è pieno di forre, canaloni, fittissime boscaglie e occulte grotte. Non è vero, ma “l’inesperto tace, pensando però in cuor suo che l’Aspromonte, con tutto il rispetto, non può essere più ostico delle sierre americane, delle giungle asiatiche, delle hjghlands scozzesi, delle Cévennes francesi, territori anch’essi, ai tempi loro, pieni di forre, canaloni e fuorilegge, e che nondimeno un adeguato John Wayne, alla testa di un adeguato 7° Cavalleggeri…”.
È “Il ritorno del cretino”, di Carlo Fruttero e Franco Lucentini.

A lungo, per quasi quarant’anni, è stato sinonimo di rapimenti di persona. Paolo Pollichieni he ha fatto il censimento per i quarant’anni della “Gazzetta del Sud”, 1952-1992, con questi numeri: 134 sequestri operati in Calabria, 24 rapimenti eseguiti a Roma e al Nord, Piemonte, Lombardia, con gli ostaggi trasferiti nell’Apsromonte - più 56 operati fuori Calabria a opera di malviventi calabresi. In questi termini: “Una via crucis della Calabria che ha visto la sua immagine trasferirsi, nel’immaginario collettivo, in quella di terra dei sequestri, battendo in questo triste primato anche la Barbagia”. Con molte “stranezze”: “Un fenomeno prima sottovalutato, poi trattato con grande dilettantismo investigativo, mai compreso ed esplorato nella sua essenza socio-criminale. Si è tentato perfino di convivere con i sequestri”.
Le stranezze arrivano attorno al 1990. I paesi protestano, le donne, i giovani, i vescovi, i parroci. Il 1990 vede due soli rapimenti. Ma il Nucleo Anti Sequestri Polizia di Stato (Naps) viene smantellato. La caserma dei “Cacciatori (Carabinieri) nel cuore dell’Aspromonte, completata dopio vari attentato, resta inutilizzata. Nel 1991 i sequestri sono dieci. “E comimncia la stagione delle «stranezze». Cominciano gli «errori» dei sequestratori, si susseguono «conflitti a fuoco», in cui tutti sparano ma nessuno sa farlo bene, si impongono figure di «ostaggi Rambo» che strappano catene, spaccano lucchetti, corrono alla velocità della luce e beffano i loro custodi”.
Effetto di assicurazioni ben riuscite?

Sullo stesso speciale della “Gazzetta del Sud” Franco Calabrò inanella una serie di gustosi ricordi della Montagna, da cronista di mala di lungo corso. Uno in particolare merita di essere ripreso: “Emilio Santillo fumava sigari Avana, enormi e profumati. Sulla sua scrivania teneva una pistola col calcio di madreperla con la quale amava gingillarsi, mentre intratteneva – e la cosa era ormai un rito – l’inviato del giornale del nord spedito di corsa «laggiù» per sentire cosa veramente questo gentiluomo campano (per noi tutti era «lo sceriffo”) avesse scoperto dopo l’Appalachin della ‘ndrangheta, dopo la sorpresa nella radura di Montalto, uno spiazzo tra enormi faggi nel quale, la prima domenica d’ottobre del 1969, i notabili della mafia della provincia di Reggio Calabria stavano tenendo una riunione”.
Già questi mafiosi divisi amministrativamente per provincia – per questura – mettono in allarme. Ma il meglio deve venire – i mafiosi sono anche incappucciati, come una setta: “I nomi delle persone incappucciate? «Ve li daremo, ma non adesso. Aspettate e vedrete». Così il questore Santillo rassicurava gli inviati, offrendo sigari e whisky, centellinando a sua volta le notizie, una al giorno. «Così – diceva – li teniamo qui». Per tre anni la favola degli incappucciati di Montalto, degli insospettabili, grosse personalità del mondo politico si diceva, fatte fuggire nel momento dell’irruzione della polizia, è stata ripetuta, condita in tutte le salse”.
Non si può scappare dal Montalto, in cima all’Aspromonte, non ci sono caverne sotterranee o altre vie di fuga. Ma ecco il meglio: “Siamo stati in pochi («gli altri vanno via, voi restate – diceva Santillo - perciò state attenti!») a saperlo dall’inizio: gli incappucciati di Montalto non sono mai esistiti. È stata la brillante e un po’ cinica trovata di Santillo, il quale, così facendo, era riuscito a far tenere i riflettori accesi su di lui per mesi, per anni addirittura. Tornando a Reggio Calabria, in qualità di capo dell’Antiterrorismo, lo confessò apertamente, sbottando in una grossa risata: «È stata una mia invenzione – disse – i politici incappucciati a Montalto non c’erano, ma i fatti stano dimostrando che nella mafia ci sono, eccome»”. Se non è zuppa pan bagnato, si direbbe in toscano.

