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sabato 30 giugno 2018

Secondi pensieri - 351

zeulig


Copernico – Si autoribalta nel paradosso cosiddetto di Fermi, solo consequenziale allo scientismo – “where are they?” (se l’universo pullula di civiltà sviluppate, dove sono?). L’assunto che si dice “copernicano”: che i pianeti ruotando attorno al sole l’umanità non è al centro dell’universo, creato o non che sia.
Paradosso o no, resta che l’umanità è comunque al centro dell’universo, per il solo fatto che si pone il problema.

Destino – Si presume prestabilito, ineluttabile, e ìgnoto, finché non si produce, sorprendente. Mentre è vario, indistinto anche. E quando “colpisce è la realizzazione di un’attesa, un incumbent - un’attesa temuta. È il caso quando si ritiene preconfigurato – benché solo ex post.
Con lo stesso criterio (certezza) il destino si può configurare  favorevole.

Discontinuità – Ne siamo ossessionati, in attesa del diluvio, dell’asteroide, della siccità, della deflagrazione: un’età si vuole in cui tutti siamo morti. Per poi, chissà, rigenerarsi in altra forma. Tutto il contrario dell’evoluzione nella quale crediamo – diciamo di. Che vorrebbe il contrario. Forse si gioca qui la partita col creazionismo. Anche se Dio verrebbe a essere materia bruta. Ma non inerte, giacché discontinua – in grado di produrre discontinuità. E in qualche modo intelligente: combinatorio e non soltanto distruttivo.
Nulla a che vedere con la ciclicità. A meno che il ciclo non sia della discontiniità, della periodici cupido dissolvendi – dell’ideologia della fine (altra “prova” di Dio: finisce ciò che ha inizio).
È dunque la “prova” di Dio?

Dubbio – Si presenta come un antidoto. Perché, la verità sarebbe velenosa?
È uno strumento, un forcipe. Lo strumento della verità: domandare, domandarsi.
È anche una condizione antropica: di chi è indeciso, o incerto per carattere, di chi pensa male, di chi rifiiuta (si rifiuta)… Ma questa non è un’altra cosa – di rilievo filosofico?

Se ne fa il festival, tra i tanti della “mente”, alla Milanesiana. Dove Michael Cunningham  smantella ogni dubbio: “Più fede equivale a meno dubbio”, e “eccoci qui, vivi, tutti noi, adesso”. Il dubbio qui è se i festival della mente sviluppino la mente. Anche se solo promuovendo qualche romanziere, quale è Cunningham.

Inadeguatezza – Spiega Fellini in un’intervista (con Toni Maraini, “Imago”), in risposta a una domanda sulla maturità: “Per sapere se tramite il lavoro io abbia  maggiore conoscenza di me stesso,  mi sembra che non ci sia evoluzione e di trovarmi sempre bloccato e intrappolato nella stessa età”. Esperienza comune all’artista, che vive “assoluto”, sciolto – dal tempo, dal tempo storico anche, anche dal luogo. È una categoria morbosa, recente, voce e strumento di psicoanalisi.

Memoria – È personale. Anche quella storica, la storia. Fino a una forma di dissociazione, che ha qualcosa della schizofrenia.
Un artista che rivendica la mancanza “del senso del tempo che passa, del passato”, Federico Fellini (“Imago”, intervista con Toni Maraini), ne sintetizza le modalità come ripiego strategico e invenzione – pur riducendolo a un limite personale (“Non ricordo. Non ho il senso del tempo che passa, del passato”):  “Non so più che cosa mi sono inventato sino al punto di credere che sia veramente esistito”. E quando è “messo a confronto con documenti e testimonianze di allora”, aggiunge, “ho la sensazione che siano prove che appartengono a qualcun altro, o comunque a qualcuno che non ha veramente più nulla a che fare con se stesso”.
In quest’ultimo accezione la memoria è configurata, dallo stesso Fellini, come una forma di schizofrenia. Almeno per l’uomo “artista”, il creativo: “Per coloro che chiamiamo – con una definizione quasi infamante – ‘artisti’, questo mi sembra d’obbligo. Per artista s’intende qualcuno che si mette di fianco a se stesso o, comunque, un poco distanziato da sé, per osservare che cosa stia accadendo. Per vedere come se la sta cavando quell’altro, quello che gli altri chiamano per nome e cognome e che identificano in qualcuno che ha difficoltà a riconoscersi. Ctredo che questo sia lo sfasamento tipico  di chi è incline a vivere la vita per raccontarla, senza ricorrere all’ideologia”
Lo stesso per lo storico?
Che non è il procedimento creativo per sé, che anch’esso per altro verso ha un che di schizofrenico, ma quello che “ricostituisce”.

