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sabato 12 novembre 2016

Le civiltà sono come le donne, attraenti ma non uguali

Il primo saggio è uno di una serie di opuscoli dell’Unesco, nel 1952, sul razzismo nel mondo. Il secondo, 1971, sempre per l’Unesco, si segnalò per la scorrettezza: le differenze culturali esistono – l’Unesco protestò. Il volumetto si completa con un’intervista di Lévi-Struss a Marcello Massenzio, lo storico delle religioni, nel giugno del 2000, sulla sua esperienza intellettuale e scientifica.
L’assunto è presto detto: una ineguaglianza di razze non c’è. Ma c’è, a quella legata strettamente, alla presunta ineguaglianza di razza, una ineguaglianza – o diversità – di cultura. Sembra semplice, ma poi non lo è. Lévi-Strauss non per questo arretra: vuole essere preciso, sulla base della sua esperienza. Anche nell’ambito Unesco, delle “buone parole” e delle “omelie morali”.
“Barbaro” è nozione allusiva, imprecisa: probabilmente la confusione e l’inarticolazione del canto degli uccelli, una sorta di lallazione. “Selvaggio” è più preciso, viene dalla selva, dalla foresta.  Ma è concetto applicato soprattutto dai “selvaggi” stessi: la nozione di umanità è segno di cultura, e compare tardi.  Per i selvaggi la tribù è tutto: “uomo”, “buono”, eccellente”, “completo”. L’estraneo è perfino “fantasma” o “apparizione”. Ma chi esclude, o nega, prende il carattere dell’altro: “Il barbaro è anzitutto l’uomo che crede nella barbarie”. Non solo: l’evoluzione biologica ha molto più fondamento che l’evoluzione sociale o culturale. La partita, insomma, è complicata.
Ci vuole prudenza anche nella concezione del progresso. “L’idea di progresso”, § 5, viene svolta con semplicità ma terremotata: “Lo sviluppo delle conoscenza preistoriche e archeologiche tende a disporre nello spazio forme di civiltà che eravamo propensi a immaginare come successive nel tempo. Il che significa due cose: anzitutto che il «progresso» non è né necessario né continuo; procede a salti, a sbalzi, o, come direbbero i biologi, per mutazioni”, e non va rettilineo ma come il cavallo degli scacchi, “che ha a sua disposizione svariate progressioni ma mai nello stesso senso”.
E qui l’etnologo introduce le nozioni poi molto contestate di storia stazionaria e storia cumulativa.
La storia è per lo più staziona ria. Solo di tanto di tanto evolve. Ma non ordinata a un metro: “L’umanità in progresso non assomiglia certo a un personaggio che sale una scala,  che aggiunge con ogni suo movimento un nuovo gradino a quelli già conquistati; evoca semmai il giocatore la cui fortuna è suddivisa su parecchi dadi e che, ogni volta che li getta, li vede sparpagliarsi sul tappeto, dando luogo via via a computi diversi”. Quel che si guadagna sull’uno si è sempre disposti a perderlo sull’altro, e solo di tanto in tanto la storia è cumulativa”. Ma, poi, la storia è in rapporto al punto di vista: non si riconoscerà vivacità  o brillantezza a una storia che per noi non dice nulla. Lo sviluppo è un fatto, è quantità di energia. Il progresso è storia – oggi si dice narrazione.
Il § 7 esamina il “Posto della civiltà occidentale”. Premonitore in quell’epoca trionfante postbellica. È in corso “una occidentalizzazione integrale del pianeta, con alcune varianti, ad esempio russa e americana”? L’etnologo non può che rilevare “che l’adesione a generi di vita occidentali, a certi suoi aspetti, è ben lungi dall’essere così spontanea come agli Occidentali piacerebbe credere”.  C’è una diseguaglianza di forze, una “sproporzione di energie”, che gioca per l’Occidentale, ma non una scelta. Discutere dei valori, della superiorità dei valori, è inutile. D’altra parte, la prospettiva storica è per l’etnologo epocale: si misura in ere e non in secoli, nemmeno in millenni: “Dipendiamo ancora dalle immense scoperte” del neolitico: “l’agricoltura, l’allevamento, la ceramica, la tessitura…”.  C’è chi fa i grattacieli e chi costruisce col fango, ma siamo tutti nella stessa esperienza: l’Occidente è – era – solo più “cumulativo”.
Le civiltà? Sono come le donne, attraenti ma non uguali, a meno che non si voglia stabilire una graduatoria: “Il grande filosofo inglese del XVII secolo, Hume, si è un giorno applicato a dissipare il falso problema “ del “perché mai non tutte le donne siano carine ma solo un’esigua minoranza”. Hume smantellò il problema: “Se tutte le donne fossero altrettanto carine della più carina, noi le troveremmo banali e riserveremmo il nostro qualificativo alla piccola minoranza che sorpassasse il modello comune”. Lo stesso con le graduatorie di civiltà: “Il progresso è sempre soltanto il progresso massimo in un senso predeterminato dal gusto di ognuno”.
La razza – è qui il punto controverso - è solo teorizzabile come “assioma posto in assoluto, in quanto si ritiene impossibile, senza di essa, rendere conto delle differenze attuali”. La differenza originaria, al netto da incroci continui, non è ipotesi scientifica, verificabile cioè. Ma le differenze ci sono. E quindi la razza rientra dalla finestra, come caratteri acquisiti. È come diceva Gobineau: il padre del razzismo era “perfettamente consapevole che le razze non erano fenomeni osservabili: egli le postulava unicamente come condizioni a priori della diversità delle culture storiche, che altrimenti gli pareva inesplicabile,  benché riconoscesse che le popolazioni che avevano dato origine a queste  culture provenivano da misture fra gruppi umani che a loro volta risultavano da altre misture”.

La mescolanza, il meticciato, è così che le culture ai affinano. La diversità “è funzione non tanto dell’isolamento dei gruppi quanto delle relazioni che li uniscono”. È tema costante di Lévi-Strauss, per esempio, in questa accezione, in “Lo sguardo da lontano”: “Esiste fra le società un certo ottimo di diversità che non deve essere superato, ma sotto il quale non si può neppure scendere senza pericolo”. La diversità – disuguaglianza – è necessaria e benefica. Il relativismo è il motore del progresso – o dell’“ottimo di diversità”, del quale, tanto è benefico, “ci sentiamo in dovere di pagare il prezzo”.
Se non che – uscendo dal dibattito sul “rapporto fra evoluzione organica ed evoluzione culturale in termini che Auguste Comte avrebbe chiamato metafisici” – “l’evoluzione umana non è un sottoprodotto dell’evoluzione biologica, ma neppure ne è completamente svincolata”.  Ciò che dispiacque al fondamentalismo Unesco. Ma l’antropologia ne è certa. Anche se si parla a sproposito di razza: si chiama razziale il “principio competitivo”, per “lo spazio libero, l’acqua pura, e l’aria non contaminata”, e contro chiunque - c’è razzismo, nota Lévi-Strauss, anche contro gli hippies
Claude Lévi-Strauss, Razza e storia. Razza e cultura, Einaudi, pp. XVIII-116 € 16

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