Africo rossa
C’è un’altra Africo oltre – accanto? – a quella nera di Gioacchino Criaco e Francesco Munzi, violenta, lacrimosa. E a quella inverosimile di Corrado Stajano, che si riedita immortale - Africo infeudata a un prete, peraltro poco o nulla mafioso, un don Camillo del sottogoverno. È quella di Rocco Palamara, a suo tempo celebrata, giusto prima che il nero la ricoprisse. Palamara, rintracciato da Antonella Italiano alla periferia di Roma per il suo mensile “In Aspromonte”, ha un’altra Africo: attiva, imborghesita, anche nella contestazione, da “eretici anche tra gli anarchici, ai quali io per primo mi accostai da autodidatta”. Un paese proiettato decisamente verso il nuovo: “Il paese passava il periodo migliore della sua storia: terminata la vita nelle baracche dei campi profughi, tutti avevano una casa vera. Con i proventi degli emigrati c’era un livello di vita mai visto. I ragazzi in età frequentavano al 90 per cento le scuole superiori”. Dacché facevano appena le elementari in un’aula-stalla, gli “africoti “ primeggiavano “da ogni punto di vista all’università di Messina” – allora la Calabria non aveva una università.
Negli stessi anni i ragazzi partecipavano, ad Africo e nei dintorni, nella cosiddetta “Locride”, in massa a manifestazioni spontanee per la legalità: “Una mattina, mentre con mio cugino e mio fratello passeggiavamo nel cortile per l’ora d’aria, al muro di cinta ci chiamò la guardia per dirci che fuori della porta del carcere c’erano più di mille studenti che reclamavano la nostra liberazione. Era il 30 aprile 1971, e quella fu, credo, la prima manifestazione antimafia in assoluto”.
Rocco Palamara ha una storia movimentista unica in Italia, benché ignota. Ragazzo, fu “come tutti” nel Pci, nella federazione giovanile. Manifestando spesso: “Facevamo frequenti scioperi che vivevamo come feste popolari, bloccando, se era il caso, i treni e la Statale 106”. Fino al 1968. Quando Palamara fondò un circolo anarchico, dice, “maoista”. Ma anche questa esperienza si dissolse. Palamara allora si attaccò alla ‘ndrangheta, che metteva i tentacoli, “legata a un noto personaggio del sottobosco democristiano”. Nella disattenzione dei Carabinieri e con la complicità dei tribunali. È uno spaccato di verità che Palamara dà, che gli storici purtroppo trascurano, ma non chi quegli anni ha vissuto, sul “ruolo nefasto di moltissimi inquirenti e magistrati che, invece di combatterli, favorirono i boss nella loro conquista mafiosa della Calabria”. La vecchia mafia, l’“onorata società”, si era dissolta o era marginale, e mai avrebbe pensato di essere rigenerata dallo Stato, e anzi”mafiosizzata”, con le mani sull’economia – questo non lo dice Palamara, ma è quello che è avvenuto, a cui si riferisce.
I Palamara non erano mafiosi, ma armati sì. I giovani, perché i genitori di Rocco se n’erano andati a Milano, dove facevano i panettieri. Dopo le prime spedizioni punitive subite dai mafiosi di paese, Rocco prese la pistola e sparò anche lui. I Carabinieri addossarono la colpa a lui. Rocco allora andò in caserma per autodenunciarsi, ma come legittima difesa, dopo le angherie e le sparatorie a scopo intimidatorio subite. Fu l’inizio di una lunga persecuzione, da parte dello Stato. I giudici incolparono Rocco Palamara di rissa aggravata e tentato omicidio, lui e non i mafiosi. In concorso col fratello Bruno, 17 anni, che non c’era nella scena della sparatoria, e il cugino Salvatore, 16 anni, con il quale Rocco era seduto sulla porta di casa al momento dell’arrivo dei sicari. Diciotto mesi di carcere, tutt’e tre, fino al processo con assoluzione. Non uno dei sicari e dei mandanti venne perseguito. Né allora né dopo, per i tanti attentati che i Palamara subirono. Neanche per l’azzoppamento a fucilate dello stesso Rocco nel 1975. Anzi, per l’uccisione a fine 1976 del cognato Salvatore Barbagallo, insabbiarono le indagini.
Al contrario, quando un piccolo fascista di un paese limitrofo denunciò un getto di benzina sulla sua auto e ne accusò due fratelli di Rocco, Bruno e Gianni, i due furono subito arrestati. E quando dimostrarono che si trovavano a Torino al momento del fatto, i giudici li incolparono lo stesso come mandanti. E li condannarono a cinque anni di prigione.
Sono rimasti invece ad Africo i Criaco. Gioacchino, al quale è dovuta la leggenda nera, e la mitografia della gente povera – anche se i Criaco di Africo sono professionisti. Eccetto il fratello minore dello scrittore, killer di mafia. Un omonimo del fratello, Pietro, ora insegnante nei dintorni di Torino, è stato nell’estate del 1985, durante le vacanze scolastiche a Africo, autore del film “Terrarossa”, ispirato al racconto “La Teda” di Saverio Strati. Una Maria Criaco pubblica una poesia sullo stesso fascicolo di “In Aspromonte” che  registra l’incontro con Rocco Palamara.