Scrivere - Rilke nelle lettere parla del giovane Malte come di uno alle prese con una prova alla quale dovrà soccombere. E qual è la prova di Malte Laurids Brigge? Il libro non è scritto se non al prezzo, per Rilke, di una privazione di sé durata dieci anni. Rilke dice soltanto, di lui e di sé: “Nel-lo sconforto conseguente, Malte è giunto dietro a tutti, in una certa misu-ra dietro la morte, al punto che niente mi è più possibile, neppure morire”. Pound sottoscriverebbe: “La letteratura è novità che resta novità”. Che pare legare l’odierno all’antico, il curioso al saggio, il lieve al profondo.
“La grandezza di quello che si scrive dipende da ciò che si è scritto e fatto altrove”, è una delle trovate di Wittgenstein. Ma è barriera quadrupla, con siepe e fosso, da non mostrare al purosangue.
Scrivere era nel mondo antico attività servile, non ci sono scrittori classici allo scrittoio. Secondo Platone, anzi, quando il dio Toth inventò la scrittura, il faraone si preoccupò che l’uomo dimenticasse di ricordare. Poi viene san Luca, che scrive perplesso. Saranno i monaci a farne un’arte, votati al celibato, solitari in cella, in clausura, e il letterato diventa uno che legge e scrive.
Lo scrittore è un soldato, dice Thomas Mann, per “entusiasmo, ordine, solidità, esattezza, accortezza, coraggio, costanza, radicalismo morale, dedizione estrema, impiego di tutte le energie”. Si vede che non ha fatto il militare – anche se ha ragione, per celebrarsi a quarant’anni in seicento pagine successore della triade della superiore germanicità, Schoenhauer, Nietzsche, Wagner, l’autore deve credere a se stesso. Scrivere si può solo come dice Flaubert, naturalmente: da Dio. Uno che sta ovun-que e in nessun luogo. Che sa tutto e nulla. Ed è inutile.

Scrivere non è una storia che si scrive da sé – non c’è storia che si scriva da sé. Ma non è necessario scrivere utile. Preciso sì, è la narrazione. Una scrittura che dice - racconta – è quella di Darwin, il naturalista. Prima erano Seneca e Tacito, gli stoici della Età dell’Argento, che hanno imposto un flusso re-golare e netto alla prosa, contro il linguaggio sinuoso, che afferma e nega, anticipa e ritarda, eccita e non conclude, specchio insopportabile della contemporaneità, di eleganza frigida. Ma lo storico finisce nell’ombra, da cui si vuole invece uscire, e lo stoico è parente pericoloso: lascia l’azione a servi e messaggeri e straparla. Perfetto per le trame sanguinose e la lingua, che mescola il tragico al quotidiano.

Verità – Non è una tensione, cozza contro una tensione, la forza del male (errore, inganno, tentazione).Lo immagina Fellini, argomentando sulla “rimozione delle voci della fantasia e dell’intuizione”, tema propostogli da un’intervistatrice, Toni Maraini, “una forza contraria che, al di là di questioni politiche o religiose, sembra voler nascondere la verità”, una forza “in forma di  autodifesa, una forza del Maligno”. La verità è Dio, cioè l’opposto del Maligno.

 zeulig@antiit.eu

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