Africo nera – 2
La storia nera di Africo è legata bizzarramente ai Criaco. Pietro Criaco ricorda il suo film “Terrarossa” su “In Aspromonte” con astio. Il suo contributo al mensile titola su internet “Il film «Terrarossa» fu un plagio del regista Molteni”. Il mensile evita questo titolo, una pagina dando ai protagonisti locali dell’impresa, amici e compagni del giovanissimo regista con la sua cinepresa da amatore. Un film della cooperativa “Il grido”, antonioniana, dice una locandna dell’epoca, ma questo Criaco oggi lo dimentica. È invece avvelenato col regista Pietro Molteni che nel 2001 ha tratto da “La Teda” un film commerciale, con lo stesso titolo di Criaco, bisogna dire. E con Walter Pedullà, allora presidente della Rai, che non comprò il suo film. Ma anche Strati, a cui Pietro Criaco andò a far vedere il film a Scandicci, si mostra tiepido nel ricordo dello stesso improvvisato regista.
La storia propriamente nera di Africo è quella dell’altro Pietro, il fratello di Gioacchino. Un killer di mafia, a Africo, Milano e dintorni, e in terra straniera. Il vero personaggio e la vera storia che Munzi ha girato, il cui “Anime nere” non ha nulla a che vedere come soggetto - in parte come personaggi ma in altro contesto - col romanzo di Gioacchino, solo il titolo hanno in comune. La vicenda del film è invece quella di Criaco jr., Pietro. Gioacchino assicura alla “Stampa” che Pietro “non ha mai commesso un omicidio”. Ma la Polizia non lo crede. Pietro era uno dei trenta ricercati più pericolosi, anche se fu arrestato, la notte di Natale del 2008, in famiglia con la moglie, Nadia Romeo, e i due figli - lo arrestò il capo della Mobile di Reggio Calabria Cortese, che per questo fu promosso a Roma, e poi a capo dello Sco della Polizia, il servizio operativo centrale.
Pietro si era illustrato sui giornali per aver voluto, latitante, dare l’estremo saluto al suo capomafia assassinato, il 13 ottobre 1997, dalla “famiglia rivale, i Cataldo, con una scarica di pallettoni che gli avevano quasi staccato il capo. Si era fatto strada tra i partecipanti al lutto, e chinatosi sul cadavere lo aveva baciato. Quella sera stessa uno dei Cataldo era stato assassinato, e altri subirono la stessa sorte nei giorni seguenti. Agli atti Pietro, al 41 bis, è classificato come “elemento tra i più pericolosi e violenti della famiglia Cordì, inseparabile compagno di Cordì Salvatore (figlio di Cosimo), cono il quale è stato concorrente in diversi fatti di sangue. La sua attività spiccatamente «militare» è tenuta molto in considerazione dai membri della famiglia Cataldo”.
In un' intercettazione prima del’assassinio di Cosimo Cordì, maggio 1997, si sente Pietro Criaco parlare di un fallito agguato contro due avversari e dell’organizzazione di un nuovo attentato: “Io non so come cazzo sono usciti... Gli è andata bene, gli è andata... Vediamo il bazooka di cacciarlo fuori... Che gli si caccia il cuore di fuori e glielo si mangia... Si deve menare... È in tutto il soggetto di  “Anime nere”.
Quando “ho visto il film per la prima volta a Venezia, ho incomimciatpo a piangere dopo pochi minuti e non ho smesso”, dice Gioacchino Criaco a “La Stampa” 17 settembre 2014. Dice che lo stesso avviene a Africo e a Catanzaro: “Tutte le persone di Africo, presenti in sala, piangevano. È successo anche ieri durante l’anteprima a Catanzaro. La gente comune, quelli della mia estrazione, piangerà”. Criaco non sappiamo, che si è laureato alla Cattolica a Milano e vi esercita. Ma la gente comune in Calabria non piange, quando mai?

Il film di Munzi-Rai è violento in tutto, politicamente scorretto: il lutto come esibizione, la crudeltà, la sopraffazione, nonché il tradimento costante, dai parte dei deboli, di cuore e di denaro, e la virtù – l’applicazione, il lavoro, gli affetti familiari – ridicolizzata in culti insensati, in pratiche bizzarre, nella stupidità. Con le “umili origini” sempre, e l’“estrazione”, mentre magari dire delinquenza sarebbe stato meglio. Il padre dei Criaco, Domenico, è stato assassinato nel 1993 in una faida di mafia, Gioacchino aveva 28 anni, era già a Milano.

leuzzi@antiit,.eu

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